ONORIO III in "Enciclopedia dei Papi" - Treccani - Treccani

ONORIO III

Enciclopedia dei Papi (2000)

Onorio III

Sandro Carocci
Marco Vendittelli

L'origine familiare di O. costituisce un tema complesso, da affrontare in dettaglio. Se infatti appare certa la nascita romana, testimoniata dai legami di parentela con numerosi concittadini, è insostenibile sia la tradizionale attribuzione ai Savelli, tuttora proclamata anche in opere specialistiche, sia quella, recentissima, ai Capocci. Il dato di maggior rilievo è di carattere negativo. Tanto i cronisti contemporanei quanto tutti gli autori che fino al XV secolo hanno fornito notizie su O. mostrano di ignorarne la provenienza familiare. Questo significativo silenzio, inspiegabile se il pontefice fosse stato di una stirpe già preminente o destinata ad una rapida ascesa, come appunto Savelli e Capocci, va accostato alla stessa testimonianza autobiografica. Nel 1192, un venticinquennio prima della sua elezione a pontefice, nel proemio del Liber censuum il camerario Cencio parla in tono modesto delle sue origini, tacendo ogni rapporto di parentela e affermando che dalla culla in poi era sempre stato in tutto sostenuto ed educato dalla Chiesa. È un'affermazione che sembra escludere una provenienza sociale molto elevata, pur se il suo contesto retorico - l'enfasi sui benefici ricevuti dalla Chiesa, che il camerario spera di ripagare con la fatica di compilatore - impedisce di accoglierla come una testimonianza di povertà.

Egualmente a un ambiente sociale non preminente, pur se certo meno modesto di come lo presenta O., sembrano rimandare le poche notizie sui nipoti del pontefice e sullo stesso nome del padre. Quest'ultimo, a detta di Tolomeo di Lucca († 1327) che è il primo, tardo autore a fornire la notizia, si sarebbe chiamato "Almaricus", nome sconosciuto a tutte le famiglie romane di consistente livello (e peraltro così raro nell'antroponimia cittadina da far dubitare dell'attendibilità di Tolomeo). Quanto ai "nepotes", l'unica fonte che ne attesta un certo rilievo politico e militare, almeno durante il pontificato dello zio, è il Chronicon Sancti Martini Turonensis, che attribuisce la partenza del papa da Roma nel 1225 non genericamente, come altre fonti, all'affermazione nel Comune capitolino di un partito avverso al pontefice, ma all'ostilità di Riccardo Conti, fratello del defunto Innocenzo III, verso i "nepotes pape", contro i quali muoveva ogni giorno assalti (p. 471). Isolata e di difficile valutazione (tanto più che il cronista è per il resto totalmente disinteressato alle vicende romane), la notizia dei contrasti con i Conti può forse trovare conferma in un documento di poco posteriore al ritorno di O. a Roma, che vede Riccardo rinunciare, peraltro in seguito ad un elevato compenso monetario, alla sua già avanzata espansione patrimoniale nella città di Ostia (Le Liber censuum, I, p. 466 n. 213).

Nel resto della documentazione, in ogni caso, nessuno dei nipoti noti appare caratterizzato da un'ampiezza di capacità patrimoniali e politiche. La sola, modesta eccezione è rappresentata da un atto notarile del 1217, con il quale la vedova di Graziano Frangipane, ricevuta dal camerario di O. una somma per la rinuncia ai diritti del marito su Ninfa, contestualmente appiana due mutui, di 200 e 50 lire, che le erano stati fatti dai nipoti del papa, rispettivamente "Iohannes scrinarius" e i fratelli "Iohannes Cinthii" e "Beneincasa" (ibid., pp. 258-59 n. 26). Nelle fonti dei decenni successivi questi ultimi due nipoti, e poi i loro eredi, risultano forniti di proprietà fondiarie di un certo rilievo, e finanche di un modesto possesso signorile (una frazione del piccolo "castrum" di Sant'Onesto, ad est di Roma). Si tratta comunque di un patrimonio incommensurabilmente minore rispetto a quello dei principali casati cittadini, e forse da attribuire agli stessi favori del pontefice. Di tali favori potrebbe essere prova anche il soprannome familiare "de Papa" che qualifica i due fratelli, e poi i loro eredi, allorché ricompaiono nelle fonti dopo la morte di O. (M. Thumser, p. 60): ma non vi sono in realtà elementi per escludere che questo soprannome familiare attesti invece l'appartenenza dei due nipoti al vastissimo casato dei "de Papa" o Papareschi. La menzione di rapporti di parentela più remoti, espressi con il generico termine di "consanguineus", che legavano il papa al futuro cardinale Pietro Capocci e al chierico Giovanni "de Tebaldo" (Regesta Honorii papae III, nrr. 1015, 6203), riconducono al medesimo ambiente, quello delle famiglie romane e campanine che nella seconda metà del XII secolo trovavano nel Comune capitolino e soprattutto negli uffici di Curia un veicolo di affermazione sociale, sia pure condotta con disparità di risultati.

Quanto all'attribuzione ai Savelli, è in realtà frutto di una fortunata invenzione erudita. Nel 1553-1555 l'agostiniano Onofrio Panvinio, uno dei maggiori storici del tempo, ricevette dal cardinale Giacomo Savelli l'incarico di scrivere una storia della famiglia. Il Panvinio cercò allora di dare un solido fondamento erudito alla tendenza, episodicamente affiorata in compilazioni anteriori, ad attribuire alla famosa stirpe romana non solo Onorio III, ma anche il quarto con tale nome (1285-1287) (gli stessi Commentarii di Pio II attribuivano ai Savelli O., peraltro confondendolo con l'omonimo successore). A tal fine, lo storico pubblicò alcuni documenti autentici, ma interpolandovi espressioni e riferimenti che provassero l'appartenenza di O. al casato del suo committente. Questa operazione ha avuto un successo impressionante, venendo accolta e ripetuta fin quando, pochi anni fa, è stato dimostrato che nei documenti originali i passi citati dal Panvinio non esistevano (H. Tillmann, pp. 391-93; S. Carocci, Baroni di Roma, pp. 415-16). L'attribuzione al celebre casato romano è dunque priva di ogni fondamento, e del resto mal si concilia con la totale assenza di menzioni dei Savelli nei registri del papa e con la mancanza di ogni riferimento alla parentela con O. nell'epistolario del suo omonimo successore del Duecento.

Egualmente da rifiutare, almeno fin quando non verrà sostenuta con argomenti meno fragili, è anche la recente identificazione dei Capocci come famiglia di origine del papa operata da M. Thumser (pp. 58-64). Per lo storico tedesco proverebbero l'appartenenza del papa al casato baronale la citata menzione del futuro cardinale Pietro Capocci come "consanguineus" di O. e, soprattutto, la presenza, in documenti del 1257-1259 provenienti dall'archivio della chiesa romana di S. Maria in Via Lata, di un "Iohannes Capucie" (o "Capocie") fra i sei figli maschi del ricordato "nepos" del papa "Iohannes Cinthii de Papa". Secondo M. Thumser costoro, tramite legami al momento non ricostruibili genealogicamente, apparterrebbero ad un ramo parallelo della famiglia Capocci. Tale conclusione si basa sulla citata menzione, fra i "de Papa", di "Iohannes Capucie" (nome che ricorre anche due generazioni dopo, con l'attestazione di "Iohannes Capocie filius domini Petri Cinthii de Papa": B.A.V., Archivio di S. Maria in Via Lata, cass. 303, nrr. 7, 10-3), nonché sul possesso di parte del castello di Sant'Onesto, situato ai margini dell'area di radicamento signorile dei Capocci. Ulteriori indizi vengono poi individuati nel ricorrere, fra i maschi del supposto ramo parallelo, dei nomi di battesimo tipici di quello principale (Giovanni, Giacomo, Pietro), e infine dal passaggio del castello di Sant'Onesto dall'ipotetico ramo secondario a quello principale, avvenuto al termine del XIII secolo.

