Il suo nome, presto, campeggerà tra quelli prestigiosi di Sciascia, Pirandello o Tomasi di Lampedusa. E con esso, anche quello del borgo che gli ha dato i natali, vale a dire Sambuca di Sicilia, nell’agrigentino. Chissà che non sia la volta buona per essere finalmente iscritto anche nella memoria collettiva, oltre che su un cartellone. Emanuele Navarro della Miraglia si è infatti da poco aggiunto allo stuolo di grandi intellettuali connessi dalla celebre Strada degli Scrittori. Lo scorso 9 marzo l’autore è stato omaggiato con la posa di una lapide nella sua casa e con l’inaugurazione di una statua bronzea a lui dedicata. Un riconoscimento significativo, giunto per di più in concomitanza con le celebrazioni dei 138 anni dalla nascita, che ha avuto il pregio di rimettere al centro del dibattito una figura assolutamente peculiare, capace al tempo stesso di distinguersi nei raffinati salotti dell’intellighenzia europea e di rappresentare una stella polare per tanti colleghi isolani, con cui intrattenne amichevoli rapporti, a partire da Luigi Capuana. Ed è proprio nella vastità dei suoi interessi che risiede, forse, parte della sua fama negata. Qualcuno lo ha definito un pre-verista, qualcun altro come un flâneur che amava tratteggiare in bozzetti, con brillante ironia, la società del suo tempo. Si occupò di musica, di giornalismo, di poesia, di teatro. Un uomo dai mille volti, insomma: difficile da inquadrare o da etichettare. Protagonista di una stagione letteraria – quella di metà ‘800 – floridissima, ma anche di alcuni passaggi cruciali della nostra storia.

Fu lui, infatti – sull’onda di un entusiasmo ancora ignaro dei risvolti che il Risorgimento avrebbe preso – insieme al padre e ad alcuni liberali sambucesi a favorire nel 1860 l’ingresso in città di un contingente garibaldino che ne prese il controllo. La sua intesa con Francesco Crispi gli valse anche degli incarichi di spicco, tra cui quello di segretario di prima classe della segreteria di Stato della Sicurezza pubblica. Ma gli bastò appena un anno per non riconoscersi più in quella causa che aveva sostenuto. Riparò così in Francia, almeno fino al 1872, prima di tornare in Italia. Carico di uno sguardo rinnovato, che aveva allenato Oltralpe, pungolato dalle riflessioni di Zola e degli altri naturalisti francesi. Tanto nella sua attività da cronista, tanto in quella da letterato, è la Sicilia degli ultimi a fare la sua comparsa. Quella del mondo contadino vessato dalla bestialità della fatica e da promesse trasformatesi in niente più che illusioni. Quella del brigantaggio e delle disuguaglianze sociali. Quella della politica improvvisata e della povertà diffusa (precedendo, tra le altre cose, il rapporto inchiesta di Franchetti e Sonnino del 1876). Quella di Nana, protagonista dell’omonimo e probabilmente più celebre romanzo, che nello stesso anno – 1879 – della Giacinta di Capuana e a pochi anni di distanza dalla Nedda di Verga si ritrova a dover lottare con le convenzioni sociali e con le ristrettezze della condizione femminile, sempre drammaticamente, inesorabilmente appesa alle bizze volubili degli uomini. Navarro della Miraglia, verrebbe da dire citando una sua stessa affermazione, fu dunque lo scrittore dei «documenti umani». Un fine indagatore della psiche umana e delle sue pieghe nascoste, in un linguaggio sempre altamente distintivo, lontano nelle sue inflessioni da quello propriamente verista. E poco importa che con buona probabilità i rimandi nobiliari del suo nome siano una semplice – una delle tante – invenzione letteraria: furono la sua vita e la sua opera a nobilitarlo realmente. A porlo tra quelle figure in cui oggi, anche materialmente, ha ritrovato il suo posto, a più di un secolo dalla sua scomparsa.

Perché quella strada, quei luoghi agresti e silenziosi, dai suoni d’antico e di moderno, è sempre stata, in fondo, un po’ sua e dei suoi personaggi. Protagonisti di un mondo che non corre più il rischio di scomparire o di essere ingiustamente ignorato. Di essere solo un relitto e non un ricordo.

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