LA RIVOLUZIONE DEL MILAN DI SACCHI: UN VISIONARIO CHE HA CAMBIATO IL CALCIO | SNAI Sportnews
LA RIVOLUZIONE DEL MILAN DI SACCHI: UN VISIONARIO CHE HA CAMBIATO IL CALCIO

LA RIVOLUZIONE DEL MILAN DI SACCHI: UN VISIONARIO CHE HA CAMBIATO IL CALCIO

LA RIVOLUZIONE DEL MILAN DI SACCHI: UN VISIONARIO CHE HA CAMBIATO IL CALCIO

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Essere visionari non è sempre una scelta vincente. Dipende dalla storia, dipende dalle circostanze, talvolta anche dalla fortuna. Che si diverte a mescolare e rimescolare le carte, senza sapere poi quale carta uscirà dal mazzo e in quale momento della partita Silvio Berlusconi di “visioni” nel corso della sua esistenza ne ha avute tante, e quasi tutte vincenti: l’idea di varare una nuova città (Milano 2) per far decollare la sua impresa immobiliare prima, l’intuizione di voler interrompere il monopolio della Rai in ambito televisivo poi, rappresentano due elementi caratteristici del suo modo di fare l’imprenditore, tale da aver rivoluzionato completamente l’assetto di una nazione.

Di quello che fece però a partire dal marzo del 1986, quando rilevò dalle mani di Giussy Farina il Milan quando era in odore di fallimento, a beneficiarne maggiormente è stata la prosopopea calcistica. Una ventata di novità, un uragano capace di abbattersi con una forza fuori dal comune. E lì davvero le “visioni” del Cavaliere presero forma dando vita a uno dei miracoli sportivi più celebrati di sempre.

Per farlo dovette però affidarsi a un tale più visionario di lui. Uno che arrivava dalla campagna romagnola, con un nomignolo che era tutto un programma: lo chiamavano “il Profeta di Fusignano”, perché vedeva cose che nessun altro poteva vedere. Aveva in mente un modo di fare calcio tutto suo, un modo rivoluzionario che mandava in soffitta le marcature a uomo prediligendo un pressing asfissiante, linee strette e compatte e come modulo di riferimento il 4-4-2. Col Parma, in B, fece strabuzzare gli occhi a più di un addetto ai lavori. Berlusconi intuì che potesse riproporre quell’alchimia al Milan, con giocatori di ben altro livello.

Se loro decideranno di seguirmi, allora si può fare.

Fu sufficiente per portarlo alla corte rossonera.

IL PARMA DI COPPA ITALIA, IL BIG BANG DELLA RIVOLUZIONE

Fino al febbraio del 1987, Arrigo Sacchi da Fusignano era un allenatore che si era fatto conoscere soprattutto in giro per i campi dell’Emilia-Romagna, passando da Alfonsine, Bellaria e Rimini e poi spostandosi a Parma. In mezzo un paio di esperienze nelle giovanili di Cesena e Fiorentina, tutte con un chiodo in testa: attingere dal calcio totale dell’Olanda degli anni ’70, riproponendo una zona aggiornata e in linea con i tempi.

A Rimini arrivò due volte quarto in Serie C1, in un’epoca priva dei play-off, a Parma fece subito centro, conquistando la promozione in B e poi ottenendo un settimo posto al debutto tra i cadetti. Ma quell’anno a fare notizia furono soprattutto due vittorie, entrambe ottenute in Coppa Italia, entrambe a San Siro contro il Milan: il 3 settembre 1986, nella gara del girone eliminatorio, a decidere il match dopo 9’ fu Davide Fontolan, mentre il 25 febbraio 1987, nella gara d’andata degli ottavi di finale, segnò a 8’ dalla fine Mario Bortolazzi, di proprietà del Milan, in prestito ai ducali in quella stagione.

Lo 0-0 del ritorno al “Tardini” certificò il passaggio ai quarti della formazione emiliana, a discapito dei rossoneri di Nils Liedholm. A Berlusconi bastò poco per capire in che direzione volesse andare: fece convocare Sacchi ad Arcore, gli spiegò il tipo di calcio che aveva in mente e poi lo fece parlare. La risposta del tecnico fu sorprendente:

Presidente, lei è un genio, o un pazzo

aggiungendo poi che tutto sarebbe dipeso dalla disponibilità dei calciatori.

