Federico II di Svevia e l’Umbria (puer Umbriae)

Federico II Hohenstaufen di Svevia nacque il 26 dicembre 1194 a Iesi nel territorio della Marca anconetana. Era figlio di Enrico VI e di Costanza d’Altavilla, e nipote di Federico I Barbarossa.

Federico II è stato uno straordinario personaggio attorno al quale si sono creati nel tempo un mito e una idealizzazione con forte carica di eccezionalità, per alcuni aspetti, primo tra i quali la creazione di una forte e centralizzata macchina burocratica nel regno di Sicilia. Il suo è stato di fatto uno stato centralizzato, livellatore, burocratico, tanto che Federico fondò l’università a Napoli proprio per formare i quadri dirigenti dell’amministrazione. Oltre a ciò con le costituzioni di Melfi, dunque con un corpo di leggi apposite definibile come “combinazione ben dosata di fonti romane, canoniche e feudali”, limitò i privilegi del clero e dell’aristocrazia baronale. Questo sistema non fu però esteso alla Germania caratterizzata invece da un marcato decentramento, motivato dalla presenza della grande feudalità e dalla necessità per l’imperatore di avere strumenti di coercizione nei confronti di quella.

Notevoli furono gli interessi culturali certamente ampi come le sue opere e il suo ricco epistolario con i sapienti del giudaismo e dell’islamismo stanno a dimostrare. Lo storico Kantorowicz scrisse che Federico non ricevette una vera educazione, anzi, che bambino vagava per Palermo osservando il mondo che lo circondava. Non è dello stesso avviso Hubert Houben che parla invece di “stretta sorveglianza sul re-bambino” e dunque di attenta e rigida educazione a corte, anche se il suo tutore, Innocenzo III, poco si curava di lui da questo punto di vista preoccupato invece delle questioni politiche legate alle due corone, di Germania e Sicilia, che voleva mantenere divise.   

Quanto alla tolleranza nei confronti di ebrei e musulmani, è noto che la guardia personale di Federico era composta da Saraceni che venivano dalla comunità musulmana di Lucera in Puglia dove il re aveva “raccolto” tutti i musulmani dell’isola, per evitare frizioni con i cristiani. Lucera fu una comunità florida, dal punto di vista agricolo ed economico, con libertà di culto e nel momento di massima espansione contò 60000 abitanti utilizzati, gli uomini, come arcieri e frombolieri nell’esercito imperiale anche dopo la morte di Federico.

Il versante della sfida all’autorità papale è piuttosto complesso. Proprio il fatto di essere coinvolto in una lunga sequenza di rapporti altalenanti con i pontefici ammantò di leggenda il suo comportamento o almeno ne ingigantì certi aspetti al di là della realtà storica. Certo, fu scomunicato più volte, e indubitabilmente condusse la crociata a suo modo e non come avrebbe voluto Gregorio IX che pretendeva un’offensiva “tradizionale”, ma per farsi incoronare imperatore venne a Roma da papa Onorio III nel 1220 secondo la tradizione dei re germanici, e quando Gregorio IX lo colpì con la scomunica, sanzione temutissima e pericolosissima perché metteva lo scomunicato fuori della societas christianorum rompendo ogni vincolo di obbedienza (un vero problema per un imperatore rispetto ai suoi sudditi), Federico cercò di far recedere il papa dalla decisione presa con atti di penitenza (e il facere poenitentiam è tipicamente medievale) e alla fine partì per la crociata, che dopo un inizio un po’ difficile, venne condotta da Federico seguendo una sua strategia che risultò vincente ovvero strinse un patto con il sultano al-Malik con cui voleva mantenere buoni rapporti, e ottenne Gerusalemme, Betlemme, Nazareth e altri luoghi.

E se è vero che il papa durante la sua assenza entrò nel Regno con le sue truppe facendo girare la falsa notizia della morte di Federico, appena questi tornò velocemente in Italia riuscì a stringere nel 1230 la pace di S. Germano che prevedeva da parte sua varie concessioni (per esempio la promessa di rinunciare al Ducato di Spoleto e alla Marca di Ancona) in cambio della revoca della scomunica.

