Riconnettere percezione e conoscenza, pensiero critico e opera trasformatrice - segnonline

Riconnettere percezione e conoscenza, pensiero critico e opera trasformatrice

Recensione del volume di Gabriele Perretta “Il sensore che non vede. Sulla perdita dell’immediatezza percettiva” pubblicato da Paginauno Milano, 2023

Gabriele Perretta, noto ideatore della corrente artistica, critica ed est-etica, del Medialismo, allievo di Roland Barthes, docente all’Università di Parigi IV e all’Accademia di Brera, redattore di riviste d’arte come “Juliet” e “Segno”, appartiene a un’etnia intellettuale ormai rara e in via d’estinzione, perciò ancor più preziosa: il critico militante (oggi invece sono più in voga le figure del critico-escort, del critico-rampante e del critico-manager). Ovviamente non quello ancorato a un ideologismo cristallizzato, ma al contrario quello fedele a un pensiero critico, capace di misurarsi con le costanti trasformazioni sociali, culturali e tecnologiche che interagiscono con la produzione artistica, senza perdere la propria identità originaria. Nel suo caso la neo-semiotica barthesiana, le teorie critiche francofortesi, la formazione estetica, epistemologica e mediologica. A queste matrici culturali si aggiunge una ricerca personalizzata del linguaggio, una scelta mirata dello stile di scrittura, che unisce ricercate visioni e metafore, neologismi, calembours e paradossi a un uso particolare della sintassi. La sua lettura della fenomenologia contemporanea delle arti è di conseguenza radicale, si potrebbe dire che si contrappone al sistema dell’arte contemporanea, sempre più viziato da manipolazioni mercantili e mediatiche, da infiltrazioni politiche (politica mal-intesa come propaganda e amministrazione di interessi piuttosto che come servizio al bene comune) e mode tecnologiche, elaborando un complesso sistema critico, dove la riflessione teorica d’ordine estetico s’intreccia con quella socio-economica e con una pratica curatoriale divergente. Nel suo ultimo libro, Il sensore che non vede, riprende e aggiorna un lungo, ormai trentennale, percorso analitico, affrontando tematiche diverse come il sincretismo mediale, l’accelerazione tecnologica e il dominio tecnocratico, la fotografia e post-fotografia artistiche, la menzogna creatrice e le fake news, il rapporto tra storia e memoria, la crisi della critica e l’affermazione della “società artistica dello spettacolo”, l’estetica relazionale e il sistema espositivo, l’ecologismo conteso tra reazione (Surton) e rivoluzione (Guattari), cinema e teatro d’autore come chiavi interpretative della tensione fra realtà e rappresentazione, la relazione tra i nuovi modelli curatoriali e il neoliberalismo, l’emersione di un nuovo fascismo, con la vocazione fanatica del controllo assoluto e della strumentalizzazione delle paure collettive, con i suoi tentativi di auto-legittimazione culturale e storica. Non è qui possibile entrare nel dettaglio di questa complessa pluralità, ma si possono identificare nei brevi saggi che compongono il corposo volume di 400 pagine alcuni motivi conduttori e ricorrenti su cui vale la pena di soffermare l’attenzione. Partendo dall’assunto pasoliniano che il nuovo fascismo sia generato dalla società dei consumi, condotta agli esiti estremi di una spettacolarizzazione della merce e di una mercificazione dei soggetti, dei loro comportamenti ed emozioni, come ha puntualmente e profeticamente descritto Debord, Perretta si domanda come il sistema dell’arte, con le sue dinamiche e professioni, si inserisca in questo processo, all’apparenza inesorabile.