Si tratta tuttavia sempre di argomenti debolissimi e mal posti. È evidente la fragilità dei dati tratti dall'onomastica se, come in questo caso, i nomi assunti come indicatore sono fra i più diffusi nella società del tempo; inoltre, piuttosto che ad una comune ascendenza ormai remotissima, il tardo passaggio di proprietà di Sant'Onesto può con tranquillità venire attribuito alla costante espansione (alla quale hanno probabilmente contribuito alleanze matrimoniali stipulate soltanto nel pieno e tardo XIII secolo) dei possessi dei Capocci nell'area posta fra Tivoli e Roma dove si concentravano tutti i castelli familiari. Ma, soprattutto, sfugge a M. Thumser che "Iohannes Capocie" è un nome individuale, del resto molto comune nella società romana del primo Duecento (nell'arco di un ventennio, nel solo fondo archivistico da cui trae le menzioni del 1257-1259 sono ricordati almeno altri tre Giovanni dotati del soprannome "Capocie": cfr. I. Baumgärtner, ad indicem). Infine, se anche si volesse ammettere la soffertissima attribuzione ai Capocci dei "nepotes" di O., resterebbe pur sempre da provare che il pontefice non fosse poi loro zio solo per via femminile, appartenendo quindi a tutt'altro lignaggio agnatico.

Nel complesso, la vicenda personale di O. non rappresenta dunque un ennesimo esempio della capacità della grande aristocrazia romana di imporre cardinali e papi. Piuttosto, con la sua ascesa tutta interna agli apparati di Curia è esemplificativa del ruolo crescente giocato, nella selezione sociale e nella creazione di élites prelatizie, dalla struttura burocratica che il papato era andato costituendo intorno a sé nel XII secolo. Nella breve introduzione al Liber censuum, che data al 1192, Cencio si qualifica come canonico della basilica di S. Maria Maggiore e ricorda che egli ricopriva la carica di camerario della Chiesa già dal tempo di Clemente III, in sintonia con la prima attestazione documentaria del suo importantissimo incarico curiale, che appunto risale al 22 gennaio 1188.

Come camerario della Chiesa, Cencio attese alla compilazione del Liber censuum Ecclesiae romanae. Questo rappresenta il primo elenco dettagliato, ma forse non onnicomprensivo, delle entrate "regolari" della Chiesa di Roma il cui nucleo originario, dopo i lavori preparatori che risalgono agli anni del pontificato di Clemente III, fu portato a termine da Cencio nel 1192, quando era pontefice Celestino III, il quale già da cardinale aveva avuto modo di constatare l'inadeguatezza degli strumenti amministrativi della Chiesa romana, le cui difficoltà di natura economica dipendevano anche dalla mancanza di una sicura documentazione relativa ai suoi diritti e alle sue rivendicazioni finanziarie. Basandosi su compilazioni precedenti e su numerosi documenti anteriori, Cencio redasse un elenco dei censi dovuti alla Chiesa romana; in esso sono registrati gli introiti di varia natura provenienti dai territori direttamente sottoposti alla giurisdizione del papa, gli enti ecclesiastici tenuti a corrispondere il censo alla Chiesa di Roma, i Regni ed i signori sui quali i pontefici vantavano sovranità feudale, nonché i territori soggetti al pagamento dell'obolo di s. Pietro. Il Liber censuum rappresentò un importante strumento per la riorganizzazione delle finanze papali ed in seguito si arricchì di nuove parti, ma il nucleo centrale ed originario è quello che denota la volontà della Chiesa romana di dotarsi di strumenti e strutture adeguate, capaci di garantire una razionalizzazione delle sue finanze.

La sua attività di abile amministratore delle finanze papali gli valse la nomina a cardinale diacono del titolo di S. Lucia in Orthea da parte di Celestino III (la prima sottoscrizione è del 4 marzo 1193). I buoni rapporti di Cencio con il pontefice Celestino III risalivano, comunque, ad un periodo ancora precedente. Burcardo di Ursperg rammenta, infatti, come Celestino III, quando era ancora cardinale (Giacinto Boboni), lo avesse nominato suo procuratore per raccogliere i fondi necessari per compiere la sua terza legazione in Spagna, ma che non giunse mai a destinazione. La grande fiducia che Celestino III riponeva in lui si manifestò ulteriormente quando lo pose anche a capo della Cancelleria pontificia (perlomeno dall'autunno 1194). Negli anni del pontificato di Celestino III fu spesso impiegato come uditore del tribunale curiale e ricevette anche importanti incarichi politico-diplomatici, tra i quali, nel 1196, quello di condurre (in collaborazione con i cardinali Ottavio di Ostia e Pietro di S. Cecilia) le trattative con l'imperatore Enrico VI, che si trovava allora nei dintorni di Roma.

I rapporti personali e di collaborazione che intercorsero tra Cencio ed Innocenzo III (anche prima che questi divenisse papa) sono del tutto oscuri. Non sembrano tuttavia buoni, almeno a giudicare dalla progressiva estromissione di Cencio da ogni importante incarico curiale che ebbe luogo durante il lungo pontificato innocenziano, e che contrasta con l'enorme esperienza del cardinale e con il suo precedente coinvolgimento nei più delicati affari della Curia. La duplice carica di camerario e cancelliere fu annullata, e Cencio si dimise definitivamente dai due uffici curiali quando nella primavera del 1200 fu promosso cardinale prete del titolo dei SS. Giovanni e Paolo (la sua prima sottoscrizione con tale titolo risale al 4 luglio). Questa promozione non sembra dunque significativa, tanto più che durante l'intero pontificato di Innocenzo III la figura del cardinale Cencio appare decisamente in ombra, e perfino la sua collaborazione col papa nelle più normali azioni di governo e di amministrazione pare limitata ed esiguo risulta il numero delle sue sottoscrizioni in calce ai privilegi papali.

Il 16 luglio 1216 moriva a Perugia Innocenzo III ed il giorno seguente, celebrate le esequie del defunto, i cardinali si riunivano per eleggere il suo successore. Non si dispone di molti particolari su come si sia giunti all'elezione; la fonte principale resta quanto lo stesso O. riferì in alcune lettere dei primissimi giorni del suo pontificato. Sappiamo che il conclave fu breve - l'elezione avvenne il 18 luglio - e che i cardinali giunsero alla designazione del nuovo pontefice in relativo accordo, pur se, a quel che sembra, ricorrendo all'elezione "per compromissum", designando come "compromissarii" i cardinali vescovi Ugolino di Ostia e Guido "de Papa" di Preneste (Regesta Honorii papae, nr. 8). Il neoeletto pontefice fu consacrato nella chiesa di S. Pietro di Perugia il 24 luglio successivo ("nosque olim assumpti ad apostolatus apicem consecrationem recepimus in eodem", ricordava lo stesso O. in una lettera del 17 maggio 1218 indirizzata alla comunità del monastero perugino di S. Pietro; ibid., nr. 1341).

Giacomo di Vitry, all'indomani dell'elezione di O., parla del nuovo papa (non senza una vena polemica nei confronti del predecessore) descrivendolo come un buon vecchio, religioso, molto semplice e benigno, prodigo nei confronti dei poveri. Burcardo di Ursperg lo descrive come uomo fragile e di salute cagionevole, mentre la cronaca di Mailros lo definisce uomo "tam scientia, quam aetate maturus".

O. si trattenne a Perugia fin verso la fine del mese di agosto. Fece poi ritorno a Roma; il 4 settembre fu accolto in Laterano con tale tripudio di popolo, che gli Annales Ceccanenses affermano che una simile accoglienza non era stata riservata a nessuno dei suoi predecessori: "pridie nonas septembris receptus est in ecclesia Lateranensis cum tanto gaudio et veneratione, gloria et iucunditate, quod omnes videntes dixerunt quod nullus de predecessoribus suis in receptione simili fuisset".

