Acquarelli L., « Sua altezza imperiale: l’obelisco di Axum tra dimenticanza e camouflage storico » in Zapruder, Storie in movimento, VIII, no. 23, 2010, pp. 59-73. | Luca Acquarelli - Academia.edu
LUCA ACQUARELLI IMPERIALE 59 Brava gente. Memoria e rappresentazioni del colonialismo italiano L’obelisco destinato a partire per l’Italia raggiungeva un peso totale di 150 tonnellate. Con grande eco mediatica su quella che si configurava come una vera e propria impresa, il monumento fu impacchettato e caricato in nave. Trasportato sul piroscafo Adua, l’obelisco arrivò a Napoli il 27 marzo 1937 e fu eretto a Roma, in piazza Capena, nell’ottobre dello stesso anno, un vero e proprio atto di restauro e rifondazione, sotto la supervisione dell’archeologo Ugo Monneret de Villard. La data di inaugurazione non era stata scelta a caso: il 31 ottobre del 1937, infatti, si festeggiava il quindicesimo anniversario della marcia su Roma, una sovrapposizione di celebrazioni che ribadiva come la storia fascista fosse originariamente legata alle finalità imperiali. L’area circostante era assegnata al progetto per il nuovo edificio del ministero delle Colonie (la cui costruzione iniziò poco meno di un anno dopo ma che poi fu ultimata solo nel dopoguerra), creando così nell’immediato futuro, un paesaggio urbano fortemente simbolizzato. Com’è evidente, tutta l’operazione era tesa a magnificare la campagna militare appena compiuta e la forza del regime fascista. L’obelisco, del resto, è un simbolo di potenza per eccellenza: basti pensare al parallelo che, retoricamente, il regime fascista creò fra l’appropriazione dell’obelisco di Axum e quella degli obelischi egiziani da parte di Augusto. Una delle prime esplicitazioni di questa strategia ci viene offerta dal catalogo della mostra per il bimillenario augusteo del 1937, mostra che si riproponeva di ricostruire i modelli plastici di tutte le vestigia romane. Nell’appendice iconica del catalogo vengono infatti giustapposte le fotografie dell’isolato obelisco egiziano a piazza del Popolo e dell’obelisco di Axum, alla cui base si accalca una folla festante. 1. Romanità e fascismo. Mostra Augustea della Romanità, catalogo, Colombo, 1937, tav. LXXV. 60 Sua altezza imperiale D’altronde, l’idea iniziale di “rubare” agli etiopi l’obelisco di Axum già conteneva in sé questi presupposti. A lanciarla fu Aristide Calderini che nel luglio 1936, ad operazioni belliche da poco ultimate, nel periodico del Touring club, «Le vie d’Italia», a termine di un dettagliato servizio dal titolo Un simbolo dell’Etiopia: gli obelischi di Axum, scriveva: […] come dall’Egitto romano trassero gli imperatori, e Augusto in primo luogo, gli obelischi egiziani, ed anche il maggiore, ad adornare i circhi e gli edifici di Roma universale, l’Italia tragga dall’Etiopia italiana l’obelisco axumita più alto del mondo per le sue piazze nuove, in continuità ideale di tradizione e di significato fra l’antica gloria dell’Impero e la sua gloria nuova1. ZOOM Se da una parte il regime, in questo modo, attestava lo statuto storico del popolo etiope in contrasto ad un generalizzato sguardo europeo verso un’Africa subsahariana considerata “senza storia”, figurata normalmente come una “non-cultura”, dall’altro si appropriava di uno dei simboli più evidenti di questa memoria, diffondendone mediaticamente, tra l’altro, il primato mondiale dell’altezza. Sembra infatti che Calderini si fosse riferito alla stele eretta (più alta) e non a quella adagiata a terra e che fu poi trasportata in Italia. Si evidenzia già qui, tra le righe, l’idea che ciò che si voleva riprodurre in patria era la notevole efficacia scenica dell’obelisco eretto. La retorica imperiale fu inquadrata anche nell’area urbana dove venne collocato l’obelisco, una zona che si apriva sulla nuova Via Imperiale, che avrebbe collegato la vecchia Roma con la “nuova Roma”, l’E42, la cittadella di magniloquenti edifici in progettazione proprio in quegli anni. L’obelisco diventò quindi un punto saliente della narrativa storica reinscritta sul tessuto urbano romano durante il regime, una narrativa che riscriveva il tempo, la memoria, sullo spazio della città. Questa retorica fu ripetuta nelle illustrazioni ispirate all’obelisco. Guardiamo ad esempio la copertina de «La rivista illustrata del popolo d’Italia» del maggio-giugno del 1937, copertina dedicata al primo anniversario della fondazione dell’impero fascista, celebrato a Roma il 9 maggio di quell’anno con sfilate monumentali. Uno strano oggetto risalta in primo piano nell’immagine: ha la forma di un obelisco egiziano con la caratteristica punta a piramide, di quelli tipicamente installati a Roma, ma porta gli ornamenti scultorei della stele di Axum: un vero e proprio oggetto ibrido. L’immagine, inoltre, riporta sullo sfondo due emblemi dell’antica potenza romana (l’anfiteatro Flavio e l’arco di Costantino) e la parata militare a cui risponde la folla inneggiante, una massa indistinta (quasi una macchia nera uniforme) punteggiata di tricolori. Nella parata sono evidenti, in un primo piano inquadrato dall’arco, le uniformi con divise bianche e fez rosso degli ascari, il corpo di eritrei al servizio dell’esercito italiano, ordinate in una marcia militare incorniciata 1 Aristide Calderini, Un simbolo dell’Etiopia: gli obelischi di Axum, «Le vie d’Italia», n. 7, 1936, p. 456. 