Tutto è rimesso in discussione quando Federico si propone di riportare i comuni dell’Italia settentrionale sotto il suo controllo, ma le cose erano molto cambiate dai tempi del nonno Federico I e, se pure l’imperatore ottenne una iniziale vittoria a Cortenuova nel 1237, le vicende poi precipitarono velocemente: la rinnovata lega lombarda resistette, soprattutto per il sostegno del papa, che la utilizzò come baluardo contro l’espansionismo federiciano. Nonostante una nuova scomunica, Federico non si fermò ed entrò nei territori dello Stato della Chiesa annettendo all’Impero molte città del Ducato di Spoleto e della Marca d’Ancona prima riconosciute al papa.

Il Ducato e la Marca erano due territori importanti, l’uno di derivazione longobarda, l’altra esito dall’accorpamento della Pentapoli con la Marca fermana; due territori che facevano gola tanto al Papato quanto all’Impero, in quanto costituivano un corridoio diretto tra Italia settentrionale e meridionale.

Già Innocenzo III aveva dato a questi ambiti territoriali il titolo di provincie, quando nel 1210 dette una sistemazione (che durerà con alterne vicende per secoli) ai territori denominati Terre della Chiesa, poi Stato della Chiesa, comprendente il Ducato e la Marca ora ricordate, insieme al Patrimonio di S. Pietro in Tuscia a nord di Roma e alla Campagna e Marittima, l’attuale Campania, a sud di Roma. La Romagna si aggiungerà in seguito.

Federico era particolarmente legato a Marca e Ducato, e non solo per questioni meramente territoriali: nella Marca era nato, a Jesi, dove la madre Costanza d’Altavilla figlia di Ruggero II il fondatore del regno normanno di Sicilia, ormai quarantenne (fatto straordinario per l’epoca), lo aveva partorito il 26 dicembre 1194 mentre si recava nel Regno di cui il marito Enrico VI aveva finalmente ottenuto la corona. Nella primavera del 1195 Costanza lasciò il figlio e se ne andò in Puglia ad assumere la reggenza in nome del marito.

Il neonato venne affidato alla moglie del duca di Spoleto Corrado di Urslingen e visse i suoi primi anni di vita in Foligno, dove venne battezzato nel 1196 con i nomi degli nonni, Federico e Ruggero; i preparativi della cerimonia furono l’unica e ultima occasione in cui Enrico vide il figlio. Subito dopo infatti morì, aprendo la lunga vertenza dinastica risolta in parte dall’astuta mossa di Costanza di nominare il papa Innocenzo III come tutore del piccolo Federico.

Con la morte improvvisa di Enrico VI, Corrado d’Urslingen tornò in Germania, dopo aver riconsegnato il Ducato alla Chiesa; in conseguenza di ciò Costanza mandò a prendere il piccolo Federico da alcuni notabili di Puglia che lo condussero a Palermo.

Federico dimostrò in tutto il corso della sua vita uno straordinario attaccamento al luogo natale, Jesi, come appare mirabilmente esplicitato nella famosa lettera inviata dall’imperatore alla città nell’agosto del 1239, mentre si accingeva a recuperare all’Impero la Marca di Ancona e il Ducato di Spoleto.

Scrive Federico:

«Se il luogo nativo è oggetto di spontaneo amore ed affetto indifferentemente da tutti gli uomini; se l’amore della Patria natale spinge tutti con la sua dolcezza, né permette che ci si dimentichi di essa, noi, per la stessa ragione, e secondo natura, siamo portati ed avvinti ad amare Jesi, nobile città della Marca, insigne principio della nostra vita, terra ove la nostra divina madre ci ha dato luce, ove la nostra culla risplendette, con che questa città, la nostra Betlemme, terra di Cesare e nostra origine, è incisa nella nostra mente e profondamente radicata nel nostro cuore. E tu Betlemme, città della Marca, non sei la più piccola tra le grandi città della nostra stirpe. Da te infatti è uscito il principe dell’Impero romano chiamato a reggere e proteggere il tuo popolo e non permettere che tu debba ancora essere sottoposta ad un governo nemico. Sorgi, dunque, prima genitrice e scuoti l’angusta oppressione del nostro oltraggiatore».

