Dario Scaricamazza
Lo Scorpione di Elisabetta Gonzaga
Ra aello e la creazione del segno
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1
Dario Scaricamazza
Lo Scorpione di Elisabetta Gonzaga.
Raffaello e la creazione del segno.
Preprint, ottobre 2022.
▷ Testo gratuito in versione digitale, ad uso scienti co, con nalità educative e di divulgazione.
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© Tutti i diritti di copyright sono riservati.
2
Ra aello, Ritratto di Elisabetta Gonzaga, Galleria degli U zi.
3
Indice
· Introduzione
1 · L’Opera e Ra aello
Le notizie storico artistiche
dell’opera.
Ra aello ed Elisabetta.
2 · Elisabetta Gonzaga e le sue
corti
Mantova.
4 · L’impotenza di Guidobaldo
da Montefeltro e lo Scorpione
L’impotenza del duca.
Talismano o amuleto?
L’Aurora di Dante e il suo
scorpione sulla fronte.
5 · Lo Scorpione: il segno
zodiacale
Urbino.
Lo Zodiaco dei Gonzaga.
3 · Il Gioiello scorpione
Giulio II.
Lo scorpione-gioiello di
Elisabetta.
Lo scorpione-gioiello nel
Rinascimento.
Lo Scorpione di Ra aello per
Il viaggio di Giulio II a
Urbino e i gioielli di Elisabetta
d’Este.
Scorpione: il mito di Orione.
Lo scorpione-gioiello nella storia
dell’arte.
4
6 · L’Olio di scorpione e la peste
7 · La Fondazione di Mantova e
la Morte
La tebana Manto.
L’etrusco Mantus.
Manto, Mantus e lo scorpione.
8 · Lo scorpione nei libri di
Elisabetta
Baldassare Castiglione,
L’Aretino e la S sulla fronte di
Elisabetta.
9 · Lo scorpione attributo,
simbolo e segno.
10 · L’Araldica e l’impresa dello
scorpione.
Che cos’è un’impresa?
L’abito araldico gonzaghesco di
Elisabetta.
Gli scorpioni dei Gonzaga.
· Conclusioni
· Note bibliogra che e
sitogra che
5
Introduzione
Il ritratto di Elisabetta Gonzaga seduce, interroga. D’istinto la storica dell’arte, lo
studente, noi tutti ci domandiamo: «È un dipinto di Ra aello? Perché quello
scorpione?».
Questo lungo articolo non risolve la prima questione, non entra nel dibattito sulla
paternità dell’opera. A volte chi si occupa di simboli, emblemi, segni, accetta le sue
mancanze e non si sostituisce al lologo, l’indagatore di forme; lo fa per non
commettere errori: non è prova di modestia ma un gesto d’astuzia.
Replichiamo dunque al “perché lo scorpione?”. Per farlo riformuliamo la
domanda: quali sono i signi cati del gioiello-scorpione di Elisabetta?.
Studiosi di araldica, in passato, hanno o erto una loro risposta. Storici dell’arte,
specialisti di astrologia, astronomia, gioielleria e altre discipline hanno considerato
deboli le loro prove, intuizioni. Ritengo abbiano avuto ragione: attribuire con
super cialità un emblema è un’o esa al metodo scienti co e alla persona interessata.
Elisabetta Gonzaga e la scienza del blasone non lo meritano, siamo d’accordo.
Chi però ha criticato l’ipotesi degli araldisti — per i quali lo scorpione della
duchessa rappresenterebbe un’impresa: una
gura simbolica, allegorica o
emblematica che ci parla in maniera esplicita o ermetica di un gesto, un’impresa
appunto, che può ricordare un fatto storico, un evento, un’azione compiuta, ideale,
militare o d’amore — reiteratamente ha commesso lo stesso sbaglio: molti studiosi,
infatti, non hanno o erto valide motivazioni a supporto delle loro ipotesi, tesi. Noi,
ovviamente, tenteremo di evitare l’insidioso errore: forniremo dati inconfutabili,
spesso inediti, non solo interpretazioni personali.
Ringraziamo da subito coloro i quali, attraverso ottime ricerche, hanno
o erto informazioni e spunti essenziali per il nostro lavoro; sono molti e senza il loro
sforzo la nostra avventura non sarebbe neppure iniziata.
L’obiettivo del testo è dimostrare la valenza non solo simbolica ma anche
emblematica, identi cativa dello scorpione di Elisabetta, svelarne i molti signi cati.
Come avrete intuito ho preferito uno stile di scrittura personale date le nalità
scienti che ma anche didattiche e divulgative dello scritto. Spero possiate condividere
la scelta e perdonare l’esposizione. Si è applicato un approccio interdisciplinare e un
6
metodo eclettico: si sono presi in prestito alla storia, all’iconogra a, iconologia,
semiologia, all’araldica e ad altre discipline gli strumenti necessari per la costruzione di
un metodo scienti co applicato alle scienze umane.
Nelle pagine seguenti illustrerò il mio percorso nei suoi singoli passaggi: si traccerà un
cammino veri cabile, da ripercorrere — correggere se necessario — o semplicemente
da continuare. Incominciamo, interroghiamo Elisabetta Gonzaga.
7
L’opera e Ra aello
Senza l’arrogante e sciocca pretesa di sostituirci ai molti studiosi che hanno dedicato
la propria vita all’opera di Ra aello, diamo uno sguardo al dipinto degli U zi,
ricordiamo brevemente la sua storia.
Ritratto di Elisabetta Gonzaga, duchessa di Urbino, per molti storici e per il museo
che lo custodisce è un’opera di Ra aello; l’attribuzione, tuttavia, non è condivisa
dall’intera comunità scienti ca. È stato messo in relazione con di erenti artisti tra i
quali Andrea Mantegna1 e Francesco Bonsignori 2 3. Il dipinto venne attribuito per la
prima volta a Ra aello nel 1905, da Louis Durand-Gréville4. Oberhuber confermerà
la qualità del ritratto e la mano del pittore urbinate.5
6
I pareri contrari, invece,
78
evidenziano la distanza formale rispetto ai ra aelleschi.
Come premesso non entreremo nel dibattito sulla sua paternità, ci concentreremo
sull’enigma del gioiello ra gurato e della sua proprietaria. Da questo momento, per
facilità di esposizione, parleremo dell’opera attribuendola a Ra aello.
È importante ricordare che, per decodi care un segno — ce lo spiegano la
semiotica e i malintesi di tutti i giorni —, occorre conoscere i signi cati ad esso
attribuiti. Il plurale non è un errore: il senso datogli dall’emittente, infatti, potrebbe
non essere condiviso con il destinatario. Ra aello ha dipinto uno scorpione sul volto
della donna. Presumibilmente è la stessa ritratta, Elisabetta Gonzaga, che ne chiese la
ra gurazione. Perché? Gli storici si occupano più dei “come?” che dei “perché?”, lo
sappiamo, ma noi — per una volta, solo in questo caso — non li ascolteremo:
cercheremo di scoprirlo. Abbiamo un monito però, è sempre bene ricordarlo: per
1
Lanzi, Joseph, Galerie Impériale 1818. Galerie Impériale et Royale de Florence. Nouvelle édition ornée des planches de
la Vénus des Médicis de celle de Canova et de l’Apollon, Firenze, 1818, p.102.
2
Crowe J.A., Cavalcaselle G.B., A History of Painting in North Italy, Venice, Padua, Vicenza, Verona, Ferrara, Milan,
Friuli, Brescia, rom the Fourteenth to the Sixteenth Century, London, John Murray, 1871, p.479.
3
Schmitt, U.B., “Francesco Bonsignori”, in Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst, XII, 1961, pp. 73-152.
4
Durand-Gréville, Émile, “Trois Portraits méconnues de la Jeunesse de Raphaël”, in Revue de l’Art Ancien et Moderne,
XVII, 1905, pp. 377-386.
5
Oberhuber, K., Raffaello, traduzione di Maria Magrini, Milano, Arnoldo Mondadori, 1982, p.32.
6
Oberhuber, K. Raffaello: l’opera pittorica, Milano, Electa, 1999, p.43.
7
Meyer zur Capellen, J., “Baldassare Castiglione and Antonio Tebaldeo. Raphael Por- trays Two of His Friends”, in
Jürg Meyer zur Capellen, Claudio Falcucci, The Portrait of Baldassare Castiglione” & the Madonna dell’Impannata
Northwick. Two studies on Raphael, Frankfurt am Main, Peter Lang, 2011, pp. 9-31.
8
De Vecchi, P., Raffaello, Milano, Rizzoli Libri Illustrati, 2002, p.358.
8
riuscirci dobbiamo interrogare l’artista di Urbino, la sua duchessa, conoscere meglio
le amiche di Elisabetta, le donne e gli uomini del Rinascimento.
Noi, non dimentichiamolo, siamo solo gli ultimi dei riceventi: il “nostro”
signi cato potrebbe non essere quello di Elisabetta, o semplicemente non essere il
solo. Chiediamo aiuto ad altri occhi, agli occhi dell’altro.
9
Le notizie storico artistiche dell’opera
Leggiamo insieme le notizie storico critiche dell’opera del Catalogo generale dei Beni
culturali (aggiornate al 2015).
«L'opera entra in Galleria dalla guardaroba il 14 agosto 1773, pervenuta
dall'Imperiale (P. Pitti). Nell'inventario del 1784 è indicata come opera "di alunno dei
Bellini", mentre in quello del 1825 porta il nome del Mantegna, attribuzione che
conservò no alla ne del secolo scorso. L'attribuzione a Ra aello si deve al Durand
Greville contro varie altre opinioni che lo assegnavano a Francesco Buonsignori
(Crowe/Cavalcaselle), al Caroto (G. Novelli), ad un maestro veronese in uenzato dal
Mantegna (Bode). L'attribuzione a Ra aello è stata poi confermata da Ortolani,
Longhi, Camesasca. In tempi più recenti questa paternità è stata respinta da Brizio e
Salvini, che collegano l'opera alla cerchia di Francesco Francia (per tutte le vicende si
veda scheda Ra aello a Firenze). Recentemente (2001) il Meyer zur Capellen torna ad
ipotizzare una probabile esecuzione del ritratto della duchessa e del suo pendant
nell'ambito del Buonsignori. Nonostante queste controversie attributive, non c'è
dubbio che Ra aello abbia eseguito un ritratto per la duchessa sua mecenate, come
ricorda Antonio B. Negrini nei suoi 'Elogi di Castiglione'. Il nome Isabella, invece di
Elisabetta si deve probabilmente al fatto che la duchessa, moglie di Guidobaldo di
Montefeltro, usava rmarsi Isabetta. Il dipinto è generalmente datato intorno al 1504,
considerando anche l'età della duchessa nata nel 1471. Elisabetta vi è ra gurata con i
capelli probabilmente rivolti dietro nel "coazzone", la lunga treccia con cui è
rappresentata in una medaglia al British Museum attribuita dal Von Fabriczy ad
Adriano Fiorentino. Per quanto riguarda il monile a forma di scorpione, alcuni
studiosi lo hanno interpretato come una "impresa" da porre in relazione con un altro
gioiello a forma di "S" con cui Baldassarre Castiglione ricorda la duchessa nel suo
"Cortegiano" collegabile con l'iniziale di "Scorpio", animale con valenze apotropaiche.
L'intero abbigliamento della duchessa sembra peraltro celare signi cati simbolici.
Elisabetta Gonzaga nasce nel 1471, glia del marchese di Mantova Federico e di
Margherita di Bavaria. Nel 1489 sposa il duca Guidobaldo. I biogra ne riconoscono
le doti di colta e ra nata cultrice di lettere e arti. [Sul retro della tavola vi è
un'iscrizione in corsivo, a penna: “Duchessa Mantovana moglie del Duca Guido”]».9
9
“Ritratto Elisabetta Gonzaga”, Catalogo Beni Culturali [Sito U ciale].
10
Aggiungiamo ora due brevi descrizioni del dipinto, prendendo in prestito le parole
di Vittorio Sgarbi e Anna Bisceglia.