61 Brava gente. Memoria e rappresentazioni del colonialismo italiano da due tricolori. Come l’ascaro marcia a passo romano, così l’obelisco di Axum si è “romanizzato” nel senso che viene immaginato e raffigurato con le fattezze di uno degli obelischi egiziani, così frequenti a Roma. Questa copertina ci ripropone la questione della traduzione di una certa alterità nei parametri culturali del Sé: per contro, in questo processo di trasformazione dell’Altro, anche il Sé acquisisce definitivamente una nuova identità legittimando a pieno il recupero del passato. L’obelisco venne sfruttato retoricamente 2. «Rivista illustrata del popolo d’Italia», n. 5, 1937, copertina. anche per le sue qualità intrinseche, in particolare l’altezza e il fatto di avere analogie formali con un’antenna radiofonica. Un apparecchio radiofonico della RadioMarelli fu chiamato infatti Axum e lanciato nel mercato con questa pagina pubblicitaria (immagine n. 3). L’obelisco “ripetitore” diventa così simbolo di capacità connettiva, di comunicazione moderna, di accorciamento delle distanze soprattutto nella prospettiva di dare un’idea di complessiva vicinanza delle terre coloniali alla madrepatria. A guardar bene infatti quella riprodotta nel fotomontaggio è la grande stele con lo sfondo del parco delle stele ad Axum, molto simile a quella che proprio nei giorni del lancio del prodotto sarebbe stata rimontata a piazza Capena. Da una parte, dunque, l’obelisco riattivava una mitologica memoria imperiale, dall’altra veniva associato ad una delle pratiche di comunicazione assurte a simbolo della modernità fascista, l’ascolto della radio. Insieme a tutte le altre attività di propaganda è noto infatti che la radio fu uno degli strumenti più utilizzati dal regime per diffondere e creare il consenso popolare soprattutto attraverso i discorsi di Mussolini, ripetuti in tutta Italia. Uno 62 Sua altezza imperiale ZOOM dei sintomi più evidenti di questo rituale nazionale è il quadro vincitore del premio Cremona del 1939, il premio indetto da Farinacci per promuovere una rappresentazione più “strapaesana” del fascismo e che si opponeva a quello incoraggiato da Bottai, il Premio Bergamo. Il quadro, In ascolto di Luciano Ricchetti2, rappresenta un interno casalingo dove i molti personaggi di una famiglia contadina stanno rivolti verso un apparecchio radiofonico in solenne ascolto. La tela è costellata da evidenti segni del regime fascista (un’immagine di Mussolini al muro, il bambino in divisa da Balilla che ascolta stando sugli attenti), e tutto fa pensare che il gruppo sia in ascolto proprio dei discorsi del “gran capo”. 3. Pubblicità Axum RadioMarelli. Tratto da «L’illustrazione italiana», 19 settembre 1937, p. 3. LA NEUTRALITÀ DEL PERITESTO E IL CAMOUFLAGE STORICO immagine n. 3, come dicevamo, ci indica inoltre che fra l’obelisco che sarebbe stato di lì a poco inaugurato in piazza Capena (la pubblicità è del settembre 1937) e quello che continuava a campeggiare ad Axum, poteva facilmente insinuarsi una confusione, un’ambiguità (già presente a partire dalla proposta nell’articolo di Calderini). Del resto a Roma si effettuò una vera e propria azione di restauro, una sorta di copia con pezzi originali sul modello dell’unico obelisco eretto già esistente, senza aggiungere L’ 2 Il quadro, smembrato in più parti nell’immediato dopoguerra, è oggi stato ricostruito parzialmente grazie ad un progetto di restauro. 63 Brava gente. Memoria e rappresentazioni del colonialismo italiano altri orpelli simbolici. Come rilevato altrove3, l’obelisco di Axum rimontato a Roma risulta infatti essere un monumento neutro, privo di simboli riconoscibili, senza iscrizioni celebrative o di ordine storico-geografico e con un basamento del tutto simile all’ipotesi sull’originale. Questa neutralità viene a costituire un’eccezione per quanto riguarda la consolidata maniera di installare gli obelischi nella città di Roma che normalmente prevedeva una grammatica simbolica ben precisa. Se pensiamo infatti agli obelischi egiziani eretti in epoca augustea e poi di nuovo ricollocati nel periodo della Roma papalina di Sisto V, siamo di fronte ad una fornita sintassi di iscrizioni e di simboli che vanno a risignificare l’obelisco stesso. Un montaggio di significati ripreso anche nel caso più recente dell’obelisco egiziano che, sempre in contesto coloniale, celebrava