Innocenzo III lasciava al suo successore un'eredità formidabile, tanto sul piano temporale quanto su quello religioso. Qualsiasi radicale cambiamento negli indirizzi della politica papale era poco probabile. Si trattava, semmai, di proseguire l'opera innocenziana in tanti campi, dalla repressione dell'eresia all'organizzazione della crociata, dalla scelta prohohen-staufen sulla questione imperiale alla politica verso il Regno di Sicilia, dall'affermazione della superiorità feudale su molti Regni della cristianità al consolidamento delle vaste acquisizioni temporali in Italia centrale e sul Comune di Roma. Furono in effetti queste le linee di fondo del pontificato di O., apertosi all'insegna della più esplicita volontà, proclamata in numerose lettere a sovrani e nobili, di continuare la politica del predecessore.

Fra le tante questioni aperte, la crociata è stata per tutto il pontificato di O. la preoccupazione principale, l'obiettivo al quale il papa ha dedicato maggiori sforzi e che ha condizionato molti dei suoi interventi politici. Bandita da Innocenzo III durante il IV concilio del Laterano, nel novembre 1215, la spedizione cristiana doveva muovere da Brindisi e Messina nel luglio del 1217. L'esito disastroso della IV crociata aveva mostrato come per il successo dell'operazione fosse indispensabile prestare una migliore attenzione alle questioni organizzative. A livello finanziario, il papato assunse quindi in una misura molto maggiore che in passato l'iniziativa di raccogliere fondi, promuovendone una gestione il più possibile centralizzata. O. si preoccupò di ottenere da tutti i chierici il regolare pagamento del contributo triennale di un ventesimo delle rendite stabilito nel concilio del Laterano, sollecitando nel contempo, da principi e laicato, doni monetari o la fornitura e l'equipaggiamento di navi. Effettuò inoltre finanziamenti, peraltro di ignota consistenza, direttamente dalle casse pontificie, e prestò una cura senza precedenti ai problemi pratici, di vettovagliamento e organizzazione concreta. A livello politico, per assicurare la più ampia partecipazione alla spedizione O. si impegnò, fin dai mesi successivi alla sua elezione, in una vasta opera di pacificazione, portata avanti dai suoi numerosi legati. Sforzi particolari furono indirizzati all'Italia comunale e ai rapporti fra i sovrani inglesi e francesi. Nell'Italia centrosettentrionale inviò a più riprese l'abile cardinale Ugolino di Ostia, il futuro Gregorio IX, che nel 1217 operò in particolare in Liguria e Toscana, e poi, l'anno successivo, nella pianura padana, riuscendo a promuovere alcune paci sia fra Comuni rivali, sia al loro interno, fra fazioni e gruppi sociali in contrasto. Nonostante tali successi, la legazione mostrò tuttavia l'impossibilità di ottenere una duratura composizione dei conflitti che dilaniavano il mondo comunale.

Anche fuori d'Italia O. cercò di ridurre i contrasti fra i sovrani, operando nel contempo per tutelare ed accrescere l'influenza politica della Chiesa. Finalizzati essenzialmente alla preparazione della crociata furono l'arbitrato papale fra Filippo II Augusto di Francia e Giacomo I di Aragona, come anche l'appoggio fornito alla pace fra il duca di Galizia e il granduca di Polonia. Nell'intervento di maggiore ampiezza, svoltosi in Inghilterra, appare invece difficile svincolare gli obiettivi connessi alla crociata con quelli, spesso prevalenti, legati all'affermazione della superiorità papale sul Regno insulare, che dal 1213, con la sottomissione di re Giovanni Senzaterra, era divenuto un feudo della Chiesa.

L'isola si trovava allora in una situazione difficile a causa della rivolta dei baroni contro la monarchia. La nobiltà ribelle era giunta a proclamare candidato alla corona Luigi, figlio del re di Francia Filippo Augusto, che era sbarcato con un seguito di truppe sul suolo inglese. Tuttavia la morte di Giovanni Senzaterra, nell'ottobre del 1216, spinse molti baroni a riavvicinarsi alla monarchia, al fine di proteggere i diritti dell'erede Enrico III, di appena nove anni. In questa congiuntura fu decisivo l'intervento di O., che sostenne con decisione i diritti del piccolo erede. Il legato pontificio in Inghilterra, il cardinale Guala Bicchieri, provvide ad una tempestiva incoronazione di Enrico III, fornendogli poi, su ordine del pontefice, un sistematico appoggio contro i nobili ribelli e i grandi enti monastici, soprattutto cistercensi, che li fiancheggiavano. Il papa, nel contempo, operava attivamente per indurre il re di Francia a richiamare sul continente il figlio, e per assicurare alla causa del sovrano inglese anche la Scozia e il Galles. Il ritorno di Luigi in Francia nell'autunno del 1217 e la pace che infine stipulò con Enrico III nel gennaio successivo sancirono non solo il successo della monarchia e della nobiltà ad essa fedele, ma anche quello del loro lontano protettore, che peraltro continuò ad operare, negli anni successivi, per sostenere i diritti del re contro i suoi vassalli, sull'isola come sul continente. O. intervenne inoltre sulle strutture ecclesiastiche inglesi, rivelandosi un amministratore capace che, forte della lunga esperienza in Curia, seppe valorizzare e migliorare l'opera del predecessore.

Presente più o meno apertamente in interventi effettuati nei più diversi luoghi della cristianità, ossessivamente riproposta in innumerevoli lettere pontificie, la questione della crociata doveva ovviamente porsi al centro dei rapporti fra il pontefice e Federico II. Nel 1215, appena conclusa la cerimonia di incoronazione a re dei Romani, Federico aveva preso la croce e fatto i voti di crociato. Tuttavia la difficile situazione tedesca, dove ancora persisteva la minaccia di Ottone IV e dei suoi sostenitori, pose fuori discussione, anche agli occhi dello stesso papa, la possibilità che lo svevo si imbarcasse insieme alle truppe che partirono nell'estate del 1217. La spedizione, comandata dai re di Ungheria (Andrea II), di Cipro (Ugo I) e di Gerusalemme (Giovanni di Brienne), e dal duca Leopoldo d'Austria, dopo aver senza successo tentato l'attacco diretto alla Terrasanta, si diresse verso l'Egitto, impadronendosi infine di Damietta, sulle foci del Nilo, un centro di importanza strategica che il papa con buone ragioni descrive come "quasi porta et munimen Egypti" (Regesta Honorii papae III, nr. 4330). Per coordinare l'opera dei crociati venne inviato come legato Pelagio, cardinale vescovo di Albano. Nel frattempo Federico II, preoccupato per l'esito della crociata, aveva ribadito (dicembre 1218) il proposito di raggiungere quanto prima l'esercito cristiano, invitando addirittura il papa a scomunicare chiunque non avesse ottemperato al suo giuramento di crociato entro il 24 giugno del 1219. La sincerità delle sue intenzioni sembra fuori discussione, ma la preoccupazione di assicurare l'elezione del figlio Enrico a re dei Romani, di stroncare la resistenza del fratello dell'ormai defunto Ottone IV e di ottenere il sostegno dei principi tedeschi lo indussero a rimandare la partenza. O. lo esortò più volte a porre fine agli indugi, giungendo anche nel marzo 1220 a ricordargli, in forme velate, la possibilità di incorrere nella scomunica che aveva lui stesso sollecitata (C. Rodenberg, nrr. 95, 97, 106, 112). La situazione a Damietta andava nel frattempo precipitando, anche per responsabilità del cardinale Pelagio e dello stesso O., che avevano rifiutato un'offerta di pace del sultano d'Egitto, disponibile a cedere, in cambio di Damietta, Gerusalemme e altri importanti centri della Terrasanta. Federico II, pur rimandando la sua personale partecipazione, organizzò infine l'invio di aiuti, che tuttavia giunsero in Egitto quando Damietta era già stata perduta e i crociati costretti ad accettare una tregua di otto anni (8 settembre 1221). Con una severa requisitoria, nel novembre il papa accusò l'imperatore di essere il principale responsabile del fallimento.