«Dopo le prime pale d’altare, la Pala Oddi e la Pala Colonna, Ra aello si cimenta nei
suoi primi ritratti, fra il 1505 e il 1506. La critica più avveduta li attribuisce a lui,
anche se sono acerbi, piuttosto rigidi, tanto che permangono delle riserve. Sono i
ritratti di Guidobaldo da Montefeltro e di Elisabetta Gonzaga, due urbinati. La
meravigliosa veste di lei sembra un’opera astratta, ricorda Klimt. Il volto turbato,
pensieroso, emerge da un paesaggio di ascendenza leonardesca. Un po’ imbambolato,
ma anche lui denso di pensieri che ne turbano la mente, è Guidobaldo. Io credo che i
due ritratti si possano attribuire a Ra aello, ormai avviato verso la prima maturità con
ritratti meravigliosi e Madonne con il Bambino in cui nessuno potrà inseguirlo».10
«Il taglio dell’immagine, poco sotto il petto, esclude le braccia e le mani per
concentrarsi unicamente sulle spalle e sul volto rigorosamente frontali. Sul fondo si
apre un quieto e luminoso paesaggio tipicamente umbro di colline punteggiate di
alberelli e segnato in lontananza da un’alta montagna».11
Per integrare le informazioni sul paesaggio invito ad osservare la luce dello sfondo:
potrebbe essere utile notare — ne sarà svelata l’importanza — che alle spalle di
Elisabetta Gonzaga sembra essere ra gurata l’aurora.
Ra aello, Elisabetta Gonzaga, Galleria degli U zi. Dettaglio.
10
11
Sgarbi, Vittorio, Raffaello. Un dio mortale, Milano, La nave di Teseo, 2021, pp. 84-90.
Bisceglia, Anna, “Ritratto di Elisabetta Gonzaga, Duchessa di Urbino”, Gallerie degli U zi [sito u ciale].
11
Ra aello ed Elisabetta
Un lettore che non avesse familiarità con Ra aello potrebbe considerare utile sapere
che l’artista è nato a Urbino nel 1483, città della quale, dal 1489, sarà duchessa
proprio Elisabetta Gonzaga. Un secondo appunto sul pittore: Ra aello poté ricevere
dal padre, Giovanni Santi, morto nel 1494, solo un primo indirizzo alla pittura. Santi,
tuttavia, fu un umanista e un padre intelligente. In occasione delle nozze del duca
Guidobaldo ed Elisabetta Gonzaga scrisse Cronaca rimata, in onore del padre dello
sposo, il duca Federico da Montefeltro; inoltre comprese e stimolò il genio del glio:
scelse per lui un maestro d’eccezione, il Perugino.
Ad esclusione delle importanti e indispensabili informazioni su Elisabetta e sul
suo monile riportate dalle notizie storico critiche — le analizzeremo in dettaglio —
come possono aiutarci queste notizie?
Potremmo non essercene accorti: sappiamo molto di più, ora. Ra aello
conosceva la duchessa e probabilmente la incontrò più volte, ancora bambino.
I codici simbolici e gli emblemi usati dalla Corte non gli erano estranei; al contrario,
erano a lui familiari: suo padre, Perugino e lo stesso Piero della Francesca, “suoi
maestri”, li avevano raccontati, studiati, decantati, interpretati, per no creati. Fu il
pittore, quindi, che inventò lo scorpione? Di cile rispondere
n da subito.
Scopriamolo insieme.
12
Elisabetta Gonzaga e le sue corti
Mantova
Chi è Elisabetta? “La duchessa d’Urbino” non sarebbe una risposta sbagliata.
Diremmo il vero, certo, ma sarebbe probabilmente riduttivo. Elisabetta Gonzaga è
stata musa di letterati, mecenate, perfetta e ra nata ambasciatrice del proprio ducato.
Fu tutto questo? Non solo. La sua intelligenza, cultura e tenacia si accompagnarono
ad un cognome: Gonzaga. Il suo raggio d’azione, dunque, fu ampio e straordinario.
Elisabetta nacque a Mantova nel 1471, era glia di Federico I Gonzaga, terzo
marchese di Mantova, e della principessa Margherita di Baviera. I nonni paterni,
Ludovico Gonzaga (detto il Turco) e Barbara di Hohenzollern, trasformarono
Mantova in una delle più belle e in uenti capitali del Rinascimento.
Mantegna, Camera degli Sposi, Mantova.
Dettaglio Ludovico III Gonzaga e Barbara di Hohenzollern.
13
La duchessa d’Urbino non rappresentava solo la corte del marito, Guidobaldo da
Montefeltro, ma fu esponente d’eccezione della corte paterna e fraterna: suo fratello,
Francesco II Gonzaga, fu il IV marchese di Mantova; sua cognata, la marchesa, la
moglie di Francesco, era una sua fedele amica. Perché parlare della cognata? Anche
quest’ultima non era una donna qualunque: era la glia del duca di Ferrara, il suo
nome era Isabella d’Este.
Marchesato di Mantova (Gonzaga), Ducato di Ferrara (d’Este),
Ducato di Urbino (Montefeltro ed Elisabetta Gonzaga) nel 1507.
14
Urbino
Sostituire Federico da Montefeltro e sua moglie, Battista Sforza, alla guida del Ducato
di Urbino, non dev’essere stato facile. Quello che fu uno dei massimi centri della
cultura mondiale, Urbino, dopo avere toccato il suo apice — direbbe qualcuno —
poteva solo decadere. Non fu così, la città ebbe fortuna: il glio di Federico non godé
di buona salute, fu sfortunato ma si contraddistinse per essere un buon soldato,
amministratore e uomo di cultura. La moglie, Elisabetta Gonzaga, sensibile n
dall’infanzia alla bellezza e al sapere, anche politico, ebbe le stesse capacità del marito:
si rivelò all’altezza del ducato e della situazione. Tutti noi, conoscitori o meno della
storia delle signorie e corti italiane, nell’ascoltare il nome “Montefeltro” o “Urbino”
pensiamo a Federico. È perfettamente normale: quando il 22 luglio del 1444 fu
ucciso Oddantonio da Montefeltro, suo fratellastro, che aveva governato sotto
l'in uenza del signore di Cesena, i Malatesta, nemici storici della famiglia di
Montefeltro, pochi avrebbero immaginato che Federico, glio illegittimo e solo in un
secondo momento legittimato, sarebbe entrato nel mito del Rinascimento. Pochi ma
non distratti: il futuro duca d’Urbino aveva dimostrato tenacia e intelligenza n da
bambino, ostaggio ma adeguatamente educato tra Venezia e la corte di Mantova, la
stessa di Elisabetta.
I suoi gli, anche loro di diverse madri, Antonio da Montefeltro e il nostro
Guidobaldo, marito di Elisabetta, al contrario, si vollero bene. Non ci furono a corte
nuove morti sospette. Guidobaldo, ancora bambino, orfano ( Federico morì nel 1482
e la madre, Battista Sforza, nel 1472), trovò un secondo padre in Antonio;
quest’ultimo governò Urbino, si occupò del fratello, lasciò a lui il potere quando
Guidobaldo raggiunse la maggiore età e lo difese durante tutta la vita. Un caso raro
nell’Italia del Rinascimento.
15
È il 9 febbraio del 1488: Elisabetta fa il suo ingresso in città. Il duca e un gran numero
di gentiluomini la attendono. Le strade sono addobbate a festa. Lunedì 11 febbraio
vengono celebrate le nozze. I festeggiamenti durano molti giorni. Come già detto,
Giovanni Santi, pittore umanista e padre di Ra aello, ne descriverà i fasti in Cronaca
rimata. Da quel momento Elisabetta e Guidobaldo si ameranno ma saranno infelici;
ma questa è un’altra storia; non trascurabile però: da molti è considerata
determinante per stabilire il signi cato dello scorpione.
Piero della Francesca, I duchi di Urbino Federico da Montefeltro e
Battista Sforza, Galleria degli U zi.
16
Ra aello, Ritratto di Guidobaldo da Montefeltro, Galleria degli U zi.
17
Il gioiello scorpione
Lo scorpione-gioiello di Elisabetta
Che cosa indossa Elisabetta Gonzaga sul proprio capo, cosa le decora la fronte?
Una lenza, questo è il nome del suo ornamento. Qual era il rapporto di Ra aello e il
gioiello? Doverosamente ci a diamo a persone più competenti di noi.
«Dotato di un realismo molto personale, il pittore urbinate li [i gioielli] descrive senza
insistenza, li annota accuratamente ma schivando abilmente la trappola del
lenticolarismo ammingo. Non c’è, nei gioielli di Ra aello, il compiacimento della
descrizione materica mentre si percepisce più che mai quella nota “sprezzatura” che
guida il pennello nella descrizione di una preziosità naturale non ossessiva, nella
creazione di un’eleganza discreta che cela un inarrivabile perfezionismo. Nondimeno i
suoi preziosi si impongono all’attenzione come accessori parlanti, comunicano con lo
spettatore attraverso le fogge, i materiali e le posizioni evidenti».12
È un diamante, un topazio, uno smeraldo? Purtroppo le nostre mancanze
potrebbero toccare l’intero mondo del gioiello, non solo quello del suo rapporto col
pittore urbinate.
A diamoci nuovamente a Silvia Malaguzzi: «È un taglio a punta di diamante; è un
diamante»13.
E il suo signi cato? Siamo qui per questo. A rontiamo per ora tre questioni, di
natura più storica che simbolica, allegorica, eccetera: ci accompagneranno verso una
risposta più ponderata e corretta, ne sono sicuro.
Malaguzzi Silvia, Raffaello e i gioielli alle gallerie degli Uffizi: Elisabetta Gonzaga, Maddalena Doni e la Velata, in
“Imagines”, n.4, maggio 2020, pp. 55-59.
13
Malaguzzi, Silvia, “I Gioielli nei dipinti degli U zi, Lezione presso l'Auditorium Vasari, 6 marzo 2019”,
Firenze, 2019. [Conferenza].
Malaguzzi, Silvia, “Gli ornamenti preziosi delle donne ai tempi di Ra aello, 8 aprile 2020”, Roma, Scuderie del
Quirinale, 2020. [Conferenza].
12
18
Ra aello, Elisabetta Gonzaga, Galleria degli U zi. Dettaglio.
19
Lo scorpione-gioiello nel Rinascimento
Monili o oggetti che ricordassero le forme di uno scorpione erano ornamenti comuni
all’epoca di Elisabetta? Nella storia dell’arte vi sono molti esempi di
scorpione-gioiello? Esistono documenti che attestano il possesso di gioie simili nelle
corti rinascimentali italiane? Rispondiamo a questi primi tre quesiti, di natura
storica.
Fin dall’antichità gli scorpioni sono presenti in gioielleria. Si trovano
spesso incisi in gemme, in funzione di amuleto.
«Il motivo, molto popolare in ambito glittico [attinente all’incisione delle pietre
dure], meno sui coni monetali — anche se lo si incontra già in epoca molta antica su
esemplari della Ionia del VII-VI sec. a.C. —, era usato sia come rappresentazione di
genere sia con riferimento al corrispondente segno zodiacale, sia come amuleto e
portafortuna. Lo scorpione fa la sua apparizione nella mitologia astronomica greca in
relazione con il mito di Orione (...)».14
Generalmente sono ra gurati su diaspri gialli. Il Museo Civico Archeologico di
Bologna, costituito a partire da diverse collezioni, tra le quali quella di Ulisse
Aldrovandi, nel descrivere il suo Diaspro giallo con raffigurazione di scorpione15, del
III secolo d.C., ci ricorda come l’amuleto dovesse servire per proteggersi dalle punture
dell'animale o rimedio contro l'impotenza e i disturbi sessuali: gli organi genitali,
infatti, erano la zona del corpo umano soggetta all'in uenza astrale dello scorpione.
Ci poniamo una domanda forse inaspettata; ci focalizziamo sulla storia dell’oggetto,
non ancora sul suo signi cato: come è arrivato quello scorpione al Museo
archeologico di Bologna? Non sempre è facile rispondere a interrogativi di questo
tipo, nel nostro caso la fortuna pare ci abbia aiutato. Ulisse Aldrovandi, professore
all’Università di Bologna e pioniere delle Scienze naturali, fu uno studioso
apprezzato. Intorno al 1580 una ra nata corte chiese il suo aiuto per la costruzione
Biondi, Simone, “Sotto il segno dello Scorpione: un anello tardo-antico da San Giovanni in Compito”, in Pagani e
cristiani: forme e attestazioni di religiosità del mondo antico in Emilia, vol.9, 2010, pp. 43-50
15
“Diaspro giallo con ra gurazione di scorpione”, Museo Civico Archeologico, Bologna.