la sconfitta di Dogali del 1887. In effetti sembra essere quest’ultimo il vero monumento alle imprese coloniali italiane: rinvenuto durante gli scavi archeologici di fine Ottocento, fu issato a piazza dei Cinquecento per celebrare i caduti della prima sconfitta delle truppe italiane in Africa (precedente a quella troppo invadente per essere ricordata, cioè quella di Adua) e venne modificato proprio nel 19374, accogliendo alla sua base uno degli altri elementi del bottino di guerra fascista, la statua del Leone di Giuda, simbolo del potere imperiale etiopico. Da monumento ai caduti, a cinquanta anni di distanza, così, questa struttura si trasformava in monumento al riscatto di quegli stessi caduti, mediante la vittoria su Addis Abeba affermata simbolicamente con l’appropriazione della statua. Forse anche per questo motivo il Leone di Giuda risultava essere un simbolo molto più storicamente ingombrante della stele: fu così restituito agli etiopi nel 1970 (ovviamente anche per la differente mole del manufatto che lo rendeva più facilmente trasportabile). Nel caso della stele di piazza Capena, invece, la totale neutralità del peritesto ci spiega, forse meglio di ogni altra cosa, la poca resistenza alla “dimenticanza” di questo monumento. Prendiamo questo termine, peritesto, dalla terminologia utilizzata dal critico letterario Gérard Genette nel suo volume Soglie perché ci sembra possa aiutarci a descrivere meglio questa situazione. Ricordiamo che Genette riferendo le sue categorie all’opera letteraria, chiamava peritesto quella parte del paratesto che si situa «intorno al testo, nello spazio del volume del testo, come il titolo o la prefazione, e qualche volta inserito negli interstizi del testo»5. Per paratesto si indica invece tutto l’insieme delle produzioni che contornano e prolungano il testo, per «renderlo presente». Il paratesto è allora formato dalla somma del peritesto e dell’epi3 Luca Acquarelli, L’obelisco di Axum tra oblio e risemantizzazione, «E/C. Rivista on line dell’Associazione italiana di studi semiotici», aprile 2010. 4 In realtà l’obelisco venne prima traslato nella piazzetta antistante, nel 1925: il regime non riteneva felice la presenza di un monumento a una sconfitta collocato nel luogo di arrivo nella capitale (piazza dei Cinquecento si apre infatti davanti alla stazione Termini). 5 Gérard Genette, Soglie. I dintorni del testo, Einaudi, 1989, p. 6 (I ed. Paris, 1987). 64 Sua altezza imperiale ZOOM testo che Genette definiva come «qualsiasi elemento paratestuale che non si trovi annesso al testo nello stesso volume, ma che circoli in qualche modo in libertà, in uno spazio fisico e sociale virtualmente illimitato»6. Come il peritesto di un libro si struttura intorno all’opera per meglio significarla e per rendere più efficace la comunicazione di quel testo, così possiamo immaginare che, anche nel caso di un oggetto monumentale, possa esserci o meno un apparato di arredo contiguo (iscrizioni, simboli, araldica varia) che lo fa significare in una determinata cultura, o meglio, nel nostro caso, dalla situazione di partenza (il parco delle stele ad Axum) lo traduce nel contesto di arrivo. Come abbiamo già accennato, allora, il peritesto dell’obelisco in questione è da considerarsi neutro perché si limita a riprodurre con attenzione filologica la struttura della stele ancora eretta in terra etiope. Al contrario, continuando nella forzatura dei termini teorizzati da Genette, nel periodo fascista l’epitesto dell’obelisco di piazza Capena lo configurava come elemento di potenza imperiale e quindi come sintomo memoria della sopraffazione sull’impero etiopico. La disposizione degli elementi architettonici nella nuova progettazione urbana di Roma dispiegava infatti un percorso imperiale che restituiva un senso globale alle singole strutture. Un involucro narrativo, quello dell’imperialità, moltiplicato dalle numerose rappresentazioni mediatiche e dalle ripetute iniziative di celebrazione. Una volta rimosso questo contesto di significazione, l’obelisco perse allora direttamente la sua efficacia comunicativa rispetto al suo significato originale in terra italiana. Se infatti molti simboli del regime sono stati distrutti o cancellati o riadattati attraverso delle modifiche, nel caso in questione nessuna operazione di trasformazione è stata ritenuta necessaria, se non quella, appunto, di mutare i punti di riferimento della sintassi urbana. Creando, del resto, anche giustapposizioni incongruenti: il palazzo nato per essere adibito a ministero delle Colonie, nel 1952 infatti divenne sede mondiale della Fao, la più grande organizzazione umanitaria nata per combattere la fame nel mondo, vicino alla quale per molti anni continuò a stazionare un simbolo di conquista e di sopraffazione come l’obelisco in questione. È interessante dunque sottolineare l’importanza di questi “attivatori” di significato in una prospettiva che discuta la memoria inscritta e significata dai monumenti. Infatti nei casi in cui non è avvenuto un impulsivo processo di iconoclastia, sono proprio i peritesti ad essere in primo luogo coinvolti in queste trasformazioni narrative e, durante il periodo in esame, molti sono i casi in cui questo procedimento può essere proficuamente analizzato; ad esempio possiamo ricordare la statua di Italo Griselli all’EUR, dove il riconoscibile saluto romano del soggetto rappresentato è stato “camuffato” con l’aggiunta di un guanto da lottatore, passando così dall’allegoria del “genio del fascismo” a quella de “il genio dello sport” (indicazione riportata anche 6 Ivi, p. 337. 