Per i restanti anni del pontificato di O., la storia della crociata è innanzitutto quella degli sforzi per organizzare un nuovo contingente di spedizione, e per imporre la diretta partecipazione dell'imperatore, tanto più indispensabile dopo che il fallimento del 1221 aveva suscitato ampia delusione e sopito gli entusiasmi per l'avventura in Terrasanta. La raccolta di fondi proseguì, ed il pontefice organizzò anche una nuova ondata di predicazioni, che non ottenne peraltro molti successi. L'impegno imperiale alla crociata, rinnovato in occasione dell'incoronazione avvenuta a Roma il 22 novembre 1220, fu tante volte ripetuto e poi disatteso: in particolare nell'incontro fra papa e imperatore tenutosi a Ferentino nel marzo del 1223, dove il termine di partenza venne fissato al giugno del 1225, e nella Dieta di San Germano, del luglio 1225, allorché venne concordato di far slittare il termine all'agosto 1227. Tutti questi impegni e rinvii si accompagnarono a pressioni di vario tipo, a concessioni e, nel 1223, anche all'organizzazione del matrimonio fra l'imperatore e la figlia di Giovanni di Brienne, Isabella, che avrebbe trasmesso al marito il titolo di re di Gerusalemme, accrescendone, nelle intenzioni del papa, il diretto interesse alla riconquista e garantendo poi, con i figli della coppia, un erede maschio ad un Regno del quale da oltre un quarantennio erano titolari unicamente donne.

La ricerca ha da tempo ridimensionato le valutazioni che, muovendo dalla propaganda antiimperiale dei decenni successivi, attribuiscono le esitazioni e i ritardi di Federico II ad un calcolo astuto, reso possibile dalla mitezza del vecchio papa, e motivato dal desiderio di strappargli sempre nuove concessioni. Imponenti furono in effetti i preparativi imperiali alla spedizione, soprattutto nell'allestimento di una potente flotta; innegabili, anche se talora ingigantiti, i pretesti di politica interna di volta in volta avanzati per motivare i ritardi; oggettive le difficoltà di preparazione dell'impresa, tanto più che anche al papa era chiara la necessità di intraprendere un'operazione attentamente pianificata in tutti i suoi particolari. Altra evidente causa dei ritardi, in un progetto dove il grosso delle truppe doveva di necessità provenire dai territori imperiali, era la reale disponibilità dei soggetti al sovrano: la nobiltà tedesca continuava a mostrarsi molto tiepida all'idea di un nuovo impegno militare in Oriente, mentre le rivalità fra le città dell'Italia settentrionale e i loro sospetti sulle reali intenzioni dell'imperatore limitavano gli aiuti finanziari e la fornitura dei contingenti. Nel complesso, pur se nell'atteggiamento del papa non mancarono i toni accesi e la richiesta di precise garanzie (come le 100.000 once d'oro previste a San Germano come penalità nel caso Federico II avesse mancato al suo impegno), O. seguì con coerenza una politica di cooperazione e di mediazione, dietro la quale è facile scorgere la convinzione che l'imperatore desiderasse realmente operare a fianco della Sede apostolica per la riconquista di Gerusalemme. Durante la sua vita, il papa non riuscì ad ottenere la partenza dell'esercito cristiano, ma dipese certamente molto dai suoi sforzi, e dalla capacità di conservare il sostanziale accordo con l'imperatore, se infine la spedizione poté prendere il mare nell'estate del 1227.

Con Federico II, che era insieme re di Sicilia e imperatore, la questione della crociata si intrecciava e sovrapponeva con numerosi altri aspetti della politica papale che solo per esigenze di chiarezza vengono qui affrontati separatamente. Ancor più che nella crociata, in questi campi O. riuscì a raggiungere alcuni importanti risultati. I principali successi - mai conclamati, mai completi, ma spesso significativi - riguardarono il riconoscimento dei diritti acquisiti sulle regioni conquistate allo Stato della Chiesa da Innocenzo III, la persecuzione dei movimenti ereticali, la difesa delle "libertates" ecclesiastiche, l'acquisizione di nuovi territori in Toscana e Italia settentrionale, la tutela delle prerogative feudali della Chiesa romana e, non ultima, della sua stessa sovranità feudale sul Regno di Sicilia. Furono tutte questioni che non mancarono di sollevare tensioni e contrasti, costringendo talora il papa a moltiplicare le sollecitazioni e le minacce. Ma si inserivano, e trovarono soluzione, in un contesto pur sempre connotato dalla ricerca dell'accordo e della collaborazione e che rinvia a una concezione dei rapporti fra papato e Impero per certi aspetti molto tradizionale e condivisa da entrambi i protagonisti. Un campo dove si manifestò con la massima evidenza questa dialettica fra la tensione ad un operare concorde e una (parziale) divergenza di obiettivi e priorità fu quello dell'unione del Regno di Sicilia all'Impero.

L'acquisizione del Regno normanno di Sicilia da parte di un esponente della dinastia degli Hohenstaufen titolare della dignità imperiale era un'eventualità che alterava profondamente gli equilibri politici del tempo, in particolare in Italia e nei domini della Chiesa, ed era stata quindi energicamente contrastata dal papato fin dal tardo XII secolo. Innocenzo III aveva ottenuto dal giovane Federico impegni precisi a conservare la separazione. Nel 1212, dopo aver incoronato re di Sicilia il figlio neonato Enrico, lo svevo aveva dovuto promettere di mantenere la separazione, giurando poi solennemente, nel luglio 1216, di rinunciare completamente al Regno meridionale non appena fosse stato incoronato imperatore. O. mantenne al riguardo la linea di condotta del predecessore, scontrandosi però con la determinazione di Federico che, seppur pronto a rinnovare le promesse, fece trasferire il figlio in Germania con l'intenzione di ottenerne l'elezione a re dei Romani, e dunque a proprio successore nella dignità imperiale. Il suo piano sembra essere stato noto alla Corte papale, che pur disapprovandolo non fu in grado di prendere efficaci contromisure, benché sia stato supposto che l'iniziale opposizione dell'alto clero tedesco dipendesse dalle pressioni pontificie. L'elezione infine avvenne nell'aprile del 1220, dopo che Federico aveva effettuato ampie concessioni ai principi ecclesiastici. Alle proteste del papa, che peraltro furono contenute sul piano dei concreti provvedimenti, il sovrano rispose accampando scuse poco credibili, come quella di essere stato del tutto all'oscuro del progetto. Il contrasto venne ricomposto rapidamente e nel novembre successivo, poco prima dell'incoronazione imperiale, O. ottenne una serie di garanzie. Federico II giurò che la Corona di Sicilia non sarebbe mai stata unita con quella dell'Impero, riconobbe la subordinazione del Regno meridionale alla Sede apostolica, ammise che Impero e Regno di Sicilia erano realtà giuridicamente distinte e unite solo nella sua persona, impegnandosi inoltre a conservare una distinzione di strutture burocratiche.

Altri motivi di tensione, mediazione e accordo furono gli interventi pontifici sulle nomine agli episcopati del Regno e l'incertezza del riconoscimento imperiale dei domini temporali della Chiesa. Durante la minorità e poi il lungo soggiorno in Germania di Federico II, il papato aveva visto nella nomina di vescovi legati alla Curia un efficace strumento di controllo del Regno meridionale e del suo sovrano. Dopo l'incoronazione imperiale, però, lo sforzo di Federico II di acquisire una maggiore influenza sull'alto clero, obiettivo che era parte integrante della sua politica volta ad accrescere la solidità interna della monarchia, si era tradotto in continui interventi per pilotare i risultati delle elezioni vescovili. O. lo rimproverò aspramente, rifiutandosi di confermare alcuni vescovi. Già nel 1221 le trattative per rivedere gli accordi stabiliti nel 1212, che limitavano le facoltà regie al consenso all'eletto dal Capitolo e quelle papali al conferimento dell'officiatura, erano di fatto arenate. Nel 1225 O. violò i limiti fissati nel 1212, nominando o trasferendo alcuni vescovi senza informare il re di Sicilia, che reagì impedendo ai vescovi di accedere alle loro sedi. Alla durissima lettera di Federico che comunicava la decisione, O. rispose con mitezza, suggerendo che il re si fosse lasciato trascinare da cattivi consiglieri. Nel contempo, cercò di favorire il compromesso, raggiunto infine nel 1226, scegliendo solo prelati vicini o comunque non sgraditi a Federico II.