14
20
del proprio museo16: era quella del duca di Mantova, Guglielmo Gonzaga, era la corte
di Elisabetta.
Facciamo una breve ricerca, super ciale, un gioco potremmo dire: scoviamo
tutte le gemme greche e romane sulle quali è inciso uno scorpione nel Catalogo
generale dei beni culturali italiani.17 Davvero a ascinante: sembra che più dell’80%18
degli “scorpioni” sia custodito nella Galleria Estense di Modena, a soli 70 km da
Mantova. Precisiamo: Modena fu sotto dominio estense durante il ducato
(1471-1505) di Ercole I d'Este; il duca di Ferrara, Reggio e Modena aveva una glia
primogenita: era l’intima amica e cognata di Elisabetta, Isabella d’Este, moglie di
Francesco II Gonzaga, IV marchese di Mantova.
A ascinante, sì, ma anche “sospetto”.19 Questo non prova nulla, non abbiamo perso
la ragione. Rispondere al primo quesito, “gli scorpioni, o oggetti che ne ricordassero
le forme, erano ornamenti comuni all’epoca di Elisabetta?”, ad ogni modo, ci ha
regalato indicazioni importanti. Contestiamo al secondo, potremmo avere
nuovamente fortuna.
16
Grendler, Paul F., The University of Mantua, the Gonzaga, and the Jesuits, JHU Press, 1584–1630, p.176.
“Scorpione”in Catalogo generale dei beni culturali [Sito u ciale].
18
Il dato è approssimativo, non è fonte di una ricerca approfondita: se ne consiglia la veri ca ed eventuale correzione.
19
Con questa frase si vuole unicamente evidenziare il collezionismo speci co di gemme-scorpione nella città di
Mantova e della corte d’origine della duchessa di Mantova, Isabella d’Este.
17
21
Diaspro giallo con raffigurazione di scorpione,
Museo Civico Archeologico, Bologna.
Corniola arancio. Zwierlein-Diehl 9.
Scorpione, Galleria Estense, Modena.
22
Lo scorpione-gioiello nella storia dell’arte
Nella storia dell’arte abbiamo altri esempi di ra gurazioni di uno scorpione-gioiello?
Possiamo replicare che la lenza di Elisabetta Gonzaga sembra essere unica.
Si è trovato faticosamente20, presso la The Columbia Museum of Art21, un secondo
ritratto attribuito a Giovanni Antonio Boltra o nel quale due scorpioni-gioiello
decorano il corpo di una donna. Purtroppo il nome della dama ra gurata è rimasto
un mistero. Le donne del Rinascimento, diciamolo con una certa sicurezza, non
avevano abitualmente uno scorpione sulla fronte (la lenza, invece, era un gioiello
abbastanza comune). La scelta di Elisabetta fu straordinaria.
Giovanni Antonio Boltra o (attribuito a), Portrait of a Young Woman with a Scorpion Chain.
Cohen, Simona, “Elisabetta Gonzaga and the Ambivalence of Scorpio in Medieval and Renaissance Art”, in Magic,
Ritual, and Witchcraft, Volume 13, Number 3, Winter 2018, p.414-415.
21
Giovanni Antonio Boltra o, Portrait of a Young Woman with a Scorpion Chain, The Columbia Museum of Art.
20
23
Siamo giunti all’ultima domanda di natura storica: esistono documenti che attestano
il possesso di gioielli simili alla lenza di Elisabetta Gonzaga nelle corti rinascimentali
italiane? La mia ricerca non è stata esaustiva, certamente — chiedo anzi che venga
integrata o confutata da altri studiosi —, ma è singolare che abbia incontrato una sola
donna con “uno scorpione” simile.
È una celebre marchesa che presterà
delle gioie22 alla nostra duchessa
d’Urbino; possedeva «un diaspis
verde macchiato di rosso con una
testa di cavo de diritto e lettere
grece e da reverso un scorpione
col letto et cathenina d’oro».23
È Isabella d’Este, l’amica e cognata
di Elisabetta.
Tiziano, Isabella d’Este, Kunsthistorisches Museum,
Vienna
22
Si veda il paragrafo “Il viaggio di Giulio II a Urbino e i gioielli di Elisabetta d’Este” del capitolo “Il viaggio di Giulio II
a Urbino e i gioielli di Elisabetta d’Este”.
23
Luzio, Alessandro, Isabella d'Este e il sacco di Roma, Cogliati, 1908, p. 167.
24
L’impotenza di Guidobaldo da Montefeltro
e lo Scorpione
L’impotenza del duca
Le di coltà sessuali di Guidobaldo sono importanti per la nostra storia. Elisabetta
Gonzaga e il duca di Urbino si amarono e rispettarono; tutti i testimoni dell’epoca,
per no i loro detrattori, lo dichiararono. Senza voler qui indagare l’aspetto
psicologico di tale questione, basti pensare al problema dinastico che i due coniugi
dovettero a rontare. Il Ducato d’Urbino, infatti, in mancanza di eredi, sarebbe
inevitabilmente tornato alla Chiesa (dalla quale formalmente dipendeva). La giovane
Elisabetta partì dunque per la ra nata corte dei Montefeltro dal ducato paterno,
anch’esso magni co. La lontananza da casa, però, e forse l’intuizione che la relazione
col marito “non sarebbe stata piena”, la spinse n da subito a scrivere lettere
nostalgiche e tornare frequentemente alla corte di Mantova.
Très riches heures du Duc de Berry, Musée Condé, Chantilly. Dettaglio.
25
È il 9 febbraio 1488, la futura duchessa fa il suo ingresso ad Urbino. Lunedì 11
febbraio, nella chiesa di S. Francesco, si celebrano le nozze seguite dai festeggiamenti.
Quando consumarle, quando congiungersi? Sotto i migliori auspici naturalmente.
Ottaviano degli Ubaldini, studioso di astrologia, stabilisce che la data propizia è il 2 di
maggio; cederà alle pressioni di Mantova e anticiperà il momento al 19 aprile.
Guidobaldo, però, non può consumare le nozze: non poté mai.24
L’assenza di un erede e la notizia del mancato atto sessuale iniziò a circolare.
Il Papa Alessandro VI propose ad Elisabetta l’annullamento: un’o erta attraente per
una donna nella sua posizione. La mossa papale, tuttavia, avrebbe segnato la ne del
ducato e quella dell’amato marito. Il glio illegittimo del papa, Cesare Borgia, il
Valentino, stava infatti conquistando i territori al con ne col ducato. La Gonzaga,
indignata, ri utò l’o erta.
Cesare Borgia, nel 1502, scacciò Guidobaldo e governò Urbino come duca di
Romagna. La capitale del ducato del Borgia era Cesena, la città-scorpione, così
chiamata25 per la forma della sua cinta muraria. Il sopruso ebbe vita breve:
Alessandro VI morì nell’agosto del 1503 e il Valentino, suo glio, l’usurpatore, senza
l’appoggio del padre cadde. Nel 1504 il legittimo duca, Guidobaldo, tornò alla
propria corte con la consorte. Si potrebbe dire con una ripetizione — forse utile al
nostro discorso ma discutibile e non particolarmente brillante, lo confesso — che
Elisabetta, la duchessa dello scorpione, scon sse il duca dello scorpione26. Non penso
vi sia una correlazione ma è alquanto suggestivo. Vi era un ultimo problema: la
discendenza. Elisabetta Gonzaga e il marito decisero di adottare il nipote Francesco
Maria della Rovere: Urbino aveva un erede. I duchi accolsero il nuovo papa, Giulio
II, a Urbino, nel settembre del 1506; lo accompagnarono nel trionfale ingresso a
Bologna (11 novembre 1506) e lo ospitarono di nuovo al suo ritorno (marzo 1507).
Guidobaldo morì nel 1508 ma Elisabetta visse nella capitale del ducato con la nipote
Eleonora Gonzaga e il glio adottivo, nonché nipote, Francesco Maria I della Rovere,
no al 1516, quando fu costretta a riparare a Ferrara. Non si risposò mai.
Centanni, Monica, “Elisabetta Gonzaga come Danae nella medaglia di Adriano Fiorentino (1495)”, La Rivista di
Engramma, vol. 106, Maggio 2013, pp. 115-121.
25
Nel “Pulon Matt“, poema del XVI secolo di Autore ignoto, in lingua volgare.
26
Il Valentino, come ricordato, era il signore di un ducato la cui capitale, Cesena, era chiamata “città scorpione”
24
26
Très riches heures du Duc de Berry, Musée Condé, Chantilly.
27
Talismano o amuleto?
Che cosa importa, cosa c’entra tutto questo con lo scorpione?
Date le supposte proprietà dell’animale nella cura dei genitali maschili27, alcuni
studiosi hanno pensato che il gioiello di Elisabetta fosse un amuleto con virtù
relazionate alla fertilità dello sposo.
Lorenzo Bonoldi e Monica Centanni, ad esempio, a ermano che
«alla luce delle tristi vicende coniugali di Elisabetta, e soprattutto in relazione alla
sterilità della sua unione con l’impotente Guidobaldo, si può ipotizzare una lettura
dell’ornamento della lenza alla luce della fede negli astri: (...) il segno zodiacale dello
Scorpione è infatti preposto all’apparato riproduttivo. Il gioiello in forma di scorpione
di Elisabetta Gonzaga potrebbe quindi essere una sorta di talismano, incaricato di
invocare le forze celesti per coadiuvare la Duchessa nel di cile – e in realtà impossibile
– compito della nobildonna di dare un erede al ducato di Urbino».28
Considero acuta l’osservazione di Bonoldi e della collega. Possiamo indebolirla,
invalidarla? In realtà abbiamo dei dati che supportano e integrano questa ipotesi: è la
stessa Monica Centanni — che ringraziamo — che attraverso le parole di Pietro
Bembo ce li suggerisce.
Leggiamo le sue parole:
«Dobbiamo a Pietro Bembo [celebre umanista veneziano che fu ospite della corte di
Elisabetta], nel suo De Guidobaldo Feretrio deque Elisabetha Gonzaga Urbini
Ducibus, scritto in occasione della morte di Guidobaldo avvenuta nel 1509, il
resoconto più completo della vicenda: “Il Signor Guido Ubaldo, o per difetto di
natura, o più tosto, come esso credea, per malie che fatte gli fussero non potè in tutto
’l tempo di sua vita conoscer donna carnalmente, né il matrimonio exercitar. Questa
cosa esso non sapendo, ché fatto non aveva ancora sperienza dell’esser uomo, perciò
che dal Signor Ottaviano suo zio era con molta diligenza riguardato a castamente
viver, per opera del medesimo zio gli è data per moglie questa Signora, sorella del
Signor Marchese di Mantoa, molto nobile uomo di sangue e nell’arte della guerra
27
Si veda il paragrafo “Lo scorpione-gioiello nel Rinascimento”.
Bonoldi L., Centanni M., Centanni M., “Catena d’onore, catena d’amore”, La Rivista di Engramma, 86, dicembre
2010, p.30.