65 Brava gente. Memoria e rappresentazioni del colonialismo italiano sul basamento). In questo caso viene dunque aggiunto un ulteriore peritesto per far significare il monumento in altra maniera, una strategia per “travestire” l’opera. Anche se poi, in effetti, quella che sembra essere messa in mostra è proprio questa poco efficace opera di camouflage. Oppure pensiamo ai quattro pannelli marmorei con le carte geografiche dell’espansione dell’impero romano ancora presenti sulla parete esterna della basilica di Massenzio. Il quinto pannello che rappresentava i territori dell’impero fascista dopo la conquista dell’Etiopia, divelto dopo la caduta di Mussolini, ha lasciato la sua ombra sul muro. Gli altri, privati dei fasci littori che ornavano le didascalie, sono rimasti al loro posto, ammirati come installazione didattica dalle migliaia di turisti che percorrono ogni giorno i Fori imperiali. Ad ogni modo, l’Italia convive con molti segni espliciti del regime fascista, presenti sia a Roma (basti pensare all’obelisco al Foro italico con la scritta scolpita a grandi lettere “Mussolini Dux” ) che in città minori come ad esempio Imola dove la casa del fascio dell’architetto Marabini rimane istoriata di simboli e bassorilievi di esplicita provenienza fascista. Se infatti possiamo constatare una prima opera di generale cancellazione dei simboli di quel periodo, poi, girando per le città italiane, ci rendiamo conto che ogni contesto ha risposto singolarmente all’ingombrante peso storico di tali segni, tra questioni di ordine politico da una parte, di conservazione dei beni culturali dall’altra e, senza dubbio, una buona dose di inerzia delle comunità. In questo articolo vogliamo però sottolineare il fatto che non sono state solo le decisioni degli uomini e delle collettività ad intervenire su tale edificio o tale statua o su quel bassorilievo, ma che in un certo senso l’oggetto stesso, con i suoi apparati paratestuali ha giocato un ruolo importante, cioè, l’oggetto in sé ha attorializzato più volte lo spazio circostante e le azioni su di esso7. Se infatti approcciamo il nostro discorso dal punto di vista di un’analisi narrativa di tipo attanziale8 possiamo vedere come, nel nostro caso, l’attanteoggetto obelisco si unisca volta per volta a dei programmi narrativi differenti (lo vedremo in seguito anche nei discorsi mediatici degli anni della restituzione). Ma, a sua volta, è l’obelisco ad attivare percorsi narrativi, alla stregua di 7 Per attorializzazione, termine tratto della sintassi narrativa di Greimas (vedi nota successiva), si intende qui in maniera generale il processo per cui i vari “attanti” che si congiungono con l’oggetto obelisco sono discorsivizzati a livello attoriale da determinati programmi narrativi, cioè, in definitiva, da determinati modi di agire. 8 Si tratta della sintassi narrativa di Greimas che, pur prendendo le mosse dalla celebre teoria della morfologia della fiaba di Propp, ne rivoluziona le basi facendone uno strumento valido per tutti i generi di narrazione e di manifestazione semiotica, fondando il proprio impianto teorico non più sulle funzioni ma sugli attanti, istanze virtuali che a livello astratto assumono di volta in volta il ruolo di chi fa (soggetto) o subisce (oggetto) un’azione (manifestandosi a livello discorsivo come attore). Non è questa la sede per trattare anche solo in forma sommaria questa teoria ma ci basta capire come dalla congiunzione/disgiunzionee di due o più attanti possa scaturire un programma narrativo e che le relazioni di soggetto/oggetto, a livello sintattico, possono essere diverse da quelle che a prima vista ci appaiono evidenti a livello discorsivo. 