Nella lettera la madre Costanza è appellata “divina” e Jesi avvicinata a Betlemme, con un accostamento, neanche tanto velato, tra la figura di Federico e quella del Cristo. Il parallelo con Cristo, a prima vista audace, può definirsi tuttavia “insolito ma non blasfemo” e comunque da inserire nel “pensiero politico-teologico del Medioevo” che considerava l’imperatore vicario di Cristo, sebbene il papa contestasse tale ruolo. Dunque facile immaginare l’inevitabile sdegno di Gregorio IX, che aveva appena colpito l’imperatore con la seconda scomunica.

Quanto ai territori della Marca e del Ducato, terre di confine tra il Regnum e lo Stato della Chiesa, furono oggetto di contesa tra i due sommi poteri universali. Federico rinunciò a esse definitivamente nel 1230 con la pace di S. Germano. Potrebbe sembrare un atteggiamento troppo remissivo da parte dell’imperatore, allora intenzionato a collocare la base del dominio imperiale al di là delle Alpi. Ma con il tempo Federico maturò una visione politica completamente diversa: a divenire periferica fu la Germania  – nella quale fece riconoscere come suo successore il figlio Enrico –, mentre i suoi interessi si concentrarono sul Regnum e sull’Italia imperiale.

La nuova prospettiva pose certamente in una luce diversa le terre dell’Italia mediana, definite a questo punto da Federico de maioribus et melioribus provinciis Italie, florentibus divitiis et strenuitate virorum.

Parallelamente, i rapporti con il Papato si andarono sempre più guastando e vennero meno le remore iniziali a intervenire, anche militarmente, per assicurarsi la fedeltà delle città del Ducato e della Marca, fino all’aperta offensiva del 1239, l’anno della lettera a Jesi.

Nuovamente scomunicato da Gregorio IX, Federico revocò la cessione delle terre dell’Impero alla Chiesa: inviò il figlio Enzo nella Marca e guidò egli stesso le truppe nel Ducato, affermando pubblicamente tramite lettere di non sopportare che il Ducato e la Marca restassero ulteriormente divisi dal corpo dell’Impero, annunciando che la liberazione dall’oppressore era vicina.

Nel 1240, signore di quasi tutto il Ducato, Federico tenne una grande assemblea dei ghibellini dell’Italia centrale a Foligno, città che l’imperatore celebrò al pari di Jesi, ricambiando una fedeltà che si era dimostrata nel tempo incrollabile; l’imperatore infatti scrisse: «nel cui splendore ebbe inizio la nostra fanciullezza e che noi veneriamo come il luogo che ci nutrì».

Dal 1240 in poi e fino alla morte di Federico, avvenuta dieci anni dopo –  nonostante la presenza di rocche e città fedeli al pontefice come Narni e Rieti – il Ducato tornò di fatto a far parte dei territori imperiali, non cedendo alle lusinghe di Gregorio IX prima e Innocenzo IV poi, che continuarono a intervenire con privilegi, esenzioni e donativi in denari e terre, o al contrario con sanzioni e rappresaglie per le città più apertamente filoimperiali.

Morto Federico, però, l’organizzazione imperiale vacillò, nonostante il testamento dell’imperatore che designava come successore nell’impero e nel regno di Sicilia il figlio Corrado IV, e in linea di successione Enrico e Manfredi.

Infine, con le sconfitte delle truppe imperiali a Benevento (1266) e Tagliacozzo (1268) il Ducato passò definitivamente al Papato e Perugia cominciò ad acquisire una posizione di supremazia su quelle terre, in precedenza insensibili alla sua influenza.      

Con Corradino, sconfitto a Tagliacozzo e decapitato a soli sedici anni il 29 ottobre 1268 nell’odierna Piazza del Mercato di Napoli, si chiude il sogno degli Hohenstaufen e per molto tempo anche ogni ambizione imperiale sull’Italia