28
28
grandissimo sopra ogni altro. Per che adunque egli, molto giovanetto, per il desiderio
dello ingenerar gliuoli come quello, in cui solo si riponeva la speranza di conservar la
stirpe, ne mena a casa la moglie, dormoni in un medesimo letto due anni, nelli quali
esso fa della sua virilità esperienza. Et alla ne, conoscendosi del tutto spossato,
dolente oltre ogni modo discuopre alla sua donna questo dovergli avenir per malie
fattegli d’alcuno che invidiasse gli suoi advenimenti felici, chiamando sé infelicissimo,
sì per la mancata speranza dello ingenerar gliuoli come perché essa quello
sodisfacimento non potesse ricever di sé, che per legge di matrimonio le è tenuto
debitamente, aggiugnendo che, dove questo si sapesse, egli ne gli seguirebbe vergogna
e da’ suoi popoli e da altri diverebbe sprezzato. La donna del quale del fatto se era
molto inanzi aveduta, né per tutto ciò turbataglisi giamai, né fatto parola a veruno,
udendo ciò, con allegro sembiante ingegnatasi di confortarlo, il pregò che la ingiuria
della fortuna sostenesse con forte animo: né ciò esser a lui solo avenuto, anzi in niti
re, in niti principi essersi sempre ritrovati e ritrovarsi al presente, che glioli non
hanno potuto avere [...]; et oltre a ciò vivesse sicuro, ché quale per due anni non fusse
stato da sé questo fatto manifestato ad alcuno, né pur alla propria nutrice, cotale da
quinci inanzi a niuno lo manifesterebbe giamai. E fu l’opera corrispondente al detto
[...]” (Lutz 1980, 205: si cita dalla prima edizione critica del volgarizzamento
dell’operetta eseguita ad opera dello stesso Bembo)».29
Scorriamo ora una sua seconda citazione: ribadisce un dato importante, a mio parere
essenziale per la nostra ricerca.
«Nella versione latina dell’elogio, Bembo esplicita che l’autore di queste malie sarebbe
stato lo zio-precettore Ottaviano Ubaldini: “Sive corporis et naturae vitio, seu, quod
vulgo creditum est, artibus magicis ab Octaviano patruo propter regni cupiditatem
impeditum, quarum omnino ille artium experientissimus habebatur, nulla cum
foemina coire umquam in tota vita potuisse”. (Pietro Bembo, Opere IV, 299)».30
Se nelle pagine precedenti siamo venuti a sapere che lo Scorpione ha — “avrebbe”
suggerisco — una certa in uenza sui genitali e le loro funzionalità, ora, con la lettura
di Pietro Bembo, scopriamo che Guidobaldo avrebbe addebitato la propria
impotenza ad una maledizione; l’ipotesi di uno scorpione con poteri magici, in tal
caso, a mio parere, acquista ancora più senso, più signi cato, signi cati.
Lo scorpione di Elisabetta, adesso, non solo potrebbe essere “una sorta di talismano,
incaricato di invocare le forze celesti per coadiuvare la Duchessa nel di cile – e in
realtà impossibile – compito della nobildonna di dare un erede al ducato di
29
30
Centanni, Monica, op.cit.
Ibid.
29
Urbino”31 ma anche svolgere la funzione di amuleto. Ricordiamo che quest’ultimo,
nello speci co, avrebbe una proprietà de nita “apotropaica”: allontanerebbe le forze
negative, maledizioni, come avrebbe detto il Bembo le “artibus magicis”.
“Lo scorpione di Elisabetta è semplicemente un talismano, un amuleto” qualcuno
potrebbe chiosare. Le cose sono un po’ più complesse. Pongo un interrogativo, una
domanda aperta: perché una donna che difendeva il proprio marito dalle accuse,
reali, di impotenza, a più di 10 anni dalle nozze, e che ri utò l’annullamento del
matrimonio, poco prima di adottare il proprio nipote avrebbe deciso di essere
ra gurata con un segno che, obbligatoriamente, avrebbe ricordato “l’infamia”
dell’amato sposo? Sappiamo per certo che i potenti di tutta Europa possedevano dei
talismani, amuleti, e che e non avevano timore nel farsi ritrarre con essi, non è questo
il problema. La questione è: Elisabetta Gonzaga e il suo pittore, il giovane Ra aello,
possono aver progettato un ritratto, chiaro esempio di rappresentazione del potere,
mettendo in evidenza la sterilità della coppia, la debolezza del potere stesso? Ripeto,
la domanda è aperta e studiosi di diverse discipline potranno replicare a tale quesito.
Naturalmente, lo ricordiamo anche se è scontato, la nostra risposta dovrà tenere
conto degli occhi di Elisabetta e dei suoi contemporanei, quelli che abbiamo
chiamato, forse con un po’ di retorica, “gli occhi dell’altro”.
31
Bonoldi L., Centanni M., op.cit.
30
Lo Scorpione: il segno zodiacale
Lo Zodiaco dei Gonzaga
Elisabetta sarebbe nata il 9 febbraio del 1471. “Non è del segno dello Scorpione
quindi l’animale sulla sua fronte non ha nulla a che vedere con lo zoodiaco”. È
divertente leggere studiosi così sicuri di loro stessi, risolutivi. Mettiamo da parte il
sarcasmo — me ne scuso — e cerchiamo insieme di inquadrare la situazione. Questo
pensiero e questa frase possono bastare per interrompere una conversazione che si
considera noiosa ma sono alquanto pericolose se usate per interpretare un dipinto
eseguito in una delle corti più ra nate del Rinascimento. Mi è sembrato il caso —
immagino lo comprendiate — di approfondire la questione. A diamoci come
sempre a persone con conoscenze più speci che delle nostre: la nostra missione non è
superarle ma integrare il loro lavoro; grazie al sapere che ci o rono e alla nostra
“visione d’insieme” — alla capacità di connettere i dati acquisiti, di sintesi —
scopriremo dell’altro.
Riportiamo alcune informazioni apprese attraverso la lettura del prezioso “Arte e
Zodiaco. Storia, misteri e interpretazioni dei segni zodiacali nei secoli” di Stefano Zu
e Alessandra Novellone.
«Nelle corti tardogotiche (dove i segni zodiacali arrivano per no sulle carte da gioco,
come quelle realizzate da Andrea Mantegna per gli svaghi dei Gonzaga, signori di
Mantova) l’astronomo aveva un ruolo centrale nella vita quotidiana del signore e
anche nell’orientamento politico e militare della dinastia: sembra che il duca di Ferrara
Lionello d’Este fosse ossessionato dall’oroscopo al punto da indossare ogni giorno
della settimana un abito di colore diverso, in diretto rapporto con i pianeti e le divinità
zodiacali. Proprio a Ferrara viene eseguito intorno al 1470 il più straordinario ciclo di
a reschi zodiacali del XV secolo: il salone dei Mesi nel Palazzo Schifanoia».32
32
Zu S., Novellone A., Arte e Zodiaco. Storia, misteri e interpretazioni dei segni zodiacali nei secoli, Sassi Ed., 2009, p.
34.
31
Ora sappiamo qualcosa: nella corte dei Gonzaga, la famiglia di Elisabetta,
l’astronomo, e astrologo, aveva un ruolo centrale; nella corte ferrarese (Elisabetta
Gonzaga muore a Ferrara) della duchessa di Mantova, Elisabetta d’Este, cognata e
grande amica di Elisabetta Gonzaga, «viene eseguito intorno al 1470 il più
straordinario ciclo di a reschi zodiacali del XV secolo».
Possiamo aggiungere che:
«Nel Cinquecento, nello stesso periodo del grande successo dello zodiaco nella
cultura artistica romana, anche Milano [...] e a Mantova (a reschi nella sala dello
Zodiaco di Palazzo d’Arco, cicli astrologici di Palazzo Ducale e di Palazzo Te, dipinti
rispettivamente da Lorenzo Costa il Giovane e da Giulio Romano) vedono la
realizzazione di serie di scene astrologiche di grande complessità e ricchezza. Palazzo
Te, la straordinaria “villa di delizie” progettata e decorata da Giulio Romano per
Federico Gonzaga, è uno scenario privilegiato per osservare gli sviluppi della cultura
astrologica nel pieno Cinquecento, e per veri care i complicati intrecci simbolici con
la letteratura classica, con rari e poetici miti, con riferimenti al potere, all’araldica e al
destino della famiglia egemone».33
Abbiamo il diritto di dire, senza paura di essere smentiti, che è probabile che
Elisabetta abbia sentito parlare di oroscopi e scorpioni.
Accantoniamo l’ironia, continuiamo la nostra lettura:
«Il recupero approfondito e aggiornato della cultura classica che caratterizza il
rilancio intellettuale del Quattrocento, soprattutto in Italia, si misura anche con
l’approfondimento e lo sviluppo di temi zodiacali, e di una loro rilettura in chiave
colta, sempre in riferimento alla trattatistica antica, alla mitologia, o, di nuovo, con la
religione cristiana rivisitata e rinnovata alla luce del neoplatonismo. Uno dei luoghi
più preziosi in tal senso è il Tempio Malatestiano a Rimini».34
Potrebbe essere interessante aggiungere che la moglie di Gianfrancesco Gonzaga,
primo marchese di Mantova, era Paola Malatesta e che Sigismondo Pandolfo
Malatesta, committente del tempio, sia stato scon tto dal suocero di Elisabetta,
Federico da Montefeltro, il duca d’Urbino. Leggiamo, nello speci co, consultando la
Treccani, che Federico da Montefeltro, il padre di Guidobaldo, il marito di Elisabetta,
33
34
op.cit., 46.
op.cit., 38.
32
«al culmine del successo, nel 1466, ebbe allora il comando della lega italica [...] Negli
anni successivi contrastava le mire espansionistiche dei papi, contro i quali difendeva
anche i superstiti domini dei Malatesta, e per la vittoria di Mulazzano (30 ag. 1469)
riusciva ad assicurare a Roberto, successore (1468) di Sigismondo Pandolfo, il
possesso di Rimini; a Sisto IV imponeva in ne il riconoscimento giuridico del suo
stato, ch'egli aveva ormai reso con le armi tre volte più grande, ricevendone il titolo di
duca (1474)».35
So ermiamoci ora non su Elisabetta e sul suo rapporto con lo zodiaco ma sopra un
secondo personaggio, decisamente illustre. L’uomo conosceva bene la duchessa,
amava l’arte di Ra aello e aveva una grande fede, in particolare nello zodiaco e più
precisamente nello Scorpione: Giulio II, il ponte ce.
35
“Federico da Montefeltro duca di Urbino”, Enciclopedia Treccani [online]
33
G.M.Falconetto, Sala dello zodiaco, Mantova, 1520.
34
Lo Scorpione di Ra aello per Giulio II
Leggiamo qualcosa di poco conosciuto, molto importante, forse determinante per la
nostra ricerca; gli storici dell’arte che non conoscono la famiglia Gonzaga o gli storici,
studiosi, che non hanno con denza con la produzione di Ra aello saranno alquanto
sorpresi.
«Nella Stanza della Segnatura, Ra aello rappresenta il cielo di Roma al momento
dell’elezione al soglio ponti cio di Giulio II, avvenuta tre ore dopo il tramonto del 31
ottobre 1503, sotto la costellazione dello Scorpione. Si tratta del momento di
massimo successo dell’astrologia nella cultura occidentale: all’apogeo del
Rinascimento, il papa, il capo della Cristianità, era talmente ducioso nei pronostici
delle stelle da aver rimandato più volte la sua incoronazione perché essa avvenisse in
un momento favorevole e di buon auspicio».36
Ra aello Sanzio, Volta della Stanza della Segnatura, Palazzi Vaticani
36
Zu e Novellone, op.cit., p.43.
35
Il fatto è di per sé straordinario ma, se aggiungiamo qualche tassello, la storia si
in ttisce e si correla sempre più al mondo di Elisabetta.
È stato ipotizzato che il ritratto della duchessa dipinto da Ra aello sia del 1504.
Sappiamo non solo che il papato di Giulio II ha inizio sotto il segno dello Scorpione,
il 31 ottobre del 1503, ma che lo stesso papa succede ai principali nemici del duca
d’Urbino, Alessandro VI e suo glio, Cesare Borgia. Proprio grazie a Giulio II
Guidobaldo ed Elisabetta potranno tornare al potere. Esiste un fatto ancora più
chiaro, esplicito che possa mettere in relazione i duchi con il nuovo ponte ce? Sì, il
suo viaggio ad Urbino.
36
Il viaggio di Giulio II a Urbino e i gioielli di
Elisabetta d’Este
Giulio II, il 25 settembre 1506 si recherà ad Urbino: i duchi Guidobaldo ed
Elisabetta Gonzaga dovettero quindi prepararsi all’evento. Leggiamo attentamente.