66 Sua altezza imperiale ZOOM un attante soggetto. Come abbiamo fatto altrove9, ci sembra appropriato citare un autore come Bruno Latour, insigne studioso francese di scienze sociali, quando scrive: «gli oggetti fanno qualcosa, non sono soltanto gli schermi o i retroproiettori della nostra vita sociale»10; aggiungendo inoltre: «non vi sono dunque attori da una parte e campi di forze dall’altra: vi sono soltanto attori – o meglio, attanti – ciascuno dei quali può passare all’azione solo associandosi ad altri attanti che finiranno col sorprenderlo e superarlo»11. Insomma, a nostro avviso quando si studia la memoria dei monumenti e degli oggetti culturali in generale, è necessario tener conto non solo dei discorsi, delle rappresentazioni e delle pratiche sociali che nascono attorno a quell’oggetto (in un certo qual modo l’epitesto) ma anche di un’attenta analisi dell’oggetto stesso con tutti i suoi elementi aggiuntivi (il peritesto). In una parola, dell’efficacia comunicativa dell’oggetto stesso. DIMENTICANZA COME MECCANISMO DELLA CULTURA a memoria storica e l’efficacia comunicativa sono infatti due ambiti strettamente legati. Nella nostra analisi accennavamo prima alla “dimenticanza”: un concetto che, come spiegano i due semiologi della cultura Jurij Lotman e Boris Uspenskij, non sta ad indicare un processo passivo ma un preciso meccanismo che si instaura all’interno di una cultura. Scrivono infatti i due autori: L […] la cultura esclude in continuazione dal proprio ambito determinati testi […] Ogni nuovo movimento artistico revoca l’autorità dei testi sui quali si orientavano le epoche precedenti, trasferendoli nella categoria dei non testi, dei testi di livello diverso, oppure distruggendoli. La cultura è, per la sua essenza, diretta contro la dimenticanza: essa vince la dimenticanza col trasformarla in uno dei meccanismi della memoria […] Occorre tener presente che una delle forme più acute di lotta sociale, nella sfera della cultura, è la richiesta della dimenticanza obbligatoria di determinati aspetti dell’esperienza storica12. Come esempio di quanto appena affermato Lotman e Uspenskij porteranno il caso delle culture fasciste del XX secolo, che imposero la dimenticanza affollando di mitologie la cultura dominante. Sebbene in un senso totalmente contrario, e anche a causa di un recentissimo passato traumatico, anche le operazioni del dopoguerra sui segni del fascismo hanno imposto una sua dimenticanza, ogni volta con strategie diverse rispetto allo specifico contesto di memoria sociale. La dimenticanza, quindi, è sempre un meccanismo della 9 L. Acquarelli, L’obelisco di Axum, cit., pp. 5-6. 10 Bruno Latour, Una sociologia senza oggetto? Note sull’interoggettività in Eric Landowski e Gianfranco Marrone (a cura di), La società degli oggetti. Problemi di interoggettività, Meltemi, 2002, p. 218. 11 Ivi, p. 221. 12 Jurij M. Lotman e Boris A. Uspenskij, Tipologia della cultura, Bompiani, 1975, p. 46 (I ed. Tartu, 1971). 67 Brava gente. Memoria e rappresentazioni del colonialismo italiano cultura che marginalizza alcuni testi finché non vengono riattivati. Questo spesso succede in periodi dove, a causa di forti cambiamenti sociali e politici, si attuano lotte verso le vecchie forme linguistiche e ritualistiche, proprio come avveniva nei primi anni della nazione liberata dal regime e successivamente dell’Italia repubblicana. Come scrive giustamente Demaria: «L’appropriazione culturale della realtà […] si può definire come il lavoro stesso di selezione e di traduzione della memoria»13. L’ingombrante storia della stele di piazza Capena, grazie alle caratteristiche peritestuali di questo oggetto, è stata dimenticata o forse per meglio dire è stata sospesa, relegata nell’anticamera del giudizio storico-sociale. La migliore conferma di questo processo è l’attribuzione di nuovi stabili significati alla stele: prima di essere restituita infatti, per un lungo periodo, essa è stata il punto di partenza rituale della processione della Madonna del Divino Amore a Roma14. E questo processo di dimenticanza/sospensione corrisponde al ritardo con il quale, rispetto ad altri paesi con un passato coloniale, l’Italia ha fatto i conti con la propria esperienza di paese colonizzatore. Parallelamente l’altra stele, quella rimasta in Etiopia, diventò uno dei simboli più forti della nazione etiope e, indirettamente, della lotta indipendentista degli stati africani. Basti pensare alla figurazione del francobollo emesso dallo stato etiope come nazione partecipante in occasione della prima Conferenza degli stati africani indipendenti nel 1958. Sullo sfondo della sagoma cartografica africana con gli stati partecipanti contrassegnati, si notano, sulla sinistra una riproduzione della chiesa di san Giorgio di Lalibela, edificio della chiesa ortodossa etiope risalente al tredicesimo secolo, e sulla destra, la riproduzione della stele con il paesaggio circostante. QUANDO LA RESTITUZIONE PUÒ FACILITARE LA RIMOZIONE P er concludere questo nostro articolo prendiamo adesso in considerazione le vicende più squisitamente storiche che hanno coinvolto la stele dal dopoguerra fino ai giorni nostri. La questione è da subito di primaria importanza: l’articolo 37 del trattato di pace che l’Italia firmò nel 1947, prevedeva il rientro di tutti i bottini di guerra sottratti all’Etiopia entro i successivi 18 mesi. La data non fu rispettata, come del resto stessa sorte ebbero gli accordi di restituzione sanciti da un trattato del 1956 firmato fra il governo italiano e quello etiope. Solo nel 1970 il parlamento italiano indisse una prima commissione tecnica per la restituzione della stele che, tuttavia, arrivò a decretare l’impossibilità del trasloco. Da allora si dovrà aspettare la 13 Cristina Demaria, Semiotica e memoria: analisi del post-conflitto, Carocci, 2006, p. 32. 