Nozione, implicazioni ed applicazione ai nostri giorni di un istituto tanto antico quanto attuale: il timore reverenziale

 

La nozione di timore reverenziale

Il timore reverenziale consiste nella soggezione – talvolta nel rispetto – che si provano verso una figura autorevole, per motivazioni quali l’età, il prestigio, la posizione ricoperta o il rapporto tra le parti.

Esempi classici sono la soggezione del figlio nei confronti del padre, del dipendente nei confronti del datore di lavoro o dell’allievo nei confronti del maestro[1].

Il timore reverenziale viene in rilievo nell’ambito del diritto privato in quanto considerato idoneo ad inficiare, in determinate situazioni, la necessaria libertà contrattuale di una delle parti del negozio giuridico (quella ovviamente che prova nei confronti dell’altra detto sentimento).

La nozione si ritrova all’art. 1437 c.c. ed è laconica: “Il solo timore reverenziale non è causa di annullamento del contratto”.

La normativa non ne dà quindi una precisa definizione, ma non lo considera un elemento di per sé sufficiente ad inficiare la volontà contrattuale.

Dottrina e giurisprudenza sono piuttosto scarne in materia, proprio perché, affinché il timore reverenziale abbia rilievo a livello contrattuale, è necessario che venga analizzato ogni caso concreto e che lo stesso sia affiancato da altre fattispecie criminose o quantomeno illecite dal punto di vista privatistico.

 

Un passo indietro: i vizi del consenso

I vizi del consenso sono elementi che possono portare all’annullabilità del contratto e sono, ai sensi dell’art. 1427 c.c.:

  • l’errore,
  • la violenza e
  • il dolo.

 

In presenza di uno di essi, la volontà del soggetto è considerata viziata, poiché in loro assenza essa non si sarebbe determinata o si sarebbe determinata a condizioni diverse[2].

Dottrina e giurisprudenza hanno considerato l’elencazione di cui sopra difettosa[3] ed incompleta[4] e (a differenza di quanto avvenuto per il timore reverenziale) entrambe sono state prolifiche di orientamenti e pronunce per meglio chiarirla ed integrarla.

In particolare, la violenza consiste in una minaccia che costringe la persona a stipulare un contratto non voluto o a subirne un determinato contenuto. I requisiti per determinate l’annullamento del contratto sono la serietà/fondatezza della minaccia, che la stessa prefiguri un danno ingiusto e notevole a persone o beni o ancora che si paventi di esercitare un diritto per conseguire un vantaggio ingiusto.

Il timore reverenziale si accosta proprio alla violenza, e nella sua accezione negativa viene inteso come una pressione psicologica che un soggetto sa di esercitare nei confronti di un altro (per la propria posizione sociale, lavorativa o altro) e che deliberatamente utilizza per ottenere un determinato scopo o vantaggio.

Si tratta tuttavia di una fattispecie fumosa che, da un lato (quale sentimento di soggezione che ispira verso colui al quale si deve rispetto, obbedienza, soggezione) non rientra nella fattispecie della violenza per difetto dell’elemento della minaccia e che, dall’altro (anche se il timore reverenziale è, in concreto, di tale intensità da dar luogo ad un vizio della volontà) in assenza di un’esplicita disposizione di legge non può dar luogo ad automatica annullabilità del negozio, dato il carattere eccezionale ed anche personale di questo istituto.

 

Istituti a cui si affianca il timore reverenziale

La costrizione o l’induzione al matrimonio

Poiché il timore reverenziale abbia quindi rilievo non soltanto sociologico/psicologico ma anche privatistico, è necessario analizzarlo nell’ambito di specifiche e concrete situazioni.

Ne dà, ad esempio, modo la recente legge 69/2019 “Disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere” (considerabile oltretutto una grande conquista nella lotta alle violenze perpetrate in ambito familiare).

Nella prospettiva civilistica, particolare rilievo riveste l’art. 7, che ha introdotto il nuovo art. 558 bis c.p. rubricato “Costrizione o induzione al matrimonio” il quale punisce “chiunque, con violenza o minaccia, costringe una persona a contrarre matrimonio o unione civile” e chiunque “approfittando delle condizioni di vulnerabilità o di inferiorità psichica o di necessità di una persona, con abuso delle relazioni familiari, domestiche, lavorative o dell’autorità derivante dall’affidamento della persona per ragioni di cura, istruzione o educazione, vigilanza o custodia, la induce a contrarre matrimonio o unione civile”.

L’art. 7 l. 69/2019 – e quindi l’art. 588 c.p. – nasce per dare una più concreta attuazione alla Convenzione di Istanbul del 2011[5] ed in particolare alla lotta internazionale contro i c.d. matrimoni forzati, molto spesso contratti da bambine minorenni con uomini adulti in Paesi in cui è ancora normale costume che ciò avvenga [6].

Tale obiettivo principale non toglie che l’art. 588 c.p. sia andato a toccare corde più vicine al nostro ordinamento, in particolare dal punto di vista interpretativo: viene infatti punita non solo la “costrizione” al matrimonio, ma anche “l’induzione” allo stesso, se avvenuta mediante approfittamento di condizioni di vulnerabilità, o abuso delle relazioni “familiari, domestiche, lavorative o dell’autorità derivante dall’affidamento della persona per ragioni di cura, istruzione o educazione, vigilanza o custodia”.

