Nelle sale italiane è appena sbarcato Indiana Jones e il Quadrante del Destino, quinto (ed ultimo?) capitolo della saga avventurosa dell’archeologo più celebre del grande schermo; nonostante nella nostra recensione direttamente da Cannes avevamo sollevato alcune perplessità sul tassello narrativo diretto da James Mangold, l’uscita nei cinema nostrani del quinto appuntamento dell’eroe creato da George Lucas e Steven Spielberg nel lontano 1981 ci ha fatto analizzare i capitoli precedenti con occhiali differenti rispetto a prima.
Se è pur vero che il quarto capitolo diretto dallo stesso Spielberg nel 2008 (Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo) non aveva incontrato il favore del pubblico e di buona parte della critica di settore, stessa cosa non si può dire della trilogia originaria, quella che ha cavalcato i ruggenti anni ’80 grazie alla sua dinamicità, alle spettacolari sequenze d’azione, ai rimandi e agli omaggi ai grandi racconti d’avventura degli anni ’30 e ’40, al motivetto musicale di John Williams. Dei tre capitoli originali, senza voler togliere nulla a I Predatori dell’Arca Perduta e Il Tempio Maledetto, quello che forse porta con sé la carica emotiva e più significativa per il personaggio con fedora e giacca di pelle è Indiana Jones e l’Ultima Crociata, tassello che nel 1989, anno in cui debuttò nelle sale di tutto il mondo, era stato programmato da Steven Spielberg come quello finale. E forse, quello più importante dell’intera saga.
La prima avventura di Indiana Jones
Indiana Jones e l’Ultima Crociata è un tassello narrativo esattamente speculare a I Predatori dell’Arca Perduta, nella forma e nelle ambizioni contenutistiche. Dopo la folle ed anarchica avventura in India de Il Tempio Maledetto, Steven Spielberg torna alle origini del personaggio interpretato da Harrison Ford, dando vita ad un lungometraggio che chiude l’ex-trilogia affondando le radici nell’immaginario che aveva reso popolarissimo l’archeologo e nel suo passato famigliare.
E quindi, come era accaduto nel primo appuntamento con Indiana Jones nel 1981, ritornano i perfidi nazisti, il nostro protagonista va alla ricerca di un antichissimo manufatto religioso (il leggendario Santo Graal) prima che cada nelle mani di Adolf Hitler e si scontra con i cattivoni tedeschi in una rocambolesca resa dei conti tra i deserti senza tempo del Medio Oriente. Proprio come accadeva ne I Predatori dell’Arca Perduta, a segnalare che l’Ultima Crociata non è solo endgame per il destino del Dottor Jones, ma anche parentetico ritorno alle origini. Stavolta, le sue.
Qual è il vero nome dell’archeologo più famoso del cinema?
Sì perché nel terzo appuntamento firmato Steven Spielberg a fare la parte del leone è, ancora una volta se non di più, lo splendido prologo. Ambientato come da tradizione nel passato rispetto agli eventi principali della pellicola, l’incipit è qui anche l’occasione per scandagliare l’adolescenza di Henry Jones Jr.; a vestire i panni del giovane Indy è stato il bravissimo River Phoenix, che qui si cimenta in una performance fisica e giocosa che racconta non solo la primissima avventura del futuro archeologo-eroe, ma ne introduce anche il milieu prettamente famigliare: una casetta di provincia nell’Idaho, un cane di nome Indiana (ecco da dove prenderà l’accattivante nomignolo il nostro simpatico protagonista!), una madre venuta a mancare per un male ignoto ed un padre semi-assente, ossessionato dalla cerca del Graal.
Ecco quindi il cuore pulsante di tutto Indiana Jones e l’Ultima Crociata, spiattellato già nei soli primi dieci minuti: un racconto conciliante di famiglia perduta e poi ritrovata, di legami di sangue fino al capitolo cinematografico precedente sconosciuti al pubblico di appassionati, costruzione epica e narratologica di una mitologia parentale, quella tutta attorno allo stesso Indiana Jones, che serve da mezzo pontificale per creare un dialogo tra inizio e fine, e viceversa. In Indiana Jones e l’Ultima Crociata, a tutti gli effetti, si vuole chiudere definitivamente un cerchio con il significato ed il significante dell’archeologo di Lucas e Spielberg.
Si chiude un cerchio
Terzo ed ultimo tassello (ma oggi sappiamo che non è affatto così) di un’opera d’avventura in tre atti che cerca di fare i conti con le ossessioni dei suoi protagonisti e delle arci-nemesi che vi si oppongono sin dalle origini. E così, per l’ennesima volta, Indy se la dovrà vedere con i folli nazisti che otto anni prima si volevano impossessare dell’Arca dell’Alleanza di Mosé per camminare sulla Terra con un esercito praticamente invincibile; stavolta però, l’oggetto esoterico da salvaguardare dalle grinfie del Male assoluto del Novecento è il Sacro Graal, la coppa leggendaria nella quale bevve Gesù Cristo durante l’Ultima Cena e in cui venne poi raccolto il suo sangue in seguito alla crocifissione.
E quindi, di nuovo, viaggio intercontinentale tra Italia, Austria, Germania e Turchia per fermare le fila di Hitler dall’impossessarsi del calice che regala l’eterna giovinezza, una corsa a perdifiato per salvare il futuro della civiltà mondiale e il suo passato famigliare. Perché stavolta per il nostro archeologo del cuore, la crociata più grande non sarà quella di ritrovare il mitico calice di Cristo, bensì di riappacificarsi con suo padre, il vulcanico ed attempato professore di letteratura medievale Henry Jones Sr. (uno strabordante ed indimenticabile Sean Connery).
Un’ultima crociata per salvare papà
Dicevamo nelle primissime battute di questo articolo che Indiana Jones e l’Ultima Crociata è probabilmente il tassello più importante dell’intera saga dedicata al personaggio di Harrison Ford; un cerchio narrativo speculare a I Predatori dell’Arca Perduta che ha l’ambizione di chiudere una parentesi cinematografica entusiasmante con un duello attoriale padre-figlio che restituisce tutto il senso dell’operazione dietro la macchina da presa di Steven Spielberg. Nella corsa contro il tempo per accaparrarsi i poteri miracolosi del Santo Graal, il potere più grande è quello della riconciliazione tra un padre assente in gioventù ed un figlio avventuroso e scapestrato in cerca disperata di approvazione da parte del genitore anziano.
Uno scontro generazionale che Harrison Ford e Sean Connery trasformano in un acting showcase da antologia che nella sequenza finale regala un senso del tutto nuovo alla trilogia originale di Indiana Jones: un padre ed un figlio che infine si ritrovano e che come nuovo nucleo famigliare riunitosi in un insperato lieto fine, mano nella mano cavalcano verso il rossore abbacinante del tramonto desertico come novelli cavalieri di un’ultima crociata per salvare il tesoro più prezioso di tutti: la propria eredità, il proprio sangue, il proprio passato, presente e futuro. Al galoppo assieme, verso una nuova avventura.