Vittorio Emanuele: processi, armi e jet set la vita spericolata del principe senza corona - la Repubblica

Cronaca

Vittorio Emanuele: processi, armi e jet set la vita spericolata del principe senza corona

Vittorio Emanuele: processi, armi e jet set la vita spericolata del principe senza corona

Sempre assolto anche per la morte di Hamer. La sorella del ragazzo: “Delitto senza castigo”

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«Ho pianto per così tanti anni, per Dirk, per mia madre, perché la Giustizia è stata ingiusta. Cosa sento oggi? Liberazione. Grazie al mio libro e al documentario su “Netflix” il mondo sa quali sono le responsabilità di Vittorio Emanuele. Non ha mai pronunciato una parola di pentimento. Un sollievo che sia morto. Adesso sarà il tribunale divino a giudicarlo». Si congeda così Birgit Hamer, sorella di Dirk, il giovane tedesco di 19 anni che morì per un proiettile partito dal fucile del principe di Savoia sull’isola di Cavallo nel 1978, da quella che è stata l’ossessione della sua vita: dimostrare la colpevolezza dell’erede al trono d’Italia per la morte di suo fratello. Invece, la storia è nota: Vittorio Emanuele Alberto Carlo Teodoro Umberto Bonifacio Amedeo Damiano Bernardino Gennaro Maria di Savoia, figlio di Umberto II, iscritto alla loggia P2 di Licio Gelli con la tessera numero 1621, nato in Italia e vissuto in esilio in Svizzera fino al 2002, indagato per traffico internazionale d’armi dal giudice Carlo Mastelloni, arrestato con l’accusa di associazione a delinquere dal Pm John Woodcock nel 2006, è riuscito a uscire sempre assolto da tutti i processi. O meglio a «fregare i giudici», come disse — con eleganza — il principe detenuto nel carcere di Potenza, in un’intercettazione di cui fu poi diffuso il video, nel quale ammetteva di aver sparato lui il colpo mortale che avrebbe ucciso il giovane Dirk. «Io ho sparato un colpo così e un colpo in giù, ma il colpo è andato in questa direzione, è andato qui e ha preso la gamba sua, che era steso, passando attraverso la carlinga».

L’ammissione

Una clamorosa ammissione di colpa nonostante nel 1991, durante un processo pieno di ombre e omissioni, Vittorio Emanuele fosse stato assolto dall’accusa di omicidio dalla Corte d’Assise di Parigi e condannato — soltanto — per porto abusivo d’armi. Queste le amare parole di Birgit Hamer: «Per 13 anni mi ero battuta per ottenere quel processo. Avevamo montagne di prove, ma loro erano troppo potenti. Politica, aristocrazia e massoneria mondiale si erano mobilitate per depistare il processo. Ero Davide contro Golia. Fu una farsa. Vittorio Emanuele è stato assolto. Mia madre era morta nell’attesa di avere giustizia per Dirk. Riposano insieme nel cimitero acattolico di Roma. Finimmo in pezzi».

Mai salito al trono

Mentre gli ultimi monarchici nostrani piangono anacronisticamente il Savoia mai salito al trono, del passaggio in Italia di Vittorio Emanuele restano mestamente soltanto lunghe scie di scandali e processi. Eppure fin dai primi anni dell’esilio, quando il 13 giugno 1946, dopo la vittoria della Repubblica, Umberto II, Maria Josè, con i figli Vittorio Emanuele, Maria Pia, Maria Gabriella e Maria Beatrice, si imbarcarono su un aereo diretto a Cascais in Portogallo, la famiglia Savoia aveva sempre a gran voce chiesto di poter rimettere piede sul suolo italiano. Istanza di cui si facevano storicamente paladini i partiti di destra, in particolare l’Msi di Almirante, e i vari movimenti nei-monarchici (oggi estinti) tra cui il Partito monarchico popolare dell’armatore napoletano Achille Lauro, quello delle «mani sulla città».

Lo sbarco a Napoli

Sbarco che il 15 marzo 2003 effettivamente avvenne, dopo la cancellazione in Parlamento della norma transitoria che impediva agli eredi maschi della real casa di tornare nel nostro paese, durante il secondo governo Berlusconi. Accolti a Napoli da un gruppetto di sudditi nostalgici di aristocrazie perdute, Vittorio Emanuele, Marina Doria, amatissima moglie borghese ex campionessa di sci sposata a Theran contro la volontà di Umberto II e un emozionato Emanuele Filiberto, poi ambasciatore della dinastia tra “Ballando sotto le stelle” e “L’Isola dei famosi”, mettevano fine all’esilio di casa Savoia 57 anni dopo. Vittorio Emanuele però, nonostante il dichiarato amore per l’Italia, da cui era dovuto partire a dieci anni, è sempre rimasto a vivere in Svizzera, nello chalet di Gstaad, con cervi impagliati alle pareti, pelli di tigre e fasto anni Settanta. Troppo complicata l’Italia con i suoi giudici e quei processi per associazione a delinquere, gioco d’azzardo, vallettopoli e celle da dividere con detenuti comuni. E pur avendo giurato sulla Costituzione pur di mettere fine all’esilio, rinunciando naturalmente ai beni di casa di Savoia, ha poi intentato insieme alle sorelle, un processo per poter tornare in possesso dei gioielli della corona, oggi custoditi in un caveau della Banca d’Italia e di proprietà dello Stato.

Le estati in Corsica

Meglio Gstaad, allora, e le estati nella villa sull’isola di Cavallo, in Corsica, oasi privata per ricchi in mezzo al mare, davanti a Porto Cervo, dalla quale, così raccontava negli anni dell’esilio, «potevo guardare la mia amata l’Italia». Peccato che proprio in quel paradiso perduto nella notte tra il 17 e il 18 agosto del 1978 il mare della Corsica si macchia di sangue. Vittorio Emanuele, noto per il carattere iracondo e l’uso improprio dei suoi fucili, in affari con il conte Corrado Agusta e trafficanti di mezzo mondo per opache vendite di armi, spara a freddo contro le barche in cui dorme un gruppo di ragazzi italiani romani, arrivati da Porto Cervo “rei” di aver preso in prestito lo zodiac di suo figlio Emanuele Filiberto. Una di quelle pallottole recide l’arteria femorale di Dirk Hamer. Morirà in Germania, dopo centoundici giorni di agonia. La sua fine resterà per sempre un delitto senza castigo.

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