Se Sacchi ha fatto quel che fatto con quei ragazzi del Parma, chissà cosa potrà fare con i giocatori che ho in mente per il mio Milan

disse alla stampa il Cavaliere.

I CINQUE MESI DI RODAGGIO PRIMA DELL’ESPLOSIONE

La stampa meneghina, piuttosto allineata, non riteneva possibile la buona riuscita del progetto.

Sacchi non mangerà il panettone

era il leit motiv della seconda parte del 1987, ancor più dopo l’eliminazione in Coppa Uefa per mano dell’Espanyol. Da Parma il tecnico si era portato dietro tre elementi: Bortolazzi rientrò alla base per fine prestito, Walter Bianchi e Roberto Mussi erano due fedeli scudieri del “Profeta”.

Dall’Udinese arrivò Angelo Colombo, centrocampista tuttofare di grande corsa, dalla Roma quel Carlo Ancelotti che avrebbe dovuto ricoprire il ruolo di regista arretrato nella mediana a 4 pensata da Sacchi.

Dal Monza rientrò alla base Alessandro Costacurta, così come dall’Ascoli Catello Cimmino, che pure sarà solo di passaggio perché verrà girato al Como assieme a Claudio Borghi, che era un argentino di cui Berlusconi s’innamorò perdutamente, ma che a Sacchi proprio non piaceva e per questo pretese di parcheggiarlo in riva al lago di Como, aspettando tempi migliori.

E poi chiaramente arrivarono gli olandesi: Ruud Gullit per primo, pagato 14 miliardi di lire, Marco van Basten a ruota, sottratto a meno di 2 miliardi all’Ajax. Trovati gli ingredienti, serviva tempo per amalgamarli bene: a conti fatti al “Profeta” servirono cinque mesi per far prendere forma al progetto più rivoluzionario che la storia del calcio avesse mai contemplato. Con una data ben precisa impressa nella storia: 3 gennaio 1988, Milan-Napoli 4-1. Da quel giorno, nulla fu più lo stesso.

UN CALCIO MAI VISTO PRIMA: PRESSING E PROFONDITÀ

Quando, dopo soli 10’, Careca portò in vantaggio il Napoli, molti in tribuna stampa cominciarono a pensare che Sacchi non avrebbe mangiato la calza della Befana, dopo averla scampata col panettone. Ma fu l’ultimo inciampo prima di una risalita debordante: Colombo e Virdis ribaltarono il risultato nell’arco di 5’, Gullit e Donadoni a metà ripresa, sempre in 5’, spedirono il Diavolo in orbita.

Quel giorno il Milan presentò Giovanni Galli tra i pali, Tassotti, Filippo Galli, Baresi e Maldini in difesa, Colombo, Ancelotti (vertice basso), Donadoni ed Evani a centrocampo e Virdis (van Basten era infortunato) e Gullit in avanti. Un 4-4-2 apparentemente semplice, ma dannatamente elaborato ed efficace: in fase di possesso i giocatori dovevano andare a creare spazi nella metà campo avversaria e occuparli in movimento, consentendo agli esterni di allargare il gioco e ai terzini di salire in fase di spinta, quasi fossero attaccanti aggiunti. Una sorta di 2-3-3-2 che consentiva ai rossoneri di occupare gli spazi e schiacciare l’avversario di turno negli ultimi 30 metri di campo.

E chiunque avesse palla poteva avere almeno tre o quattro soluzioni per scaricarla. In fase di non possesso, gli attaccanti dovevano andare a coprire sui portatori di palla avversari e le due linee di difesa e centrocampo salire immediatamente a riempire gli spazi, offrendo un gioco corale mai visto prima. E una volta recuperata palla, la priorità era andare a cercare sempre le punte, prediligendo l’immediata verticalizzazione e magari sfruttando gli spazi lasciati dagli avversari.