Anche il definitivo riconoscimento imperiale dell'ampia espansione dei domini papali avvenuta con Innocenzo III era oggetto di costante preoccupazione da parte della Curia, e materia centrale, assieme alla crociata, degli incontri al vertice fra O. e l'imperatore. Nonostante Federico II avesse due volte confermato, nel 1219 e nel 1221, le anteriori donazioni di tali territori (aggiungendovi anzi, nel 1219, la zona appenninica di Massa Trabaria), il papa temeva che il ritiro svevo dall'Italia centrale fosse solo provvisorio. Di qui la continua richiesta di nuove conferme, e l'ansiosa vigilanza contro ogni intromissione imperiale. Nel complesso, va peraltro notato che la costante collaborazione con l'Impero impedì che venissero messi seriamente in discussione la superiore autorità del papa e il suo diritto a costituire, in quelle regioni dell'Italia centrale, strutture di controllo politico, fiscale e militare.

In altri campi, i risultati ottenuti da O. nel suo rapporto con l'imperatore furono ancor più consistenti. In occasione dell'incoronazione del 1220, Federico II effettuò importanti concessioni, con ogni probabilità stabilite durante trattative anteriori. Prima ancora di giungere a Roma, rinunciò in favore della Chiesa ad ogni pretesa sui beni matildini. Situati in più zone della Toscana, degli Appennini e dell'Italia settentrionale, i possessi appartenuti a Matilde di Toscana († 1115) erano territori vasti, ricchi e strategicamente importanti, rivendicati inutilmente dai pontefici per oltre un secolo. Si trattava quindi di una concessione rilevante sia sul piano simbolico, sia su quello materiale. Peraltro in alcuni casi il papato faticò o non riuscì affatto ad entrare in possesso dei territori ricevuti, o quantomeno a far riconoscere i suoi diritti dai diversi signori che li detenevano. A tal fine, negli anni successivi O. sollecitò ed ottenne anche l'intervento imperiale.

Chiaro indizio della volontà di accordo e di un operare congiunto fra le massime autorità della cristianità fu poi la Constitutio in Basilica Beati Petri. Si trattava di una serie di dieci articoli che una legazione papale, capeggiata dal cardinale Nicola di Clairmont, aveva sottoposto a Federico II durante il suo viaggio verso Roma, e che furono accolti senza richiedere, a quel che sembra, nessuna consistente modifica. Significativamente, vennero promulgati nel corso della solenne cerimonia di incoronazione, come primo provvedimento legislativo del nuovo imperatore. Il decreto imperiale, che spesso riprendeva alla lettera alcune costituzioni del concilio Lateranense del 1215, garantiva fra l'altro tutte le "libertates" ecclesiastiche, come l'esenzione dei chierici dai tribunali secolari e la loro immunità fiscale, e conteneva una serie di provvedimenti contro gli eretici, condannati all'esilio e alla confisca dei beni, prevedendo inoltre che alla scomunica comminata dall'autorità religiosa seguisse automaticamente il bando dall'Impero. A ribadire l'importanza, ad un tempo politica e simbolica, della Constitutio, venne ordinato ai docenti e studenti dell'Università di Bologna di inserire i decreti nei codici di diritto romano e, ai Comuni, di aggiungerli ai propri statuti, perché divenissero operanti nei loro territori.

O. otteneva così dall'Impero un importante appoggio per risolvere i conflitti che, in molte città, opponevano le autorità comunali a quelle ecclesiastiche. Tensioni e contrasti riguardavano sia la repressione dell'eresia, spesso condotta dai Comuni con un impegno giudicato insufficiente dal papato, sia la difesa delle "libertates" ecclesiastiche, campo contiguo e non di rado confuso col problema dell'eresia. Numerose erano le città che nutrivano ambizioni sui beni rivendicati dal papa, che sottoponevano il clero a contributi fiscali, che temevano politiche di recupero di patrimoni ecclesiastici alienati in passato, che contestavano i residui diritti giurisdizionali del vescovo o le sue ancora ampie capacità di intervento politico. È significativo che già all'inizio del 1221 il cardinale legato in Lombardia ricevette mandato da O. di indurre le città dell'Italia settentrionale ad accogliere le disposizioni della Constitutio nelle raccolte statutarie, ma vi riuscì solo a fatica e parzialmente.

L'epistolario di O. testimonia l'intervento papale in numerosi di questi conflitti locali. A Lucca, nel 1221 era ad esempio scoppiato un vivo contrasto fra Comune ed episcopato, che portò all'occupazione dei beni ecclesiastici e all'espulsione di tutto il clero dalla città. Il podestà lucchese, che era poi il romano Parenzo Parenzi, esponente di un gruppo politico capitolino avverso ad O., avrebbe persino proibito battesimi, comunioni e confessioni, comminando gravi pene ai fedeli che trasgredivano il divieto. La reazione del papa fu severa e decisa: scomunicato il podestà, sottopose Lucca ad interdetto, favorì leghe fra i Pisani e alcuni nobili lucchesi contrari a Parenzo, vietò a Genova di intrattenere qualsiasi rapporto commerciale con cittadini lucchesi, infine minacciò di immediato interdetto e scomunica i Comuni e i consiglieri che in futuro eleggessero a podestà Parenzo. In altri casi, l'intervento papale si inseriva nelle lotte fra "popolo", nobiltà e gerarchie ecclesiastiche, normalmente legate da molteplici legami ai gruppi nobiliari. A Perugia per due volte, nel 1218 e nel 1223, O. respinse o annullò tutte le misure che potevano intaccare i privilegi e le prerogative fino allora esercitati dalla nobiltà, sia in campo fiscale che politico. Nella sua terza legazione lombarda, del 1221, il cardinale Ugolino di Ostia si sforzò più volte di tutelare gli interessi dei "milites" di Piacenza, impegnandosi poi in un duro scontro, a fianco dell'arcivescovo di Milano e della nobiltà, con il potente Comune padano e le sue organizzazioni di "popolo". Nonostante O. stesso ordinasse nel 1222 la proclamazione dell'interdetto su Milano, e tornasse poi più di una volta, con lusinghe e minacce, ad intervenire in sostegno del presule, il conflitto, che aveva portato all'espulsione dell'arcivescovo e alla fuoriuscita della nobiltà, proseguì fino al 1225, quando infine fra nobili e "popolo" venne stipulato un accordo dovuto in parte ai buoni uffici dello stesso papa.

Nel 1226, in occasione della convocazione di una Dieta da tenersi per Pasqua a Cremona, la turbolenza di Milano e degli altri Comuni settentrionali si indirizzò apertamente contro Federico II. Scopo dichiarato della "curia" imperiale era l'organizzazione della crociata, ma i Comuni padani, temendo la riaffermazione del potere imperiale, rinnovarono la Lega lombarda e sbarrarono nella valle dell'Adige il passo ai contingenti tedeschi, comandati dal giovane figlio Enrico, che si dirigevano all'incontro. La spedizione aveva suscitato anche i timori di O., soprattutto perché l'imperatore, risalendo dal meridione verso Cremona, aveva richiesto truppe anche ai Comuni dello Stato della Chiesa. Quando il papa si oppose, l'imperatore manifestò con durezza la sua delusione per il comportamento della Chiesa, accusata di cercare soltanto il proprio tornaconto; ma alla risposta ferma ed equilibrata di O. seguirono le scuse imperiali, che peraltro non impedirono a Federico II di rinnovare dopo poco la richiesta di quello che considerava un suo diritto. Nel frattempo, O. aveva però assunto un ruolo centrale nel tentativo di porre fine alla rivolta dei Comuni. La mediazione romana, alla quale l'imperatore diede pieno appoggio ma che dovette anche generare una diffidenza di fondo sulla reale volontà papale di ricondurre i Comuni ribelli alla più completa obbedienza imperiale, condusse sul finire dell'anno ad un accordo che prevedeva il totale perdono dei ribelli e la fornitura di un contingente militare per la crociata, prevista per l'estate del 1227. Era un accordo indispensabile alla realizzazione della crociata, principale preoccupazione in quegli anni dell'imperatore e come sempre massimo obiettivo del pontefice, il quale non mancò di intervenire duramente, a soli otto giorni dalla morte, per sollecitare i Lombardi ad una completa ratifica dei patti. Il controllo di Roma e il governo dello Stato della Chiesa furono altri due campi in cui si esplicò, con alterni risultati, l'attività politica di Onorio III.