14 Per gli aspetti ritualistici del momento della partenza di questa processione si veda Carmelina Canta, Sfondare la notte. Religiosità, modernità e cultura nel pellegrinaggio notturno alla Madonna del Divino Amore, Angeli, 2004 e L. Acquarelli, L’obelisco di Axum, cit. 68 Sua altezza imperiale ZOOM fine degli anni novanta affinché i due paesi ritornino seriamente a trattare la faccenda. Nel frattempo, nel 1980, il parco archeologico di Axum venne dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco, un evento che investì di un nuovo valore culturale e politico anche la stele mancante. Nel marzo del 1997 la commissione italo-etiopica decise definitivamente di avviare la progettazione della restituzione. A questa decisione formale seguì uno dei segnali politici più forti mai emessi da parte italiana in epoca postcoloniale, che riattivò definitivamente la valenza politica di quell’ingombrante presenza. A novembre dello stesso anno, infatti, ci fu la storica visita ad Addis Abeba dell’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il quale, davanti al parlamento etiope, condannò esplicitamente la «guerra d’aggressione» del regime fascista e confermò la prossima restituzione dell’obelisco secondo gli accordi previsti dal trattato di pace15. L’ultima parola venne data nel 2004, quando, in un ennesimo accordo, furono finalmente poste le basi concrete del progetto, portato a termine l’anno successivo. È lecito pensare che in occasione dei primi due trattati non ottemperati da parte dell’Italia (1947 e 1956), tra i motivi della mancata restituzione possa aver trovato un posto importante la questione economica (in questi trattati come nei successivi, i costi dell’operazione dovevano essere sostenuti dall’Italia). Ma pensiamo comunque che restituire l’obelisco sarebbe corrisposto a sanzionare negativamente l’operato della colonizzazione. Come sappiamo da numerosi studi (in primo luogo quelli di Angelo Del Boca16) il mito degli “italiani brava gente”, del colonialismo buono, è un mito che persistette in maniera molto forte fino agli anni ottanta, e, anche se fortemente indebolito da documenti e studi storici, perdura ancora nell’attuale visione di questa vicenda. In un certo senso, quindi, l’Italia per molti anni non ha sentito l’obbligo morale (nonché giuridico) della riconsegna. D’altra parte, però, nell’atto di restituzione è insita la presa di distanza da una storia ormai ritenuta passata. O meglio, questa azione di “ripristino” permette agli italiani di oggi di guardare l’evento coloniale come appartenente ad una cultura altra, quella fascista, feroce e violenta, quindi come un fatto di storia e non come un fatto di memoria. Soprattutto perché oggi, al posto dell’obelisco non c’è nessun segnale che possa ricordarlo (immagine n. 4a e 4b). Se quindi la restituzione diventa un punto di partenza per ragionare attorno ad una memoria storica, allo stesso tempo si corre il rischio che essa induca una vera e propria cancellazione del passato coloniale in Etiopia, un allontanamento definitivo anche da quella soglia negoziabile e sempre riattivabile dell’oblio. 15 Vincenzo Nigro, Scalfaro elogia gli italiani, “ammiro il vostro coraggio”, «la Repubblica», 26 novembre 1997, p. 15. 16 Si veda soprattutto Angelo Del Boca, I gas di Mussolini, Editori Riuniti, 1996. 69 Brava gente. Memoria e rappresentazioni del colonialismo italiano 4a. Veduta di piazza Capena con l’obelisco 4b. Veduta di piazza Capena attuale Il portato storico e simbolico della stele, abbiamo detto, venne riattivato dalle polemiche politiche scatenate con una certa veemenza dal viaggio di Scalfaro in poi. Tra i nuovi discorsi sorti attorno all’oggetto, alcuni stralci possono esserci utili per comprendere questa riattivazione. Nel 1998 Roma è assorbita dai lavori per l’avvicinarsi dell’anno giubilare ma Roberto Morassut, segretario cittadino dei Democratici di sinistra, dichiara: Si è tanto discusso dell’obelisco di Axum, è giusto restituirlo all’Etiopia, però non sarebbe male sostituire il monumento con uno esattamente uguale […] L’obelisco di Axum ha anche significati religiosi, e Roma è una città multietnica. Poi ci sono i romani di Destra che vi vedono i fasti gloriosi di un tempo andato. Non condivido il loro pensiero, ma lo rispetto. Una copia serve soprattutto, però, a non recidere il nostro legame