«Elisabetta frattanto a darsi un gran da fare per ricevere degnamente l’ospite
eminente. Il 20 agosto essa presa Isabella [Isabella d’Este, marchesa di Mantova] a
compiacerla “de qualche paramento (..) er acciò che io possa ornare più me sia
possibile la camera del Ponte ce”. (...). Prestò anche delle gioie, poiché il 15 ottobre
Elisabetta le rimanda “le perle grosse er le altre sue” delle quali dice di essersi “con gran
mia satisfactione servita”». 37
Elisabetta Gonzaga, infatti, da anni,
«aveva scarsezza di denaro. Da lettera del 22 febbr. 1503 alla Marchesa si apprende
che aveva quasi tutte le gioie impegnate».38
Giulio II, il papa che domandò (prima del 1508) a Ra aello (di Urbino) di a rescare
un cielo sotto la costellazione dello Scorpione, è ospite nella corte di Elisabetta
Gonzaga, la duchessa (di Urbino) ritratta dallo stesso artista con una lenza a cui è
appeso uno scorpione. Elisabetta Gonzaga chiede in prestito dei gioielli alla cognata,
marchesa di Mantova, Isabella d’Este; Isabella, nella sua collezione, come già indicato,
possiede «un diaspis verde macchiato di rosso con una testa di cavo de diritto e lettere
grece e da reverso un scorpione col letto et cathenina d’oro»39, gioiello presente
anche nell’inventario dei beni Gonzaga del 1540-1542. Alla luce di quanto letto
sembra che lo zodiaco possa e debba interessarci. Continuiamo la nostra ricerca, c’è
ancora molto da scoprire.
37
Luzio A, Renier R, Mantova e Urbino: Isabella d'Este ed Elisabetta Gonzaga nelle relazioni famigliari e nelle vicende
politiche, Torino-Roma, L.Roux & C Editori, 1893, p.172.
38
op.cit., 147.
39
Luzio, Alessandro, Isabella d'Este e il sacco di Roma, Cogliati, 1908, p. 167.
37
Scorpione: il mito di Orione
Naturalmente, come spesso accade, esistono più versioni di un mito. A quale
a darsi? Abbiamo prove che i Gonzaga possedessero molti testi di Virgilio e che a
Mantova vi fosse una venerazione per il loro illustre concittadino40; lo segnalo per chi
volesse approfondire gli studi in tal senso.
Per avere una visione d’insieme utile alla nostra ricerca ricordiamo unicamente che
Orione fu
« gura mitica, impersonante, presso i Greci antichi, l'omonima costellazione, una di
quelle che più brillano nel cielo, quando non lo illumina il fulgore degli astri
maggiori, il Sole e la Luna (identi cati con Apollo e Artemide). Lo si ra gurò come
un gigante enorme, armato di una pesante clava o di una lunga spada; si narrò che Eos
(l'Aurora) s'era presa d'amore per la sua straordinaria bellezza, nché Artemide, per
volere degli dei, l'aveva ucciso con le sue frecce in Ortigia»,41
e che
«in tutte le versioni della morte di Orione, il ruolo di Artemide è importante. Morì
per aver osato s dare la dea al lancio del disco, oppure perché aveva usato violenza ad
Opide, secondo lo Pseudo-Apollodoro, o ancora, perché mentre uccideva le belve che
infestavano Chio cercò di usare violenza alla stessa Artemide che lo uccise per mezzo
di uno scorpione. La versione è riportata nel Phenomena di Arato; Ovidio ritrae il
gigante nel tentativo di salvare Latona (madre di Artemide) dall'animale, mentre Igino
ed Eratostene riportano invece la versione per cui Orione si vantava con Artemide e la
stessa Latona di essere il più abile cacciatore. Comunque, in tutte e tre le versioni, la
Terra fece uscire uno scorpione da una spaccatura nel terreno che lo punse a morte. A
questo punto Orione e lo scorpione furono sistemati su lati opposti del cielo, in modo
che mentre lo Scorpione sorgeva ad est, Orione fuggiva sotto l'orizzonte a ovest.
"L'infelice Orione teme ancora di essere ferito dal pungiglione velenoso dello
scorpione", notava Germanico Cesare.
40
41
Braghirolli W, Virgilio e i Gonzaga, Mantova, Stab. tip. Mondovi, 1883.
Giannelli, Giulio, “Orione”, Enciclopedia Treccani, 1935.
38
Piccolomini scrive a riguardo: "Giove dunque, per lasciar memoria ai mortali di
quanto spesso nuoccia il con darsi troppo in se medesimo, il vittorioso scorpione nel
Ciel collocò". Pertanto, "per rispettare i di erenti punti di vista dei contedenti, gli
antichi posero il velenoso animale ben lontano da Orione». 42
Annotiamo: “Uno scorpione, per conto di Artemide (Diana), uccise Orione; Aurora
era innamorata del giovane cacciatore”. Ci sarà utile.
Leone Leoni, Ippolita Gonzaga.
Diana, Pluto, Proserpina e Cerbero, 1551 [copia], Metropolitan Museum.
42
Santinelli, Alessio, “Mitologia delle Costellazioni. Orione: l'uomo, il mito, la storia”, Osservatorio Astronomico di
Ancora [Sito web], 2010.
39
Urbino e lo Scorpione: il segno della capitale
Mi espongo per evitare equivoci: chi scrive non crede nel potere degli astri. Una
seconda informazione, certamente più importante: le città hanno un segno zodiacale.
Se il primo dato è del tutto inin uente ai ni della ricerca — forse, per alcuni, è solo
rassicurante — il secondo non lo è a atto. Dobbiamo sapere che, in passato, si
pensava che i luoghi, per vari motivi, vivessero sotto l’in uenza di un segno. Rimini,
dei Malatesta e poi dello Stato Ponti cio, i cui territori con navano con il Ducato
d’Urbino, nel 1613 si pose un problema e lo discusse in un consiglio comunale: la
città era nata grazie ai Romani ma sotto quale segno? Il Cancro, come indica il
bassorilievo nella Cappella dei Pianeti malatestiano, o come indicherebbe la sua
collocazione geogra ca sotto il segno dello Scorpione? Dopo anni di studio Malatesta
Porta diede il suo parere de nitivo: lo Scorpione. La questione era considerata
importante: per la geogra a astrologica di origine tolemaica si sarebbe potuto dedurre
l’indole dei suoi abitanti. Nel ‘200 Guido Bonatti da Forlì — il docente
dell’Università di Bologna condannato da Dante nella Commedia —, astrologo di
ducia del Conte d’Urbino Guido da Montefeltro, pare abbia riferito:
«“Lo Scorpione signi ca generosità ed elevazione di animo”, gli riconosce una forte
carica energetica, grazie alla domi cazione del pianeta Marte in questo Segno e delle
immense forze istintuali e naturali; incute una sorta di timore proprio come l’animale
che sorge all’improvviso dal sottosuolo, dall’oscurità e dalle viscere della terra,
connotandolo come qualcosa di temibile e che agisce nell’ombra ».43
La nostra ricerca, purtroppo, impone una veri ca: la duchessa d’Urbino ha vissuto in
luoghi sottoposti allo Scorpione? È una domanda che risulta eccessiva, forse assurda
agli occhi del contemporaneo; in e etti sembra che nessuno prima d’ora se la sia
posta. Non possiamo eluderla, però, siamo alla corte dei Montefeltro. Accettiamo il
problema e cerchiamo una soluzione. Dove veri carlo? I settimanali in edicola non
sono il luogo più adatto, La sfera geografico-celeste, del 1700, di Marc'Antonio
Guigues, ecclesiastico francese, sembra più appropriata. Roma e Mantova sono sotto
il segno del Leone. E Urbino, la città di cui è duchessa Elisabetta, la signora dello
43
“Scorpione o Cancro? La disputa secolare sul segno zodiacale di Rimini”, Newsrimini [sito web].
40
scorpione? È dominata dal segno dello Scorpione44: un altro fatto fortunato o, forse,
con il suo 1/12 di probabilità, sospetto.
Marc’Antonio Guigues, La Sfera geografica-celeste
44
Guigues, Marc’Antonio, La Sfera geografico-celeste, Roma, 1700, p. 262.
41
L’olio di scorpione e la peste
Questo studio, come detto più volte, desidera raccontare, rivelare i signi cati dello
scorpione di Elisabetta Gonzaga. Tutte le informazioni sull’animale e le sue
innumerevoli ra gurazioni sono utili a tale scopo, è evidente. Per raccoglierle e
utilizzarle adeguatamente, tuttavia, non sarebbero su cienti poche pagine ed un
unico ricercatore; dobbiamo accettarlo. Mi sono concentrato su vari aspetti
dell’animale ma non ho mai perso di vista la proprietaria dell’animale-gioiello: la
duchessa. Riporto in questo capitolo una curiosità molto stimolante.
In età medievale e durante il Rinascimento si produceva l’olio di scorpione. Il
prodotto aveva diverse proprietà. Se è piuttosto intuitivo comprenderne la prima,
curare le ferite di una loro puntura, è sorprendente scoprire come l’olio “possa
curare” i calcoli ed altri mali. Alcuni storici, per questo, hanno visto nello scorpione
di Elisabetta un talismano: la sua virtù sarebbe stata proteggere il possessore dalla
peste. Altri studiosi45 non sembrano essere d’accordo: le prove, a dir loro, non
sarebbero su cienti. In verità ho potuto veri care che nel XVI secolo il (supposto)
potere curativo e amuletico dello scorpione contro la peste era conosciuto46:
l’opinione dei primi ricercatori — posso a ermarlo — non è arbitraria. Sebbene la
loro tesi non sia facilmente confutabile devo confessare che, solo per una questione di
natura logica, non posso condividerla pienamente. I miei dubbi sono semplici, simili
ad altri già espressi47. Sono principalmente i seguenti: per quale motivo Elisabetta
avrebbe scelto di farsi ritrarre con un amuleto così particolare, che attrae l’attenzione
dell’osservatore? La duchessa, è vero, potrebbe averlo indossato per la sua forza
magica ma perché chiederne una riproduzione? La ra gurazione di amuleti non è
infrequente ma il ritratto di Elisabetta è un chiaro esempio di una rappresentazione
di potere e lo scorpione primeggia sulla sua fronte; perché dare un ruolo così centrale
ad un amuleto? Sono domande aperte, spontanee; qualora ci fossero risposte precise
sarà un piacere rivedere le mie posizioni e abbracciare questa tesi con più
convinzione.
Cohen, Simona, op.cit., p.445 [nota 103].
Mattioli, Pietro Andrea, I Discorsi ne i sei libri della materia medicinale di P. Dioscoride, 1555, pp.176-177.
47
Si veda il paragrafo “Talismano o amuleto” nel capitolo “L’impotenza di Guidobaldo da Montefeltro e lo Scorpione”.
45
46
42
Ad ogni modo, sappiate che
«esso olio riuscire bonissimo in risolvere le pietre delle reni e della uesica, contra molti
veleni, e contra la cruda e orrenda pestilenza, come recita il Manardo da Ferrara».48
Segnalo un ultimo dato: è una coincidenza che sorprende, incuriosisce. Vi era una
corte italiana specializzata nella produzione di questo pregiato olio: era Mantova, la
città di Elisabetta, la duchessa dello scorpione.
Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi ne i sei libri della materia medicinale di P. Dioscoride.
48
Borgarucci, Prospero, La Fabrica de gli spetiali, partita in XII distintioni, Vincenzo Valgrisio, 1567, p.790.
43
La Fondazione di Mantova e la Morte
Sappiamo da più fonti che la consorte di Guidobaldo, Elisabetta, la dama con lo
scorpione, fu sempre considerata non solo la duchessa di Urbino ma anche la
“duchessa Gonzaga”,
glia e sorella dei marchesi di Mantova. Conosciamo un
secondo fatto: altri Gonzaga, lo vedremo in dettaglio, usarono lo scorpione come
proprio emblema.
Un dubbio — mai posto prima per l’analisi del ritratto —, un’intuizione; serve
una veri ca, anzi due: qual è l’origine mitologica di Urbino (ricerca obbligatoria),
quale quella di Mantova (per i dati in mio possesso essenziale)? La città dei
Montefeltro sembra non abbia un mito fondativo letterario, riconosciuto poiché si
sviluppò con ritardo rispetto alle città vicine.49 L’origine di Mantova, al contrario,
sembra ne abbia almeno due: entrambe sono molto a ascinanti.