Per quanto riguarda il rapporto con Roma, si impone in primo luogo una duplice constatazione: il pontefice, per età e per carattere, non tentò mai di imporsi con eccessiva fermezza, ma d'altra parte, per quanto romano di nascita, poteva contare solo in modesta misura sull'appoggio della sua famiglia (che, come s'è detto, non faceva parte della potente aristocrazia cittadina). Così, se la propensione di O. verso la mediazione limitò l'entità dei contrasti, la sua sostanziale debolezza fece anche sì che il partito antipapale, represso con efficacia per tutta la seconda parte del suo pontificato da Innocenzo III, riprendesse progressivamente vigore. O., come i suoi predecessori, stabilì la sua residenza nel Palazzo del Laterano, ma, al pari di Innocenzo III, lasciò regolarmente Roma per trascorrere i mesi estivi lontani dalla calda e malsana città (dove risiedette solamente quattro estati: 1218, 1221, 1224 e 1226). Complessivamente il pontefice trascorse oltre il trenta per cento del suo pontificato lontano dall'Urbe. Dalla metà del 1219 e per gran parte dell'anno seguente O. risiedette in località come Rieti, Viterbo, Civita Castellana e Orvieto, "propter romanorum molestiam". Nel contempo Federico II stringeva maggiormente i rapporti con il partito filoimperiale romano, pur mantenendosi sempre nella sfera delle pacifiche relazioni con la Chiesa romana. Preparando la sua discesa a Roma per ricevere la corona imperiale, Federico II aveva inviato lusinghiere lettere ai Romani, con le quali rammentava il suo affetto nei loro confronti, ma li esortava pure alla calma e ricordava i doveri che avevano nei confronti del papa e della Chiesa. La risposta del senatore Parenzo Parenzi fu di sostanziale favore verso Federico II, con toni di conciliazione. In seguito il senatore fece intendere che i Romani non avrebbero gradito un eventuale intervento imperiale negli affari interni della città, che, in ogni caso, si manteneva fedele al pontefice del quale non voleva offendere i diritti. Il senatore comunque si impegnava ad appianare ogni possibile difficoltà affinché l'incoronazione si svolgesse regolarmente ed al più presto. Su queste basi, O. fece ritorno a Roma (26 ottobre 1220) e di lì a circa un mese (20 novembre) Federico II fu incoronato imperatore da O., con il concorso del clero e del popolo romano. I rapporti tra O. ed i Romani si guastarono nuovamente nei primi mesi del 1222, quando il Comune capitolino intervenne in un conflitto interno alla città di Viterbo, nella speranza di ricavarne qualche vantaggio territoriale. Dopo la battaglia di Monte Ardito, O. offrì la sua mediazione per ristabilire la pace, ma il progettato intervento papale incontrò la ferma opposizione dei Romani, che insorsero e costrinsero il pontefice a rifugiarsi nel Lazio meridionale (è ad Anagni il 28 febbraio). A metà del mese di aprile O. si incontrò a Veroli con l'imperatore, con il quale ebbe un lungo colloquio vertente, soprattutto, sulle questioni relative alla crociata. Quasi contemporaneamente le truppe imperiali si muovevano in soccorso dei Viterbesi obbligando i Romani a ritirarsi e ad accogliere di nuovo il pontefice, il quale poté rientrare nella sua città intorno al 21 giugno. La situazione si fece di nuovo critica nel maggio 1225. A Roma aveva ripreso il sopravvento la fazione antipapale, espressione del tentativo di recuperare i margini di autonomia comunale in buona parte perduti durante il pontificato di Innocenzo III. Di questo orientamento politico è testimone la stessa elezione a senatore di Parenzo Parenzi, che in quegli anni era divenuto uno dei principali antagonisti del papa. Forse in seguito anche ai ricordati contrasti circa la sua podesteria di Lucca nel 1221-1222, l'atteggiamento di Parenzo appare infatti decisamente mutato rispetto a quello tenuto nel 1220 in occasione dello scambio epistolare con Federico II. A causa dei disordini interni alla città, nella primavera del 1225 O. fu costretto a fuggire a Tivoli (dove certo si trovava il 1° maggio).

Alle poche e scarne notizie su questi eventi si deve aggiungere quella, unica al riguardo, riportata nel Chronicon Sancti Martini Turonensis, che arricchisce il quadro con la già citata testimonianza - comunque laconica - di un acceso contrasto tra i nipoti del papa e Riccardo Conti, fratello di Innocenzo III. Sfuggono le motivazioni che misero l'una contro l'altra le due fazioni; Riccardo, comunque, in quel momento era stato fortemente danneggiato nei suoi domini territoriali dall'intervento diretto sia dell'imperatore (che gli aveva sottratto la Contea di Sora), sia del papa (che gli aveva tolto alcuni territori presso la foce del Tevere, per restituirli al vescovo di Ostia), ed era certamente deciso a rifarsi dei danni subiti. Si potrebbe anche supporre che questo scontro familiare riverberasse in qualche modo quelli che potevano essere stati i possibili antagonismi e dissapori tra il futuro O. e Innocenzo III (rivalità che, come si è detto, sembrerebbero trasparire dal forte ridimensionamento del ruolo e della figura del cardinale Cencio durante il pontificato di Innocenzo III).

In ogni caso, dopo aver soggiornato a Tivoli e Rieti fino ai primi di febbraio del 1226, O. poté rientrare a Roma, dove era stata ristabilita la pace. In qual modo e su quali basi ciò avvenne non è dato saperlo, ma certamente la soluzione del conflitto interno dovette veder soccombere Parenzo, che fu deposto dalla carica di senatore per essere sostituito da Angelo Benincasa (forse un nipote del pontefice Clemente III). Per il successivo - ed ultimo - anno di pontificato di O. non sono noti episodi significativi nel rapporto tra il papa ed il Comune romano. Il pontefice intervenne, invece, in favore dei Romani nel gennaio 1226, quando ottenne aiuti alimentari dall'imperatore Federico II per la città di Roma colpita da una dura carestia. Almeno a partire dagli anni in cui divenne camerario della Chiesa di Roma, Cencio aveva mostrato quella grande attenzione per l'attività di committenza artistica che denoterà, poi, anche gli anni del suo pontificato in misura decisamente superiore a quella constatabile per il suo grande predecessore.

Prima che fosse eletto papa, per sua iniziativa vennero intrapresi lavori di restauro al Laterano con la fusione di due protomi in bronzo (oggi nel battistero lateranense e nel chiostro di S. Giovanni). Egli fece anche eseguire lavori nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, della quale era divenuto cardinale titolare (forse, però, circoscritti alla sola sopraelevazione della galleria del portico) e nell'annessa residenza conventuale, ma soprattutto promosse gli imponenti interventi di trasformazione della basilica di S. Lorenzo al Verano, che furono intrapresi a partire dal 1191 e portati a termine dopo la sua elezione al soglio pontificio. L'intento di Cencio fu quello di fare di S. Lorenzo un complesso martiriale e cultuale di primissimo piano ed i lavori si protrassero per almeno tre decenni, con cambiamenti progettuali strettamente legati all'ascesa del suo patrocinatore fino alla massima dignità ecclesiastica. Il rifacimento del corpo longitudinale della chiesa (a tre navate divise da colonne di spoglio architravate, sul modello delle basiliche paleocristiane) doveva essere giunto a termine nel settembre 1217, quando in S. Lorenzo fu svolta la cerimonia dell'incoronazione di Pierre de Courtenay a re di Costantinopoli. Più incerta, invece, la collocazione cronologica dello splendido portico antistante la chiesa, opera dei Vassalletto; in tutti i casi, comunque, si può affermare che la bottega dei Vassalletto ebbe in Cencio, tanto prima quanto dopo la sua elezione pontificia, un patrono dimostratosi decisivo per la sua affermazione e, di conseguenza, per un cambiamento dell'orizzonte artistico di Roma. Proprio i Vassalletto durante il pontificato di O., ed oltre, attesero alla costruzione del chiostro di S. Giovanni in Laterano, adottando, tra l'altro, soluzioni architettoniche innovative. Contemporaneamente operavano per portare a termine il portico della stessa basilica.