Allargando la prospettiva, in tale ambito il timore reverenziale ben potrebbe essere considerato come un’influenza sufficiente a indurre un soggetto al matrimonio, rendendo quindi tale negozio annullabile pur senza la presenza della minaccia.

 

L’associazione mafiosa

In altro contesto, diametralmente opposto e peculiare quale quello dell’associazione mafiosa[7], la giurisprudenza è intervenuta per sancire che “il timore reverenziale suscitato dal “mito del capo” non può mai bastare per qualificare una associazione come mafiosa”[8].

In altra occasione ha stabilito che “la sussistenza di relazioni di vicinanza (poco importa se per “deferenza”, “timore reverenziale” o “amicizia”) con soggetti acclaratamente appartenenti ad associazioni di stampo mafioso costituisce un elemento indiziario più che sufficiente per affermare che la fattispecie della c.d. “infiltrazione mafiosa” si è, in concreto, perfezionata”[9].

Vediamo quindi come, in un contesto apparentemente lontano da quello civilistico, il concetto di timore reverenziale possa essere comunque importante per qualificare – o meno – la rilevanza di determinati legali.

 

La volontà testamentaria

Tornando invece ad un ambito più prettamente civilistico, ed in particolare quello della volontà testamentaria, vediamo che l’art. 624, comma 1, c.c. elenca i vizi della volontà che possono inficiare la dichiarazione testamentaria, tra i quali esplicitamente la violenza.

Non vi sono, al riguardo, ragioni per non ritenere valevoli le medesime regole dettate per l’ambito contrattuale. Tuttavia, non dovendosi tutelare con testamento l’affidamento di alcuno, parte della dottrina sostiene che una volontà non del tutto spontanea, ancorché soverchiata dal timore reverenziale, non dovrebbe bastare come ragione giustificatrice per non far prevalere la volontà espressa. D’altra parte non è richiesto che la minaccia sia tale da fare impressione su una persona sensata, basta bensì che essa abbia comunque in concreto inciso sulla volontà del soggetto della cui dichiarazione testamentaria si tratta[10].

 

Conclusioni

Si evidenzia, in conclusione, la scarsità di produzione sia dottrinale che giurisprudenziale in merito al timore reverenziale.

Tale soggetto ritorna tuttavia, quasi di sfuggita, in numerosi ambiti e fattispecie, sia di diritto penale che di diritto civile, e meriterebbe maggiori approfondimenti nell’ottica di determinare una maggiore tutela per i soggetti deboli dei negozi giuridici.

Informazioni

TORRENTE, SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, ventiquattresima edizione, 2019, Giuffrè editore;

DE CRISTOFARO, La disciplina privatistica delle invalidità matrimoniali e il delitto di “costrizione o induzione al matrimonio” previsto dall’ art.558 bis c.p., in Le nuove leggi civili commentate, n. 6/2019, ed. Wolters Kluwer

AMARELLI, nota a sentenza (Tribunale di Rima, sez. X, 16 ottobre 2017) in Giurisprudenza Italiana n. 4/2018, ed. Wolters Kluwer

CIAN, Commento alla normativa, Sui vizi del volere nella dichiarazione testamentaria, in Rivista di Diritto Civile n. 1/2017, ed. Wolters Kluwer

Convenzione di Instanbul del 2011 (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica)

Cons. giust. amm. Sicilia, 11/12/2020, n. 1134

[1] A. TORRENTE, P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, ventiquattresima edizione, 2019, Giuffrè editore

[2] Ibidem

[3] Il difetto è stato individuato nel porre tutte e tre le fattispecie sullo stesso piano, poiché mentre l’errore è un fatto psicologico del soggetto che lo compie, dolo e violenza sono fatti materiali, compiuti da altri soggetti ai danni della parte contrattuale che a quel punto o compie un errore (ma voluto da qualcun altro) oppure accetta il negozio per timore di qualcosa.

[4] L’incompletezza, invece, è stata rinvenuta nel fatto che l’attuale ordinamento ha identificato altre ipotesi quali il timore causato dallo stato di pericolo, dallo stato di bisogno, nonché l’errore causato da anormali ma momentanee condizioni del contraente.

[5] Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, 11 maggio 2011

[6] G. DE CRISTOFARO, La disciplina privatistica delle invalidità matrimoniali e il delitto di “costrizione o induzione al matrimonio” previsto dall’ art.558 bis c.p., in Le nuove leggi civili commentate, n. 6/2019, ed. Wolters Kluwer

[7] Per un approfondimento sull’associazione mafiosa si rinvia all’articolo di Lorenzo Venezia per DirittoConsenso: http://www.dirittoconsenso.it/2018/06/07/articolo-416bis-codice-penale-italiano/

[8] G. AMARELLI, nota a sentenza (Tribunale di Rima, sez. X, 16 ottobre 2017) in Giurisprudenza Italiana n. 4/2018, ed. Wolters Kluwer

[9] Cons. giust. amm. Sicilia, 11/12/2020, n. 1134

[10] G. CIAN, Commento alla normativa, Sui vizi del volere nella dichiarazione testamentaria, in Rivista di Diritto Civile n. 1/2017, ed. Wolters Kluwer