49
Naturalmente, se smentito, avrò il piacere di approfondire il tema e, se possibile, scoprire inedite correlazioni tra
Urbino e lo scorpione di Elisabetta Gonzaga.
44
La tebana Manto
Manto, glia di Tiresia, abbandona la Grecia e giunge in Italia. La donna eredita dal
padre le capacità di predizione del futuro50. A questo punto abbiamo due versioni
dello stesso mito. La prima: Manto stessa fonda la città di Mantova. La seconda:
Manto approda nel Lazio, si congiunge con Tevere e partorisce Ocno ( o Bianore);
quest’ultimo fonda Mantova a cui darà il nome della madre. Mi scuso per aver
riportato il mito così brevemente, senza alcuna poesia; ci a deremo a Boccaccio per
questa. Nel suo De mulieribus claris il poeta ci svela che Bianore edi cò Mantova
presso la tomba della propria madre.
Le sue parole:
Manto, gliuola di Tiresia, somma in divinazione a Tebe, fu famosa al tempo di Edipo
re, e de’ gliuoli. Questa, sotto magistero di suo padre, fu di pronto e di sì grande
ingegno, che ella imparò nobilmente Piromanzia, trovata prima dai Caldei, e secondo
alcuni da Nembrotto, intanto che al suo tempo niuno conosceva meglio lo
movimento delle amme, lo calore e il mormorare delle quali dicono che sono
dimostrazioni nelle cose future: non so per che diabolica opera ancora che conobbe
con sottile guardare le vene delle pecore, le interiora di ciascuno animale. Secondo che
fu creduto ispessissime volte con sua arte convocò i spiriti maligni, e le anime dello
Inferno, dare voce e rispondere a quelli che domandavano. [...] In quel tempo e luogo
edi cò lo nuovo tempio, famoso per augurj del Clarico Apollo, e partorì Mosso,
glorioso astrologo al suo tempo, benchè gli antichi non ne scuopron di chi ella lo
generasse. Ma alcuni hanno detto altrimenti [...] E dappoi pervenne in Gallia
Cisalpina, dove trovando luoghi paludosi, forti per sua natura al lago Benaco,
acciocchè ella potesse vacare più liberamente ai suoi male cj, ovvero condurre lo resto
di sua vita con più sicurtà nel mezzo della palude, pose sua sedia in la terra levata
dall’acqua; e dopo, alcuno tempo in quel luogo morì e fu seppellita. Alcuni dicono
che suo gliuolo edi cò una città, e per nome di sua madre la chiamò Mantova.
Alcuni pensano, che ella in no alla morte con fermo proposito conservò verginità. E
era certamente famosa e santissima opera, e sommamente laudabile, se ella non l’avesse
bruttata con le sue scellerate arti, e se ella l’avesse salvata al vero Iddio, al quale si dee
conservare la verginità.51
50
Il nome “Manto” sarebbe da relazionare con la parola greca μαντεία, mantéia: predizione.
Tosti, Luigi, Volgarizzamento di Maestro Donato da Casentino dell'opera di Messer Boccaccio De claris mulieribus,
rinvenuto in un codice del XIV secolo dell'Archivio cassinese, 2° ed., Milano, Giovanni Silvestri, 1841, pp.141-143.
51
45
Diligentemente — potrebbe esserci utile — annotiamo sul nostro taccuino:
“Manto convoca le anime dell’inferno”;
“Ebbe forse un altro glio: l’astrologo Mosso”;
“Mantiene la propria verginità” e
“Il glio (Ocno) di Manto fondò Mantova sulla tomba della propria madre”.
Il sommo Virgilio, poeta mantovano, nel canto decimo dell’Eneide ce lo conferma:
Mentre Troiani e Rutuli combattevano un'aspra battaglia, Enea nella notte solcava
l'onde del mare. [...] Lo seguono mille guerrieri in le serrate, spinose di lance: [...]
Segue Ocno che guida dalle rive paterne un esercito. Ocno glio del ume etrusco e di
Manto indovina. Ocno che ti fondò, Mantova, e che ti diede il nome di sua madre.
Mantova è una città dai molti antenati, non tutti della medesima gente: in essa ci sono
tre stirpi, ognuna divisa in quattro popoli; e tante tribù son dominate da quella che
trae le sue forze dal sangue etrusco. 52
Aggiungiamo ai nostri appunti:
“Ocno è etrusco”, “Mantova ha molti antenati”, il sangue (pieno di forza) di molte
sue tribù è etrusco”.
Elisabetta ha letto Dante. Abbiamo riletto Boccaccio e Virgilio; che cosa aggiunge il
poeta orentino?
Manto fu, che cercò per terre molte; poscia si puose là dove [io, Virgilio] nacqu’io;
onde un poco mi piace che m’ascolte. Poscia che ‘l padre suo di vita uscìo e venne serva
la città di Baco, questa gran tempo per lo mondo gio. Suso in Italia bella giace un laco,
a piè de l’Alpe che serra Lamagna sovra Tiralli, c’ha nome Benaco. Per mille fonti,
credo, e più si bagna tra Garda e Val Camonica e Pennino de l’acqua che nel detto laco
stagna. Loco è nel mezzo là dove ‘l trentino pastore e quel di Brescia e ‘l veronese
segnar poria, s’è fesse quel cammino. Siede Peschiera, bello e forte arnese da
fronteggiar Bresciani e Bergamaschi, ove la riva ‘ntorno più discese. Ivi convien che
tutto quanto caschi ciò che ‘n grembo a Benaco star non può, e fassi ume giù per
verdi paschi. Tosto che l’acqua a correr mette co, non più Benaco, ma Mencio si
chiama no a Governol, dove cade in Po. Non molto ha corso, ch’el trova una lama, ne
52
Virgilio, Aen., l., X.
46
la qual si distende e la ‘mpaluda; e suol di state talor esser grama. Quindi passando la
vergine cruda vide terra, nel mezzo del pantano, sanza coltura e d’abitanti nuda. Lì,
per fuggire ogne consorzio umano, ristette con suoi servi a far sue arti, e visse, e vi
lasciò suo corpo vano. Li uomini poi che ‘ntorno erano sparti s’accolsero a quel loco,
ch’era forte per lo pantan ch’avea da tutte parti Fer la città sovra quell’ossa morte; e per
colei che ‘l loco prima elesse, Mantüa l’appellar sanz’altra sorte.53
Appuntiamo:
“Manto vergine” e “Fer la città sovra quell’ossa morte; e per colei che ‘l loco prima
elesse, Mantüa l’appellar sanz’altra sorte”.
Ci domandiamo con un sorriso: “Come appuntare Dante diversamente?”.
53
Dante, Inf. XX, 55-93.
47
L’etrusco Mantus
Virgilio non fu il solo a svelare le origini etrusche di Mantova. Lo storico romano di
età augustea, Aulo Cecina, proporrà un secondo mito: la città sarebbe stata fondata
da Tarconte che avrebbe consacrato Mantova a Dis Pater, noto anche come Mantus.
«Mantuam autem ideo nominatam, quod Etrusca lingua Mantum Ditem patrem
appellant».54
Il grammatico Servio Mauro Onorato confermerà il legame tra Mantova e Mantus
nel commentare l’Eneide di Virgilio.55
Il mito fondativo di Mantova in correlazione con il dio etrusco Mantus apporta
qualcosa al nostro discorso, ci aiuta nello svelare il signi cato dello scorpione di
Elisabetta? Forse sì. Mantus e sua moglie Mania erano dei dell'oltretomba.
Per saperne di più, come sempre, ci a diamo agli esperti:
Etrusco Mantu, fu scorto nel nome della città di Manthva, Mantua; Servio dice
Mantus epiteto di Dispiter (ad Aen., X, 198): la notizia torna negli Scholia Veronensia
che citano Caecina. La Fiesel vi scor se acutamente un nome generico per designare il
dio della morte (PW, s.v. Mantus). Mania, come designazione etrusca di Persefone, ha
l’autorità di Varrone, da riconnettere con i latini Manes. Mantus corrisponde ad
accadico màtum (morire, “to die”, “to cause thè dead”); Mania, Persefone, è
“l’amabile”, nome eufemi stico che deriva da base corrispondente ad accadico tnanu,
menù (amare, “to love”).56
Serv., Ad. Aen. X, 198.
Servio, Commento all'Eneide 10.199.
56
Semerano, Giovanni, Il popolo che sconfisse la morte, Milano, Bruno Mondadori, 2003, p.107.
54
55
48
Manto, Mantus e lo scorpione
Rileggiamo i nostri appunti: Manto convoca le anime dell’inferno; ebbe forse un
altro glio: l’astrologo Mosso; Manto mantiene la propria verginità; suo glio Ocno
fondò Mantova sulla sua tomba; Ocno è etrusco; molte tribù di Mantova hanno
sangue etrusco; “Fer la città sovra quell’ossa morte; e per colei che ‘l loco prima elesse,
Mantüa l’appellar sanz’altra sorte”. Ci accorgiamo di un fatto: la cultura etrusca ebbe
un peso (perlomeno nella costruzione mitica di un’identità collettiva) sul ducato dei
Gonzaga. Sappiamo anche dell’altro: tutti i miti fondativi di Mantova relazionano la
città alla morte e i personaggi principali comunicano con i morti (Manto) o ne sono
addirittura i sovrani (Mantus, assimilabile a Plutone). Forse non è un caso:
ricordiamo che gli Etruschi sono “il popolo che scon sse la morte”57e che il loro
straordinario rapporto con l’oltretomba è ampiamente conosciuto e studiato. Vorrei
aggiungere un dato.
[La festa etrusca] Samhain, o Trinox Samoni, [è] Festa (...) della Luce, ma calante,
quindi festa della Morte. Si celebravano i defunti. Il sole ha in questo periodo (...) una
declinazione di (...). [Il suo] Segno zodiacale [è lo] Scorpione.58
Non ho gli elementi necessari per dimostrare alcunché ma non mi sorprenderebbe
leggere degli studi nei quali la gura dello scorpione è associata a Manto, Mantus o
alla capitale del ducato. Qualora ve ne fossero e tale legame fosse dimostrato, la lenza
di Elisabetta e lo scorpione dei Gonzaga potrebbe alludere al passato etrusco di
Mantova, la città di Virgilio, dell’Orfeo e della luce calante.
57
58
Si veda nota precedente.
Baldini, Antonella, Astrologia degli Etruschi. [Articolo online. Sito Academia.edu]
49
Lo scorpione nei libri di Elisabetta
Abbiamo illustrato molto super cialmente — purtroppo non possiamo
approfondire — i concetti di emittente (chi manda il messaggio) e ricevente (chi lo
riceve). Già nell’individuazione dei protagonisti della nostra “comunicazione visiva”
notiamo che esistono delle insidie. Ci interroghiamo: «Siamo certi che l’emittente sia
il solo Ra aello? Siamo sicuri che Elisabetta Gonzaga sia stata una ricevente, che lei
stessa non abbia voluto quello scorpione, non abbia partecipato alla formazione del
messaggio (la codi ca), non sia l’arte ce del nostro “testo visivo”? Inoltre: noi
partecipiamo a questo gioco o i destinatari del messaggio, coloro i quali devono
decodi carlo, sono unicamente le donne e gli uomini del Rinascimento?».
Sono domande complesse a cui non dobbiamo rispondere subito; le pongo solo
per mostrare la di coltà del lavoro e ricordare, ricordarmi, che è facile cadere in
errore. Occupiamoci ora del contesto nel quale lo scorpione della duchessa ha preso
vita: Urbino, una delle più importanti capitali del Rinascimento italiano. Era un
ambiente chiuso? Non proprio, abbiamo visto che condivideva saperi e protagonisti
perlomeno con le corti di Mantova, Ferrara e quella papale. Non parleremo qui dei
contatti con Venezia, Milano o Vienna, non ne abbiamo la capacità e il tempo.
“Studiamo il contesto” dicevamo. Partiamo da un punto di partenza: alla corte di
Elisabetta non si guardava la televisione o si navigava in internet. È una frase sciocca,
ovvio, ma ci permette di stabilire un fatto, ci suggerisce un percorso: lo
scorpione-gioiello della duchessa, di cui non abbiamo riscontrato precedenti nelle arti
gurative, potrebbe aver preso forma in un libro.