Negli anni di regno di O. furono attivi i cantieri di S. Sisto Vecchio all'imbocco della via Appia e di S. Sabina sull'Aventino. Tra il 1220 ed il 1222 avvenne una prima risistemazione di quest'ultimo complesso monastico e la sua donazione da parte di O. al nuovo maestro dei Domenicani, Giordano di Sassonia (5 giugno 1222). Per quanto già Innocenzo III avesse progettato e finanziato l'impresa, spetta poi sempre ad O. il rifacimento della monumentale decorazione dell'abside della basilica di S. Paolo fuori le Mura. L'opera è caratterizzata dall'impiego di maestranze veneziane, che il pontefice richiese espressamente al doge Pietro Ziani "pro mosaico opere in beati Pauli ecclesie faciendo" (23 gennaio 1218). Nel ciclo musivo è compresa l'immagine di O., il quale, genuflesso ed in scala ridottissima, offre l'opera al Cristo giudice, assiso in trono.

Quanto al governo dello Stato della Chiesa, è stato notato come, nonostante l'azione del suo predecessore e le circostanze abbastanza favorevoli, nel complesso O. non riuscisse a raggiungere risultati consistenti. "C'era qualcosa di retorico e di pessimistico nel suo modo di affrontare il problema del governo territoriale" (D. Waley, Lo Stato papale, p. 253) che di fatto gli impedì di riscuotere un deciso successo nell'allargamento del controllo papale.

Durante tutto il suo pontificato, O. sembra innanzitutto preoccupato della reale rinuncia imperiale alla perdita delle regioni acquistate da Innocenzo III. Per fugare i timori di O., Federico non soltanto confermò le donazioni anteriori, ma anche si rivolse ai cittadini della Marca Anconetana per ribadire la loro soggezione al papa. Le preoccupazioni di O. erano, a ragione, particolarmente forti nei riguardi del Ducato di Spoleto per il quale temeva le possibili rivendicazioni del figlio di Corrado di Urslingen, Bertoldo, molto vicino all'imperatore, che continuava a fregiarsi del titolo di duca di Spoleto e non aveva rinunciato ai suoi diritti. Federico II rassicurò il pontefice che tale titolo era di fatto solo onorifico ed ormai svuotato di qualunque significato territoriale, ma quando O. e Federico si incontrarono a Veroli nella primavera del 1222, l'imperatore avanzò alcune richieste proprio in relazione al Ducato (forse per la sua concessione in feudo a favore di Bertoldo di Urslingen), che il pontefice rifiutò decisamente. Nel contempo il successo delle truppe imperiali intervenute a favore dei Viterbesi (di cui si è detto) fece sì che alcune città della Marca e del Ducato, tra le quali Foligno, Gubbio ed Osimo, cacciassero i rappresentanti pontifici accogliendo al loro posto quelli nominati dal rappresentante imperiale, Gunzelin di Wolfenbüttel, e dal suo protettore Bertoldo di Urslingen. Le proteste del cardinale Raniero Capocci, rettore del Ducato, e le scomuniche da lui comminate non sortirono alcun effetto; piuttosto fu lo stesso Federico II, alla fine dell'anno, a sconfessare l'operato di Bertoldo, imponendogli di richiedere il perdono del pontefice. I successi degli Imperiali nel Ducato e nella Marca non facevano altro che incrementare le ansie di O. circa l'integrità dello Stato e le vere intenzioni di Federico II al riguardo, nonostante le dichiarazioni e l'atteggiamento apertamente (ma forse solo in apparenza) favorevole di quest'ultimo nei confronti del papa. Durante i restanti anni del pontificato di O. non si verificarono altre incursioni di rilievo degli Imperiali nello Stato, ma era comunque chiaro che Federico II non considerava definitivamente perduta la supremazia imperiale sui territori dell'Italia centrale allora sotto il dominio papale, tant'è che come s'è detto esercitò nel 1226 anche lì il diritto sovrano di reclutare truppe.

Per quanto riguarda il controllo politico-territoriale della Marca Anconetana, O. adottò, come il suo predecessore, la "soluzione feudale". Nel 1217 la concesse in feudo al marchese Azzo VII d'Este, distinguendo le rendite di natura spirituale, che sarebbero andate alla Chiesa, da quelle temporali, assegnate, invece, ad Azzo (ancora minorenne) e a sua madre. Tuttavia questa forma di governo non diede i frutti sperati: le città della provincia spesso si sollevarono contro il marchese, creandogli non poche difficoltà; inoltre, l'ingerenza diretta del papa e l'intervento, per quanto occasionale, di legati pontifici resero più difficile la posizione del giovane vassallo. In definitiva, la "soluzione feudale" non si dimostrò un valido strumento per contenere lo stato di endemica belligeranza dei Comuni della Marca e nello stesso tempo dimostrò la ancora sostanziale debolezza del potere centrale.

Per il governo del Ducato di Spoleto, delle province di Campagna e Marittima e della Massa Trabaria, anche O. si avvalse alternativamente ed a seconda delle situazioni di legati e di rettori. Fu anzi proprio durante il suo pontificato, a partire dal 1220, che divenne regolare la nomina di rettori (in prevalenza cardinali) per molte province. In quella del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia il controllo del papa fu invece più diretto ed immediato, tramite legati ed emissari che vi venivano inviati di volta in volta con incarichi precisi; si giunse alla nomina di un rettore soltanto pochi mesi prima della morte del papa, nella persona di Giovanni di Brienne (gennaio 1227). O., di fatto, non riuscì a condurre all'obbedienza la nobiltà locale ed i Comuni delle province settentrionali, limitandosi il più delle volte a cercare in essi degli alleati e non mancando, per questo, di concedere esenzioni e privilegi. Seppure occasionalmente, si sforzò di ribadire i diritti giurisdizionali del papato ed in particolare quello di approvare la nomina dei podestà nei Comuni. Nel complesso, per il controllo politico delle maggiori città cercò soprattutto di utilizzare l'alleanza con i Comuni più piccoli, i quali erano naturalmente avversi alle grandi città egemoni, nella cui sfera di influenza rischiavano continuamente di cadere. Nel governo della provincia di Campagna e Marittima, la cui realtà gli era meglio nota, O. ottenne migliori risultati, agendo in modo equilibrato all'interno dei numerosi conflitti locali ed in funzione di mediatore tra i potenti lignaggi signorili del Lazio meridionale. Tra il maggio e l'ottobre del 1217 raggiunse numerosi risultati positivi grazie anche alla nomina a rettore provinciale del cardinale Giovanni Colonna, alla quale seguì un lungo periodo di pace, interrotto solamente da una campagna punitiva organizzata dal rettore contro la città portuale di Terracina e dalle sue conseguenze e ripercussioni a livello degli equilibri territoriali.