con la Storia: guardare quella stele significa ricordare il periodo del colonialismo. Anche una “torre di cemento” può aiutare a fare memoria dell’orrore della guerra17. A Roma, in effetti, si continuarono a costruire obelischi e quello scolpito da Arnaldo Pomodoro, una spirale in bronzo che raggiunge l’altezza di 21 metri collocata in piazzale Nervi, commissionato dal comune di Roma e realizzato nel 2004, sembra esser stato voluto dallo stesso sindaco (Francesco Rutelli) per «compensare la perdita della Stele di Axum»18: di certo una compensazione in altezza, ma non per ciò che riguarda la questione della memoria storica. La riconsegna fu fonte di grandi polemiche alimentate soprattutto dall’opinionista mediatico e storico dell’arte Vittorio Sgarbi, sia nel suo temporaneo ruolo di sottosegretario ai Beni culturali che nel periodo successivo. Anche il parlamentare Teodoro Buontempo nel 2002 dichiarava: «L’obelisco di Axum non è stato rubato a nessuno, ma assemblato recuperando pezzi sparsi in un’area molto vasta, con un’operazione archeologicamente di eccellenza per il suo tempo»19. La sua convinzione era così salda che egli 17 Alberto Mattone, Attento Rutelli, da soli i sindaci sono delle isolette, «la Repubblica», sezione Roma, 14 agosto 1998, p. 2. 18 Silvia dell’Orso, Dalla stele all’obelisco, «la Repubblica», 9 marzo 2001, p. 16. 19 Buontempo: in tribunale per l’obelisco di Axum, «la Repubblica», 27 settembre 2002, p. 20. 70 Sua altezza imperiale ZOOM espresse la volontà di iniziare un’azione legale per fermare il processo di restituzione. Il 27 maggio 2002 un fulmine colpì la sommità della stele, scheggiandola. Per gli oppositori della riconsegna questo evento venne quasi preso come un segno divino, avvalorando le motivazioni dell’accentuata fragilità della stele stessa. Poco dopo, dalle colonne di un quotidiano, si arrivò a proporre un sondaggio popolare da effettuare in concomitanza della tornata elettorale del 2006, per sapere cosa pensasse il popolo italiano sul fatto di rispedire il monumento ai legittimi possessori20. A luglio dello stesso anno alla base dell’obelisco venne posto uno striscione con un messaggio razzista: «Insieme ad Axum… restituite tutti gli immigrati», sottoscritto dalla sigla “Base autonoma”, un’organizzazione di estrema destra che rivendicò l’operazione. Un chiaro sintomo del fatto che l’obelisco era fuoriuscito dall’oblio e che era diventato oggetto di rivendicazioni politiche, anche se di così bassa specie. Smantellato nel 2003, immagazzinato a Roma per tutto il 2004 (anno del definitivo accordo firmato con il presidente etiope Males Zenawi), nel 2005 l’obelisco venne restituito per poi non essere rimontato che tre anni dopo. Le critiche di Sgarbi sono continuate anche dopo i lavori di rierezione nel parco archeologico di Axum attraverso una polemica con il giornalista Paolo Conti del «Corriere della sera»: Può essere stato inopportuno trasferire la stele di Axum nel 1937 a Roma, ma non è stato un furto, come non lo furono i trasferimenti al Louvre di migliaia di opere italiane e di reperti archeologici da parte di Napoleone […] La restituzione della stele di Axum è stato il segnale negativo di uno Stato debole che si vergogna della sua Storia arrivando alla farsa della visita di Gheddafi che ha ottenuto i risarcimenti dall’Italia ma non ha ancora restituito i beni sequestrati ai profughi italiani e si è dimenticato di manifestare riconoscenza per il dono da parte degli archeologi italiani dei siti di Leptis Magna, di Sabratha, di Apollonia, di Cirene. Senza gli italiani quei luoghi dell’Umanità riposerebbero ancora sotto la sabbia21. Così invece Paolo Conti: Da tempo in Gran Bretagna è attivo un movimento per la restituzione dei cosiddetti “Marmi Elgin” alla Repubblica ellenica. E il fatto che l’Italia venga indicata come un esempio da seguire rappresenta un grande risultato non solo sul mero piano dell’immagine (e già basterebbe) ma attribuisce alla nostra linea un’autorevolezza che ci permetterà di proseguire ottenendo (sia sul piano del ritorno nel nostro Paese che per ulteriori, eventuali restituzioni) traguardi ancora più clamorosi. A questo punto sarebbe interessante conoscere il parere dei tanti, furiosi custodi dei nostri beni culturali (primo fra tutti Vittorio Sgarbi) che ai tempi del viaggio di ritorno della Stele di Axum verso l’Etiopia […] coniarono autentiche invettive contro una scelta che, al contrario, rispettava addirittura un impegno sottoscritto nel trattato di pace Italia-Etiopia nel 1947. Fatti, non parole, insomma e serietà22. 20 Giovanni Mattazzi, Sulla stele di Axum decida il popolo, «Secolo d’Italia», 2 agosto 2002, p. 10. 21 Vittorio Sgarbi, Restituire i capolavori? Una follia, «il Giornale», 5 luglio 2009, p. 21. 22 Paolo Conti, Da Axum ai fregi del Partenone: quando è giusto restituire, «Corriere della sera», 20 giugno 2009, p.10. 