50
Baldassare Castiglione, Pietro Aretino e
e la S sulla fronte di Elisabetta
Le Gallerie degli U zi, nella presentazione pubblica e online dell’opera, ci informano
che
«il monile è stato interpretato talvolta come simbolo amoroso, in relazione alla lettera
S che la duchessa ostenta in uno dei dialoghi del Cortegiano».59 60
Approfondiamo e, se possibile, leggiamo la fonte primaria, l’opera di Baldassare
Castiglione, nella quale Unico Aretino domanda "che signi chi quella lettera 'S' che
la signora Duchessa porta in fronte".
Lorenzo Bonoldi e Monica Centanniintegrano brillantemente le nostre (forse) scarse
informazioni e ci segnalano che
«nel corpus degli scritti di Aretino si conservano due sonetti sul tema della 'S'. Uno di
questi potrebbe quindi essere quello a cui si fa riferimento nel testo del Cortegiano.
Per segno del mio amor nel fronte porto
un S, qual dinota ogni mio stato
e così varia il suo signi cato
come vario il martir, come il conforto.
Consenti, o mar di bellezza e virtute,
ch’io, servo tuo, sia d’un gran dubbio sciolto,
se lo S che porti nel candido volto
signi ca mio stento o mia salute,
Quando avvien ch’io riceva inganno o torto
signi ca questo S sconsolato,
sangue, stratio, sudor, suplitio e strato,
spiacer, stento, sospir, sdegno e sconforto.
se dimostra soccorso o servitute,
sospetto o sicurtà, secreto o stolto,
se speme o strido, se salvo o sepolto,
se le catene mie strette o solute.
Ma di poi mostra di soccorso segno,
s’avvien ch’in qualche parte il martir mute,
soave servitù, speme e sostegno.
Ch’io temo forte che non mostri segno
di superbia, sospir, severitate,
stratio, sangue, sudor, suplicio e sdegno.
Quando son poi fra ‘l danno e la salute
sospetto mostra al mio viver indegno,
soluto e stretto e sciolto in servitute.
Ma se loco ha la pura veritate,
questo S dimostra con non poco ingegno
un sol solo in bellezza e ‘n crudeltate. [»]61
59
Bisceglia, Anna, op.cit.
op.cit. Luzio A, Renier R, 1893, pp. 260-263.
61
Bonoldi L., Centanni M., “Catena d'onore, catena d'amore: Baldassarre Castiglione, Elisabetta Gonzaga
e il gioco della 'S'”, Engramma, La Rivista di Engramma. La tradizione classica nella memoria occidentale, 86, dic.
2010.
60
51
I due studiosi, tuttavia, reputano che
«in realtà nessuno dei due sonetti di Aretino sta al gioco, ovvero risponde puntualmente
alla domanda formulata nel testo del Cortegiano».62
Confesso in tutta onestà che i versi
“se lo S che porti nel candido volto/ signi ca mio stento o mia salute, /se dimostra soccorso
o servitute [(...)] / questo S dimostra con non poco ingegno/un sol solo in bellezza e ‘n
crudeltate”.
non mi appaiono del tutto sconnessi alla già citata domanda del Cortegiano (“che
signi ca quella lettera 'S' che la signora Duchessa porta in fronte?”); condivido invece
l’opinione (sempre di Centanni e Bonoldi) per la quale
«resta dunque segreto, tutto da decifrare, il signi cato della 'S' di Elisabetta Gonzaga».63
Esiste una descrizione più esplicita di un gioiello con le fattezze di uno scorpione
posto sulla fronte di una donna nella letteratura latina o italiana? Mi sono posto
questa domanda e, con sorpresa ed emozione, posso rispondere in maniera (penso)
inedita: sì, in Dante Alighieri. Scopriamolo insieme.
62
63
Ibid.
Ibid.
52
L’Aurora di Dante
e il suo scorpione-gioiello sulla fronte
La rilettura della Commedia di Dante o re sempre sorprese. Siamo alla ricerca di una
gura femminile con un gioiello a forma di scorpione; nello speci co il gioiello deve
decorarle la fronte. Non abbiamo trovato un solo esempio, un precedente nelle arti
gurative. Con nostra sorpresa, però, grazie al canto IX del Purgatorio, scopriamo
che
«La concubina di Titone antico / già s’imbiancava al balco d’orïente, / fuor de le
braccia del suo dolce amico; / di gemme la sua fronte era lucente, / poste in gura
del freddo animale che con la coda percuote la gente; / e la notte, de’ passi con che
sale, / fatti avea due nel loco ov’ eravamo, / e ’l terzo già chinava in giuso l’ale;
(...)».64
Non vogliamo cadere in false illusioni, suggestioni, e veri chiamo come vengono
interpretati questi versi da esperti in materia. In La Commedia Purgatorio, a cura di
Bruscagli e Giudizi, leggiamo:
«1-12 È notte: Dante si addormenta Nell’emisfero boreale stava facendo giorno.
L’Aurora, l’amante del vecchio Titone (un tempo bellissimo, aveva ottenuto dagli dei
l’immortalità, ma non l’eterna giovinezza) già appariva candida sull’orizzonte verso
oriente, mentre la regione del cielo di fronte a lei (la sua fronte) si adornava di gemme
brillanti, disposte nella gura dello Scorpione (il freddo animale che con la coda
percuote la gente). Nell’emisfero invece dove ci trovavamo, quello australe, era buio.
La notte infatti aveva già fatto due dei passi con cui sale in cielo, e il terzo passo già
chinava giù le ali, era a ne (era la terza ora di notte e quindi, contando dal tramonto,
erano le nove della sera)».65
Dante Alighieri — crediamo di poterlo dire — ha ideato per Aurora un nuovo
attributo iconogra co66: un gioiello-scorpione posto sulla fronte. È una piccola
Dante, Purg. IX, 1-9.
Dante trae diretta ispirazione da Virgilio: Eneide IV, 584-585 e Eneide IX, 459-460
65
Bruscagli R., Giudizi G. (a cura di), Commedia, Purgatorio, Bologna, Zanichelli editore, 2012, p.449.
66
Date le nalità educative, divulgative, non solo scienti che, ricordiamo la voce “attributo” dell’ Enciclopedia
Treccani (di A. Brelich - Enciclopedia dell' Arte Antica, 1958): «Nel senso più ristretto, “attributo” è un elemento
iconogra co che regolarmente o frequentemente è presente nelle ra gurazioni di un determinato personaggio divino o
eroico. Può essere un oggetto (la dava di Eracle, la lyra di Apollo, la accola di Ecate) o un animale (aquila di Zeus,
64
53
scoperta che ci fa sorridere, se sensibili emozionare. Riprendiamo il lavoro. Ci sono
delle relazioni tra la gura di Aurora e quella di Elisabetta? Per quale motivo tale
coincidenza dovrebbe indurci a pensare che lo scorpione di Elisabetta ha a che fare
con quello di Dante, con il gioiello “indossato” dalla dea dalle dita di rosa67?
Lo vedremo meglio parlando di araldica e delle imprese di casa Gonzaga.
Un’anticipazione: Ippolita Gonzaga, con il motto “precorritrice di virtù e bellezza”,
VIRTVUTIS·FORMA[/]EQ[ue]PR[/]EVIA, sceglie proprio la gura di Aurora come
sua impresa personale.
Ragioniamo, ripetiamo di nuovo i dati in nostro possesso: Ippolita, glia di
Ferrante I Gonzaga di Guastalla ( il nipote di Elisabetta Gonzaga, glio del fratello e
Isabella d’Este) ha per impresa la divinità Aurora; Dante Alighieri crea per la dea
l’attributo iconogra co68 dello scorpione-gioiello sulla fronte; Elisabetta Gonzaga, nel
ritratto di Ra aello nel cui sfondo si rappresenta un’aurora, indossa — sempre sulla
fronte — uno scorpione. Aggiungiamo un ultimo dato. Anche Baldassare
Castiglione, l’umanista e amico della corte di Elisabetta, ebbe un’impresa; la sua
gura
“naturalmente”
era
Aurora;
il
motto
ad
essa
associato
fu
TENEBRARUM·ET·LUCIS.
civetta di Atena) o una pianta (edera, vite di Dioniso, melagrana di Persefone). Dal periodo ellenistico in poi (...) il
signi cato degli a. nell'iconogra a si riduce press'a poco a quello di segni di riconoscimento; tanto è vero che anche
gure artisticamente non caratterizzate (per esempio eroti) acquistano personalità divina, unicamente mediante gli a.
che portano. Si di onde, inoltre, sempre di più l'uso degli a. resi indipendenti dalla gura divina stessa che essi, in tal
caso, sostituiscono come loro "simboli" (la cista mystica di Dioniso, il sistro di Iside, ecc.)».
67
Epiteto omerico applicato ad Aurora
68
Nel senso più ristretto, “attributo” è un elemento iconogra co che regolarmente o frequentemente è presente nelle
ra gurazioni di un determinato personaggio divino o eroico. Può essere un oggetto (la dava di Eracle, la lyra di Apollo,
la accola di Ecate) o un animale (aquila di Zeus, civetta di Atena) o una pianta (edera, vite di Dioniso, melagrana di
Persefone). Dal periodo ellenistico in poi (...) il signi cato degli a. nell'iconogra a si riduce press'a poco a quello di
segni di riconoscimento; tanto è vero che anche gure artisticamente non caratterizzate (per esempio eroti) acquistano
personalità divina, unicamente mediante gli a. che portano. Si di onde, inoltre, sempre di più l'uso degli a. resi
indipendenti dalla gura divina stessa che essi, in tal caso, sostituiscono come loro "simboli" (la cista mystica di Dioniso,
il sistro di Iside, ecc.).
54
Abbiamo avuto molte intuizioni, ci siamo permessi di chiamarle “scoperte”.
Divertiamoci, aggiungiamone un’altra. Un testo del 186169 parrebbe svelare chi
concepì le
gure, il corpo dell’impresa di Castiglione (Aurora con due cavalli
a ancata da due genii). Con nostra sorpresa leggiamo un nome: Ra aello.
Giuseppe Torelli, Paesaggi e profili, estratto.
69
Torelli, Giuseppe, Paesaggi e profili, Firenze, Felice Le Monnier, 1861, pp. 258-259.
55
Jacopo Trezzo da Nizzola, Ippolita Gonzaga. Aurora e Pegaso, 1552, Museo del Prado.
VIRTVTIS FORMAEQ · PRAEVIA
56
Lo scorpione attributo, simbolo e segno.
Lo scorpione di Elisabetta è un simbolo, un emblema, protagonista di un’ allegoria…
o è semplicemente un bel gioiello privo di signi cato? Con tutta probabilità ci siamo
posti — o ci saremmo dovuti porre — il problema all’inizio di questa ricerca. Se la
risposta forse appare immediata (personalmente, d’istinto, replicherei “lo scorpione
di Elisabetta è molto particolare, deve avere un signi cato”) la domanda — anche se
mal formulata, lo vedremo — non è banale: di fronte ad un’opera d’arte, e travolti
dall’entusiasmo, infatti, si potrebbe cadere nell’errore di voler decodi care tutto,
anche se privo di signi cato. Senza scomodare la semiologia, ri ettiamo e
comprendiamo immediatamente il pericolo. Chiederci se quello scorpione voglia dire
qualcosa — lo ripetiamo agli altri e una seconda volta a noi stessi — non è stupido.
Giusti chiamolo. Il gioiello ha sempre avuto una funzione sociale; Elisabetta indossa
il gioiello sulla fronte, in un luogo speci co del corpo; lo scorpione è un animale che
nel Rinascimento aveva assunto un signi cato negativo e il suo uso doveva essere
giusti cato, non poteva essere il frutto di una scelta casuale; il ritratto di Stato
richiede
una
particolare
attenzione
proprio
per
la
sua
funzione
politico-comunicativa; ritratti rinascimentali di tali qualità e nati in così ra nate corti
sollecitano uno studio attento del soggetto e di tutti gli oggetti ra gurati: tutto ci
dice che la nostra ricerca ha un senso, lo scorpione di Elisabetta signi ca qualcosa.
Tentiamo ora di fare chiarezza sulla terminologia (volutamente generica ma il più
corretta possibile).