Fra le altre attività di O., vanno ricordate le missioni nei paesi baltici, che proprio con il suo pontificato ebbero grande impulso, e la prosecuzione della crociata contro gli Albigesi. In Linguadoca, il giovane conte Raimondo VII di Tolosa aveva saputo ridare vigore alla resistenza dell'aristocrazia locale contro il dominio di Simone di Montfort, che cadde in combattimento nel 1218. Nonostante l'appoggio dei legati papali (prima Bertranno, cardinale dei SS. Giovanni e Paolo, sostituito nel dicembre 1219 dal cardinale Corrado di Urach), Amaury di Montfort, figlio di Simone, fu incapace di frenare la rivolta. Costretto a fuggire dalla regione nel 1224, cedette i suoi diritti al re di Francia Luigi VIII, al quale O., dopo alcune esitazioni, diede infine (novembre 1225-gennaio 1226) il suo più completo appoggio, assegnandogli la Contea di Tolosa e promettendogli per cinque anni un contributo finanziario di 100.000 libbre, prelevate sulla decima delle entrate del clero. La conquista del sovrano francese procedette allora senza molti ostacoli. Importanti furono gli interventi del pontefice sia verso i nascenti Ordini mendicanti, sia in materia di predicazione, insegnamento universitario e diritto canonico. Grazie anche alla mediazione del cardinale Ugolino (il futuro Gregorio IX), O. accolse con favore la richiesta di approvazione della Regola dei Domenicani, confermandola il 22 dicembre 1216. Inoltre, portando a termine un progetto già caldeggiato dal suo predecessore, affidò allo stesso Domenico la cura di una nuova comunità monastica femminile romana stabilita presso l'antica basilica di S. Sisto, che doveva riunire in un unico cenobio, secondo un modello di rigida clausura, le comunità femminili di alcuni monasteri romani in forte decadenza (1221). Ancor più determinante fu l'intervento di O. nella vicenda dei Francescani. Il papa, probabilmente su richiesta diretta di Francesco, che avrebbe incontrato nel 1220 a Viterbo, nominò Ugolino cardinale protettore dei Minori. Il 22 settembre 1220, con la lettera Cum secundum consilium, intervenne sulle strutture interne della "fraternitas" francescana, favorendone l'assimilazione agli Ordini religiosi già esistenti e sancendo, oltre al noviziato annuale, il potere coattivo dei superiori sui frati. La Regola del nuovo ordine, la cosiddetta Regula bullata, fu infine ufficialmente approvata da O. il 29 dicembre 1223. Tre anni dopo, il papa approvava pure la Regola dei Carmelitani.

Divenuto pontefice, O. inviò ai Domenicani, a Cîteaux e al Capitolo romano di cui aveva fatto parte, S. Maria Maggiore, la raccolta dei suoi sessantasette sermoni, che per la maggior parte sembrano risalire all'epoca del cardinalato. Pur se di impianto tradizionale, i sermoni e le lettere di accompagnamento attestano una viva preoccupazione per il miglioramento della qualità della predicazione. Nel campo del diritto canonico, O. è ricordato non per una particolare finezza d'analisi, ma per avere preso l'iniziativa, primo fra tutti i papi, di ordinare una collezione delle sue decretali. La Compilatio quinta fu affidata all'arcidiacono di Bologna Tancredi, che operò negli anni 1225-1226 utilizzando in grandissima prevalenza lettere tratte dai registri di Cancelleria. Fu inviata alle Università di Bologna e di Parigi, con l'invito a studiarla e ad adoperarla nei giudizi. Quanto agli interventi in materia universitaria, di rilievo risultano in particolare quelli sull'Università di Parigi. Ordinando che una commissione di teologi fosse abilitata ad accordare la licenza dopo l'esame dei candidati, O. indebolì la posizione del cancelliere del vescovo, favorendo il desiderio di autonomia di maestri e studenti, che ricevettero l'appoggio papale anche quando, in contrasto con il cancelliere, decisero di trasferirsi sulla riva sinistra della Senna. Il 22 novembre 1219 O. pubblicò una celebre costituzione (Super speculam) destinata a favorire lo studio della teologia. Non soltanto agli studenti era concesso di lucrare integralmente i loro benefici per cinque anni anche se assenti per motivi di studio, ma all'Università di Parigi era vietato l'insegnamento del diritto romano: il fine era quello di indirizzare tutte le forze verso la teologia. La costituzione, elaborata a Viterbo, sede temporanea della Curia, da una commissione che comprendeva il cancelliere di Parigi, il cardinale Pietro di Capua e forse lo stesso s. Domenico, favoriva anche gli interessi universitari dei Predicatori, mentre non sembra collegata, come si è talora ritenuto, al desiderio del sovrano francese, Filippo Augusto, di scoraggiare la diffusione del diritto romano, considerato come espressione dell'Impero e dunque nocivo alla dignità monarchica.

Riprendendo un progetto del suo predecessore, O., per far fronte alle ingenti necessità economiche dei membri della Curia romana (cardinali, cappellani, funzionari della Cancelleria, "hostiarii" e tutti gli altri ufficiali della Sede apostolica), tentò di imporre ad ogni chiesa cattedrale del Regno di Francia l'obbligo di riservare un beneficio a favore degli ufficiali di Curia e alle chiese inglesi due benefici; allo stesso modo i monasteri, le collegiate e le mense vescovili avrebbero dovuto contribuire con prestazioni in denaro del valore di una prebenda. In cambio il papa si impegnava ad eliminare ogni forma di tassazione dovuta alla Cancelleria pontificia per la produzione dei documenti che da tali enti ecclesiastici venivano richiesti. A causa delle opposizioni mosse dalle Chiese locali, il progetto fu tuttavia realizzato solo in piccola parte. Il cronista inglese Matteo Paris narra come, dieci giorni prima della sua morte, il pontefice, "exhaustus et semivivus", fu fatto affacciare ad una finestra del suo Palazzo del Laterano per dimostrare come egli fosse ancora in vita al popolo romano, convinto, invece, della sua morte e pronto al tradizionale saccheggio dei beni papali. Morì il 18 marzo 1227, e le esequie si tennero, come era allora consueto, il giorno successivo. Fu sepolto nella basilica di S. Maria Maggiore in una "concha porfyretica" (secondo una tradizione dell'arte imperiale bizantina radicatasi dalla seconda metà del XII secolo e che continua anche nel Duecento) e la sua tomba divenne oggetto di devozione pubblica.

Nel complesso, sia sul piano della politica verso l'Impero e le altre formazioni politico-territoriali, sia su quello del governo dello Stato della Chiesa e della cristianità, il giudizio su O. deve muovere dalla volontà, proclamata fin dai giorni successivi alla sua elezione, di continuare l'azione del suo predecessore, Innocenzo III. Ma se la continuità appare innegabile, il carattere del nuovo pontefice, la mitezza dovuta all'età avanzata, il suo atteggiamento "pacifico" tante volte rimarcato dai cronisti del pieno e tardo XIII secolo, influirono profondamente sul modo in cui vennero affrontate le principali questioni, soprattutto di natura politica. Nel suo epistolario e nelle sue azioni affiora spesso un atteggiamento pessimistico, un'incapacità di proiettarsi in avanti imponendo, se necessario, un nuovo corso alle vicende. La stessa rapida elezione, ad un giorno solo dalla sua morte, di un pontefice di ben diverso temperamento come Gregorio IX, lascia intuire che nel Collegio cardinalizio fossero andati maturando malcontenti per l'eccessiva arrendevolezza di Onorio III. E tuttavia appare nel contempo evidente come la lunga tradizione storiografica che presentava il pontefice come un pio vecchio, ingannato dal giovane e astuto imperatore, sia stata ormai sorpassata da valutazioni più favorevoli. Si tende a sottolineare piuttosto come, grazie alle grandi conoscenze amministrative e - soprattutto - in virtù del suo carattere decisamente conciliatore, O. riuscisse a realizzare numerosi obiettivi, conservando Federico II nel desiderio di assecondare quanto possibile le direttive papali. Tutto sommato equilibrati appaiono allora i giudizi degli Annales Stadenses, che rivelano come l'assenza di eccezionali doti intellettuali non avesse impedito al pontefice di assicurare il buono stato della Chiesa ("non erat multum perspicacis ingenii, nec eminentis litterature, sed ecclesia Dei sub ipso in competenter bono statu stetit": p. 299), e quello, solo in apparenza svalutativo, di E. Kantorowicz: "chiunque fosse succeduto al grande Innocenzo III, non poteva che apparire insignificante dopo quel gigante" (pp. 88-9).

fonti e bibliografia

Ptolomei Lucensis Historia ecclesiastica a nativitate Christi usque ad annum circiter MCCCXII, in R.I.S., XI, 1727, col. 1128.

Annales Stadenses, a cura di I.M. Lappenberg, in M.G.H., Scriptores, XVI, a cura di G.H. Pertz, 1859, pp. 275-302.

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