Il punto di partenza della complessa e articolata analisi di Perretta è quella che lui chiama “erosione progressiva della critica”, a tutti i livelli, artistici, culturali e politici, che si inserisce in un contesto di “progressiva erosione del muro tra realtà e finzione”.  L’ enfatizzazione della tecnologia fine a sé stessa, sempre più autoreferenziale, pilotata dal profitto economico e dalla crescente volontà di controllo sociale (che ha utilizzato anche la pandemia come un laboratorio di sperimentazione di massa), riduce le relazioni reali alle connessioni virtuali, promuove un narcisismo di massa, con un’estetizzazione conforme ai modelli mediatici dominanti. L’ambito artistico, anziché contrastare questo modello conformista e consumista, come hanno sempre fatto le avanguardie, ha invece assorbito logiche di strategia comunicativa, d’impronta propagandistica e pubblicitaria: l’epoca o la tendenza artistica si definisce in base all’artistar del momento, con un’incessante e imponente gara di popolarità, che non si discosta – se non per un maggiore elitarismo – dai grand show nazional-popolari. Il concetto stesso di avanguardia non è più attuale, e gli epigoni dell’arte concettuale degenerano nella direzione del fake, del simulacro, dell’originalità tanto ostentata quanto simulata e vuota (la trovata prevale sull’idea). Siamo lontani, ricorda l’autore, dal fake trasgressivo e ironico di un Orson Welles, il fake mediatico ora è quello ritratto dallo spietato e illuminante film The Square di Ostlund, molto più drammatico e caustico della parodistica visita alla Biennale di Venezia nella commedia all’italiana Vacanze intelligenti (episodio di Dove vai in vacanza?),diretta e interpretata da Alberto Sordi nel 1978. In quella esilarante visione satirica si metteva in evidenza la separazione elitaria tra il mondo dell’arte (già egemonizzato da un concettualismo post-duchampiano) e la fruzione di massa,  da allora la perdita di un valore simbolico dell’opera in un immaginario collettivo sempre più colonizzato dai media, si è saldata con una perdita di energia vitale e di motivazione etico-estetica della ricerca artistica; si assiste quindi a una necrotizzazione della ricerca in funzione delle logiche del mercato e della comunicazione di massa. Perretta definisce questa desensibilizzazione, o anestesia, dello sguardo, favorita da un uso acritico della tecnologica e da un’impoverimento omologante dei linguaggi espressivi: Divisione Dispositivi Narcotici dello Sguardo, ovvero uno “spietato meccanismo che predilige la qualità tecnica rispetto al valore umanistico del gesto comunicativo”, strategie pubblicitarie applicate alla politica e alla cultura. Trionfa la fuffologia (con la rivista www.resistenzemag.com abbiamo in proposito formulato un ironico e provocatorio Manifesto della Fuff-art), una transazione a doppio senso tra “populismo dell’elitismo” ed “elitismo del populismo”, dove le gerarchie dominanti dei curatori mediali sembrano più interessate alla visibilità e al potere che all’arte, mentre in basso i mercanti d’arte (che tendono a soppiantare le figure classiche dei galleristi, il cui ruolo originario era quello di scopritori e promotori degli artisti), spacciano opere prodotte e commissionate a tavolino secondo i trend curatoriali. In questo scenario purtroppo la politica culturale dell’ultimo ventennio  ha visto anche la sinistra aderire acriticamente al modello liberista e alla dittatura del mercato, snaturando le proprie matrici gramsciane e francofortesi per allinearsi a un conformismo espositivo dilagante, che Perretta chiama “esposizionismo”. Un sistema espositivo che aspira al governo dell’arte più che alla sua valorizzazione, un sistema che ha introiettato il modello comunicativo consumistico, dove le schiere dei cosiddetti curatori si moltiplicano a dismisura, marcando nette differenze di status tra il “curatore dallo star system e il morto di fame”, entrambi però proiettati nello stesso tunnel autopromozionale, e le schiere degli artisti, o presunti tali, in una perenne ansia di prestazione che sviluppa un’attitudine non alla sperimentazione e alla ricerca di nuove forme e modalità di espressione, ma a un “organica ricerca del consenso”. La priorità educativa rispetto al fruire e al produrre arte, sostiene Perretta,  dovrebbe essere quella di “imparare a leggere le immagini”, estrarre e riconoscere la loro veridicità sensibile e loro costruzione emozionale, orientando il linguaggio verso “l’interrogazione continua della menzogna”, un’opera costante di disvelamento (per i greci la verità, aletheia, era appunto ciò che toglie il velo dell’ignoranza e dell’oblio) che non offre soluzioni o risposte definitive, ma che mantiene in scacco la realtà, le sue illusioni e mistificazioni. In opposizione alla doppia tendenza prevalente nell’arte contemporanea: da una parte, “l’arte della menzogna”, il fake, che si presenta come “un significato senza realtà”, e dall’altra “l’economia del supercodice”, che propone “una realtà senza significato”. Questa dimensione, che tende a non separare più virtuale e concreto, realtà e simulacro, perde la memoria del dibattito sulla storia della fotografia – tema a cui Perretta è stato sempre molto attento e ha dedicato significativi saggi – che aveva preceduto e accompagnato la nascita e gli sviluppi dei media successivi, e che ne aveva individuato precocemente le radici problematiche: “la fotografia è all’incirca realtà”, e questa sfasatura agisce nello stesso tempo come apertura e indizio del mistero della realtà, che resiste nonostante l’attuale scannerizzazione tecnologica globale del mondo e persino del cosmo,  di questa resistenza l’autore cita come esempio emblematico la prima, recente, fotografia di un buco nero. Un’attitudine autentica alla conoscenza, libera tanto dai dogmatismi ideologici e religiosi, quanto dai modelli liberisti ed economicisti, dovrebbe recuperare l’interconnessione tra natura e pensiero, mediante l’intreccio tra intuizione e razionalità, in una ricerca che veda convergere le ultime ricerche delle neuroscienze e della psicologia cognitivista con l’approfondimento meditativo sperimentato dal pensiero orientale, che propone la conoscenza come trasformazione, di sé e del mondo. Nella visione di Perretta, fondamento di quest’attitudine non può non essere la ri-affermazione di un’etica della responsabilità, sulla scia tracciata da Hans Jonas, per giungere a una radicale riconfigurazione “ecosofica“, elaborata da Ramon Panikkar (Ecosofia. La saggezza della terra, Jaca Book, 2015) e dall’ultimo Felix Guattari (Le tre ecologie, Sonda, 1991), dove il superamento della logica antropocentrista e specista coniuga le tre dimensioni: ambientale, sociale e soggettiva. Per Guattari  elaborare e praticare un’ecosofia significa promuovere la consapevolezza della necessità di una continua sperimentazione politica, culturale, artistica, soprattutto semiotica:”la realtà dell’eventuale ha la precedenza sull’opportunità del reale”. Si tratta di una “direzione ostinata e contraria”, per dirla con De Andrè, al rigurgito di un ecologismo di estrema destra, che da De Maistre a Scruton pretende di cristallizzare un ordine immutabile, magari di origine divina, e nutre un’ideologia stantia e soffocante di omologazione della Storia al pensiero unico. Purtroppo nell’epoca attuale, sempre più lacerata da pericolosi e diffusi conflitti, invasa da ondate negazioniste e da esaltazioni sovraniste, minacciata da un progressivo e per ora inarrestabile degrado ambientale, il Fascismo riemerge come soluzione politica, con una nuova identità o maschera, ma non meno inquietante. Tra le varie tipologie storiche di fascismo quello moderno e attuale si distingue come deriva autoritaria del modello capitalista liberista per la sua ossessione del controllo sociale attraverso il monopolio dei media e la tradizionale intimidazione legale-poliziesca (rilanciata in Italia in grande stile con la feroce repressione delle manifestazioni per il G8 di Genova del 2001 e ribadita dalle recenti leggi liberticide come il divieto di raduno collettivo o l’inasprimento delle pene per gli atti di contestazione politica). Un uso politico della paura mediante la manipolazione mediatica, che trova poca resistenza a causa di un ripiegamento individualistico e soprattutto di un’inerzia rassegnata, di una mancanza di pensiero critico, di una sfiducia nelle possibilità di cambiamento. Ciò che più ci deve spaventare, avverte Perretta, è questo vuoto di immaginazione, la perdita, soprattutto tra le giovani generazioni, di un’immaginazione del futuro. Ed è qui che l’arte, le arti nei loro molteplici linguaggi, riconfigurati dal vastissimo campo dell’innovazione tecnologica, dovrebbe fare la sua parte attiva, rigenerando il suo dna di “visione trasformatrice”, di apertura del reale al possibile, di vocazione libera e indipendente alla ricerca e alle sperimentazione di nuove forme, nuove tecniche, nuove modalità e materiali.