In una recente sentenza (1496/2022) la Corte di Cassazione si pronuncia sulle Mansioni Superiori nel Pubblico Impiego.
Come molti sanno le categorie nel settore del pubblico impiego sono le seguenti: dirigenti, quadri, impiegati e operai.
L’insieme dei compiti che il dipendente pubblico è tenuto ad adempiere in esecuzione del contratto di categoria rappresenta le mansioni, vale a dire l’oggetto della prestazione di lavoro.
Sino alle modifiche introdotte all’art. 56 del d.lgs.29/93 dal d.lgs 80/98, costituiva principio consolidato in materia di pubblico impiego l’irrilevanza, per il pubblico dipendente, dello svolgimento di mansioni superiori.
Questa irrilevanza valeva sia sotto il profilo economico, sia al fine dell’inquadramento nella superiore qualifica rivestita.
Con l’introduzione del Testo Unico sul Pubblico Impiego (Decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165) il lavoratore invece deve essere adibito:
Tuttavia, “per obiettive esigenze di servizio, il prestatore di lavoro può essere adibito a mansioni proprie della qualifica immediatamente superiore:
Nel Pubblico Impiego, tuttavia le mansioni superiori non fanno acquisire al dipendente il diritto alla definitiva acquisizione della diversa qualifica.
Ciò vuol dire che l’esercizio di mansioni superiore del pubblico impiegato non ha come naturale conseguenza il diritto alla promozione automatica.
Tuttavia la Cassazione ha di recente emanato un’interessante Sentenza per quanto riguarda la retribuzione del dipendente in questi casi.
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 1496/2022, ha affermato che, in materia di pubblico impiego contrattualizzato, lo svolgimento di fatto di mansioni proprie di una qualifica anche non immediatamente superiore a quella di inquadramento formale comporta in ogni caso il diritto alla retribuzione propria di detta qualifica superiore.
Questo diritto non è condizionato alla legittimità dell’assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei contratti collettivi, né all’operativa del nuovo sistema di classificazione del personale introdotto dalla contrattazione collettiva.
Infatti, secondo i giudici, una diversa interpretazione sarebbe contraria all’intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all’art. 36 della Costituzione.
A questo link potete consultare il testo completo della Sentenza.
Fonte: articolo di Giuseppe Orefice