Per arrivare a questo, Sacchi fece un grande lavoro psicologico: convinse i giocatori a seguirlo, e tutti entrarono in piena simbiosi con il loro condottiero. Cosa che sarebbe successa anche negli anni successivi con l’arrivo di Rijkaard, schierato prima al centro della difesa, quindi come centrocampista centrale (con Ancelotti spostato sulla fascia). Pressing, compagno di squadra, ricerca della profondità: tre parole chiave nell’idea di “collettivo” di Sacchi, che quel Milan fece funzionare a meraviglia.

LE VITTORIE, CIÒ CHE RESE QUEL COLLETTIVO ICONICO

Quel trionfo sul Napoli segnò l’inizio dell’epopea milanista di Berlusconi. Nella gara di ritorno al San Paolo, vincendo 3-2, il Milan effettuò il sorpasso in vetta, andando a prendersi il primo scudetto. L’anno dopo sarebbe arrivata la prima Coppa dei Campioni con il memorabile 4-0 allo Steaua, anche se tutti ricordano il 5-0 rifilato al Real Madrid in semifinale.

Con van Basten a pieno regime e Rijkaard arrivato a rinfoltire la batteria degli olandesi, Sacchi cominciò a dominare in lungo e in largo in Europa e nel mondo, conquistando la prima Coppa Intercontinentale contro l’Atletico Medellin dell’altro “Profeta” Francisco Maturana (ma al termine di una gara noiosissima, perché esasperata tatticamente da ambo le parti) e poi concedendo il bis l’anno successivo, con la Coppa dei Campioni vinta a Vienna contro il Benfica e l’Intercontinentale contro l’Olimpia Asuncion.

La quarta annata di Sacchi sulla panchina rossonera fu anche quella della naturale conclusione del suo percorso: le scorie dello scudetto perso nel 1990 (la rivincita del Napoli di Maradona) e qualche dissapore con alcuni giocatori, su tutti van Basten, portarono al divorzio nel maggio del 1991, complice anche la deludente campagna di Coppa dei Campioni, con la notte di Marsiglia a rovinare l’immagine di una squadra vincente come nessun’altra lo era mai stata prima. Una squadra che pure avrebbe ricominciato a vincere con Fabio Capello, che mutuò le idee estreme del predecessore, ridando forza, slancio e vigore a una squadra evidentemente logora dopo un quadriennio di rivoluzione calcistica allo stato puro.

ANTESIGNANO DI UNA SVOLTA MAI PIÙ RINNEGATA

Quel calcio pensato nella testa di Sacchi, e fatto proprio da Berlusconi, ha avuto un impatto indelebile su tutto il calcio mondiale. La fortuna dell’allenatore fu di trovare giocatori disposti a sacrificarsi pur di seguirlo, in campo come nella vita (emblematica la richiesta fatta a un giovane Maldini di lasciare la fidanzata dell’epoca, evitando distrazioni e andando alla ricerca di una compagna meno festaiola).

E finché le forze fisiche e mentali ressero l’urto del “Profeta” di Fusignano, la formula funzionò a meraviglia. Col tempo poi le rivali cominciarono a studiare quel Milan, prendendogli le misure soprattutto in campo europeo. Ma se ancora oggi, a distanza di più di 30 anni, quella squadra viene annoverata tra le più grandi di sempre è perché seppe interpretare con anni d’anticipo una rivoluzione di cui il calcio aveva bisogno.

Sacchi fu un precursore del calcio moderno, l’antesignano di un modo di proporre gioco che nel tempo è divenuta la regola, abbandonando gli schemi rigidi del catenaccio, palla lunga e pedalare. I risultati e le vittorie contribuirono ad accelerarne il processo di maturazione e a renderlo iconico agli occhi della gente, ma furono diretta conseguenza di un percorso partito da lontano, dalla campagna romagnola, terra di onesti lavoratori e (a quanto pare) di grandi pionieri. Solo una fu la “vittima” di quella rivoluzione: quel Claudio Borghi che Berlusconi voleva nel suo Milan, ma che dovette accontentarsi di vedere a Como, dove l’argentino non fece affatto faville. Sacchi nell’estate del 1988 gli preferì Rijkaard: “Se non mi date Frank me ne vado”. Ancora una volta aveva ragione il “Profeta”, che oggi festeggia 76 anni.

(Credits: Getty Images)

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