71 Brava gente. Memoria e rappresentazioni del colonialismo italiano Da una parte la restituzione è vista come un segnale di un governo debole che si “vergogna” (cioè in qualche modo rimuove) il suo passato. Dall’altra essa è considerata un’opera virtuosa in un nuovo contesto di richiami alla legittima proprietà degli oggetti artistici archeologici (una via forse non ragionevolmente praticabile in assoluto). In tutti e due i casi il discorso è comunque spostato in contesti di riferimento che evadono la questione fondamentale di come riattivare l’interesse intorno alla vicenda che aveva portato a Roma l’obelisco e, conseguentemente, di come narrare la sua memoria contro il pericolo di una nuova e forse più temibile dimenticanza. Come dicevamo, nel settembre 2008, in concomitanza con l’arrivo del nuovo millennio secondo il calendario etiopico, l’obelisco viene rieretto ad Axum dopo tre anni di permanenza sotto una tettoia, alla presenza del sottosegretario agli Esteri Alfredo Mantica. In Etiopia si farà grande festa e la restituzione verrà trasformata da quello che doveva essere un atto dovuto ad un’attestazione di riconciliazione fra i due popoli. Nello stesso anno, in un crescendo di azioni a chiusura del “debito” coloniale italiano, è stato raggiunto un accordo per il risarcimento anche nei confronti della Libia (5 miliardi di dollari distribuiti in venticinque anni e restituzione della Venere di Cirene). Questi atti sono serviti a chiudere i conti con il passato coloniale? A chiudere il passivo di un bilancio delle colpe storiche da risarcire? Se da una parte questi accordi erano diventati inevitabili, non ci si può accontentare di aver chiuso in questo modo il capitolo non ancora completamente scritto della vicenda coloniale italiana, non solo quella di impronta fascista. Auspico che questi atti, invece, possano servire ad aprire un discorso finalmente più coerente e privo di lacune su quel passato. Se pensiamo che il tessuto urbano è in fondo un supporto su cui discutere collettivamente la storia e la memoria, quell’angolo di piazza Capena perfettamente mimetizzato dall’arredo urbano più comune (pista ciclabile, cestino) non è certo un buon segnale per quanto riguarda un nuovo inizio nel rapporto fra la storia d’Italia e la sua esperienza coloniale. Questa operazione, alla luce di quanto abbiamo detto, rischia quindi di diventare un’ennesima opera di camouflage urbano/storico: un travestimento che però, a differenza anche di quelli citati in questo articolo, si avvicina più ad un atto di rimozione. 72 Sua altezza imperiale Dagli inizi della mia carriera di ricercatore (non strutturato, s’intende) il mio intento è stato quello di contaminare i miei studi storici con gli approcci ai documenti che avevo imparato ad usare durante il mio percorso di laurea: quello semiotico e quello antropologico su tutti. Da allora sono passati alcuni anni e forse la situazione si è capovolta: cerco di irrorare di preoccupazioni storiche i miei studi semiotico-antropologici sulle immagini e sulla cultura visiva di un determinato periodo. Sinora ho sperimentato questa necessaria interdisciplinarietà su due vicende storiche in particolare: il colonialismo (non solo quello italiano) e il fascismo, ambiti di ricerca che mi hanno portato alla scrittura della mia tesi di dottorato dal titolo Le forme simboliche del fascismo imperiale, guidato e incoraggiato da molti ma in particolare da Boris Uspenskij e Omar Calabrese. Fascismo e colonialismo, dicevamo, due fenomeni a noi cronologicamente molto vicini e fonte, a momenti alterni, di dibattito politico oppure di oblio forzato. I documenti da studiare sono ancora molti e credo anche che una nuova serie di domande, di punti di vista e soprattutto di costruzione di nuovi atlanti da indagare, giustapponendo fonti di vario tipo e studio di pratiche sociali, possa fornire ancora un utile portato. Sia per capire meglio quegli anni che per offrire nuovi spunti metodologici. L’articolo qui presentato cerca di andare in questa direzione, studiando la vicenda italiana dell’obelisco di Axum con particolare attenzione all’efficacia visiva del monumento e alle strategie di oblio e riattivazione di questo oggetto. Ovviamente, se non è stato ben esplicitato nell’articolo lo faccio ora: il passo successivo sarebbe quello di studiare la vicenda dall’altro punto di vista, quello etiopico, al quale, sia per spazio ma soprattutto per mancanza di competenze, ho fatto solo cenno. I futuri studi, in terra francese dove ho trovato temporaneo asilo e salario, mi porteranno a lavorare sui manifesti pubblicitari di fine Ottocento, il loro rapporto con il dominio dell’arte, e quello con la costruzione della città moderna. Con l’intenzione di poter strutturare anche a livello didattico e manualistico, questa volontà interdisciplinare. 73