Leggiamo che nel 1803, parlando di un giovane artista, Goethe scrisse a Schelling:
«Se Lei riesce a fargli capire la di erenza tra trattamento allegorico e simbolico sarà il
suo benefattore, dato che attorno a quest'asse ruotano tante cose».
Non mettiamo in dubbio le parole di Goethe e, anche solo per scrupolo, consultiamo
frettolosamente l’etimologia e il signi cato delle due parole.
«Allegoria: dal lat. tardo allegorĭa (m), dal gr. allēgoría, comp. di állēi ‘in altro modo’
e agoréuein ‘parlare’. 1. procedimento retorico per cui un contenuto concettuale viene
57
espresso attraverso un’immagine che rappresenta una realtà del tutto diversa e
autonoma rispetto al contenuto stesso; l’immagine così espressa: l’allegoria della selva
nell’ “Inferno” dantesco 2. quadro o statua che ra gura un’idea astratta;
personi cazione. 3 (...)».70
«Simbolo: dal lat. symbŏlu (m), e questo dal gr. sýmbolon, propr. ‘segno di
riconoscimento’, deriv. di symbállein ‘mettere insieme’, comp. di sýn ‘con, insieme’ e
bállein ‘mettere, gettare’. 1. oggetto, individuo o altra cosa concreta che può
sintetizzare ed evocare una realtà più vasta o un’entità astratta; emblema: il verde è
simbolo della speranza; (....)».71
Scorgiamo — è probabile che la conoscessimo — una di erenza tra i due signi cati
ma notiamo il rischio di confonderli, sovrapporli. Un uomo colto del ‘200 non ci
avrebbe punito: Umberto Eco ci ricorda che per i medievali, a di erenza della
tradizione occidentale moderna, allegoria e simbolo sono sinonimi.72
Continuiamo le nostre letture e scopriamo — o ricordiamo — che l’individuazione
dell’allegoria come un tipo, un genere artistico speci co, è un problema ampiamente
dibattuto dalla critica artistica. Decidiamo di scegliere un punto fermo, d’appoggio, e
ci a diamo ad una buona enciclopedia.
«[SIMBOLO:] Cosa dunque è un simbolo e come può esso nell'arte classica, essere
distinto da un attributo, un emblema, un segno o un’allegoria? Il simbolo de nisce o
rivela aspetti della realtà che non possono essere descritti o esposti in altra forma, e la
forma stessa, isolata e convenzionale è usata in un modo che implica che l'oggetto o
l'immagine dipinta non vale di per se stessa ma rappresenta metaforicamente un
concetto o una credenza più grande cui esso allude. Il passaggio tra questa forma
speciale, o simbolo, ed il suo signi cato, è l'allusione simbolica; la portata e la
complessità della allusione determina se il simbolo è limitato nelle sue funzioni e
perciò diventa segno, emblema, attributo o è esteso e combinato con altri simboli a
formare un'allegoria. La dimensione del riferimento simbolico è poi misurata dalla
distanza concettuale tra l'immagine ed il suo soggetto, e più diretto e categorico è il
riferimento, più limitato è il contenuto simbolico di quella immagine. Così, a seconda
delle circostanze in cui viene usato, il disco dorato può essere considerato segno del
globo solare o attributo di dèi e re, simbolo dell’illuminazione datrice di vita; la sfera
globulare può essere un segno del mondo, un attributo di regalità, un simbolo di
70
71
72
“Allegoria” in Garzanti Linguistica
“Simbolo” in Garzanti Linguistica
Eco, Umberto, Arte e bellezza nell’estetica medievale, 1987.
58
potere temporale; la croce, un segno di Cristo, un emblema cristiano, un simbolo della
Passione. (...).
[SEGNO:] Un segno può essere de nito come un riferimento diretto ad un concetto
molto limitato, un disegno con signi cato chiuso, che serve per comunicare
identi cazioni e semplici distinzioni. [SEGNO:EMBLEMA] Quei segni che
rappresentano entità politiche, sociali e religiose, ed evocano direttamente la cosa, il
corpo o la categoria al posto delle quali essi stanno, sono chiamati emblemi; in
particolare rientrano in questo gruppo disegni monetali, insegne militari e stendardi.
[ATTRIBUTO:] Diversamente dal segno o dall'emblema che può stare da solo,
l'attributo è un segno particolare che ha vita solo in stretta relazione con una gura
divina o umana e ne indica l'identità, la sua storia, il suo potere ed il suo ruolo. Un
attributo, perciò, diventa parte accessoria della rappresentazione stessa, in modo tale
che senza di essa l'identi cazione della gura può essere alterata. Questa associazione è
così stretta che il solo attributo, per esempio la dava o la pelle leonina di Eracle, può
servire ad evocare tutta intera la gura, e così esso esiste autonomamente come segno
del dio e della sua potenza, per un processo di estensione reso possibile dalla familiare
conoscenza dell'attributo.
[SEGNO ALLEGORICO:] Con ulteriore estensione, quando un segno rappresenta
un'idea complessa, altamente astratta di ampia implicazione come Amore, Morte,
Tempo, Fertilità, il segno può essere designato allegorico.
[ALLEGORIA:] Quando alcuni segni sono combinati in una singola composizione o
quando i diversi elementi di un'idea elaborata sono resi dall'azione concertata di un
numero di gure, dove l'azione stessa è costruita, sia come apparente realtà che come
metafora, allora si ha un'allegoria. In questa maniera infatti sono espressi in forma
artistica i temi della Nascita Divina, Regalità Cosmica, Salvazione, Apoteosi,
Calunnia, ecc.».73
Sebbene a posteriori, la lettura delle de nizioni ci permette di dare un nome alle
nostre scoperte, ipotesi. Lo scorpione potrebbe essere un simbolo di morte e, per
questo, lo si potrebbe mettere in relazione con la peste, il veleno, la so erenza, la
vendetta; l’animale sarebbe un attributo di Diana, Orione, del dio etrusco Mantus; o
— come abbiamo suggerito — un attributo iconogra co di Aurora in virtù di
un’allegoria di Dante Alighieri, e quindi magari esso stesso un’allegoria di regalità
“Simboli e attributi”, Enciclopedia Treccani (di S. Donadoni, G. Garbini, R. Brilliant, A. Tamburello - Enciclopedia
dell' Arte Antica, 1966).
73
59
cosmica. Abbiamo ampiamente discusso del segno dello Scorpione, “segno celeste” la
cui gura ha avuto implicazioni simboliche, allegoriche, iconogra che…
La lettura di queste de nizioni, seppur generali, ci o re una seconda opportunità:
adesso che sappiamo che lo scorpione è uno degli attributi iconogra ci di Diana, ad
esempio, potremmo domandarci se qualche altra dea (Venere per il suo legame con
l’amore carnale, quindi i genitali che abbiamo visto essere sotto l’in uenza dello
Scorpione), dio (Marte come dio della guerra), eroe, altra entità, ne sono
accompagnati nelle loro ra gurazioni.
Sandro Botticelli, Giovane introdotto tra le Arti Liberali, Museo del Louvre.
60
Queste occasioni sono spesso pro cue: si potrebbe addirittura scoprire74 che l’arte
liberale della Dialettica ha uno scorpione nella mano sinistra.
Il gioiello di Elisabetta è stato letto anche in questa chiave: donna colta e ottima
oratrice avrebbe potuto indossare uno scorpione per ricordare le proprie abilità
dialettiche. È un’ipotesi acuta ma non mi vede pienamente in accordo ( se lo si
considera come signi cato esclusivo): lo scorpione rappresenta la controparte
malevola della dialettica, manca il segno che ne denota la parte positiva.75
Riprendiamo la nostra ricerca, informiamoci attraverso una visione d’insieme,
dall’alto — senza la pretesa di conoscere in maniera approfondita il mondo etrusco,
egizio, la numismatica e la letteratura urbinate rinascimentale; potremmo cadere
precipitosamente —, e cerchiamo dei punti di contatto con la storia di Elisabetta,
con ciò che ella stessa o il suo ritrattista conosceva, avrebbe potuto voler dire e
rappresentare. Riconosciamo l’animale nella sua funzione di attributo del Re
Scorpione d’Egitto e ci chiediamo se ha un senso metterlo in correlazione alla
duchessa d’Urbino. Sorridiamo per l’assurdità del pensiero, è un sovrano di 5000 anni
fa, e contestiamo un “no, ovvio”. Nello speci co abbiamo ragione ma stiamo attenti,
a volte le risposte che appaiono scontate non sono così certe: non abbiamo (non ho)
approfondito il sapere alchemico di Elisabetta Gonzaga e non possiamo scartare
alcunché. Basta, dobbiamo operare una selezione, è necessario; dobbiamo focalizzare
il nostro studio su ciò che è ipoteticamente e statisticamente più rilevante, la
divagazione potrebbe farci smarrire. Sfogliamo un libro di alchimia — non cediamo
ai limiti del tempo e del buon senso — e scopriamo che
«il Mercurio vivente e i corpi imperfetti convertiti in Sol e Luna sono chiamati
Scorpione, cioè veleno, “perché uccide se stesso e riporta se stesso alla vita” (...) o che
lo scorpione è “il nobile corpo che si muove da signore a signore, nel suo inizio sta
desolazione con aceto, ma alla ne gioia con felicità” ».76
Naturalmente si tratta di una “scoperta personale”, il dato è ampiamente conosciuto.
La Dialettica (Logica) è rappresentata con un ore nella mano destra e uno scorpione nella sinistra come simbolo di
acutezza o di falsità (Anticlaudianus, III, 1; PL, CCX, col. 509); con un ore o ramo orito come simbolo del bene
(Chartres, cattedrale; Firenze, S. Maria Novella Cappellone degli Spagnoli) o angelo con formulae.
76
Johannes Fabricius, L'alchimia. L'arte regia nel simbolismo medievale, Roma, Edizioni Mediterranee, 1997, p.106.
74
75
61
Una facile veri ca, poi, ci permetterà di venire a conoscenza che lo scorpione fu un
attributo iconogra co del dio greco Hermes (e Marte), il corrispettivo del Mercurio
romano, la cui gura, nel sapere alchemico, verrà spesso sovrapposta al supposto
fondatore dell'alchimia, Ermes-Thoth.
Il nostro segno, lo scorpione sulla fronte di Elisabetta, si arricchisce ancor di più di
signi cato, signi cati. Sono molti ed ora occorre realmente scegliere; forse. Un’ultima
importante divagazione o, meglio, approfondimento, un controllo: all’inizio della
nostra ricerca abbiamo segnalato come alcuni araldisti avevano ipotizzato — senza
però darne giusti cazione — una natura “emblematica” dello scorpione. Il gioiello di
Elisabetta sarebbe stato la
gura di un’impresa della duchessa, l’avrebbe
contraddistinta e avrebbe raccontato una storia, un’impresa appunto, sua o della sua
famiglia.
Avviamoci alla conclusione, sveliamo importanti segreti dietro allo scorpione della
glia del marchese di Mantova.
62
L’Araldica e l’impresa dello scorpione
Che cos’è un’impresa?
Lo scorpione di Elisabetta è un suo segno distintivo della famiglia Gonzaga e della
duchessa d’Urbino. In questo ultimo capitolo dimostreremo la correttezza della
prima ipotesi sulla natura dello scorpione: è la ra gurazione di un’impresa, più
precisamente la sua gura, il corpo di un’impresa di casa Gonzaga.
Nei capitoli precedenti ci siamo a dati più volte a de nizioni enciclopediche per
illustrare un concetto, speci care un termine, chiarire un discorso; in questo caso,
però, il pericolo di un uso troppo libero delle parole e dei lori sinonimi non è la poca
chiarezza ma l’errore, il malinteso. Dobbiamo prestare un po’ di attenzione, solo
questo. Ad esempio, ho appena scelto l’espressione “segno distintivo” facendo un uso
comune della lingua: intendo dire che lo scorpione è un segno che distingue
Elisabetta e la sua famiglia. Nel linguaggio comune potremmo impiegare la parola
“emblema” senza troppo timore ma in questa occasione si incorrerebbe in un
problema: le imprese, les devises, hanno un parente stretto, gli emblemi77. Per trattare
lo scorpione di Elisabetta non dobbiamo necessariamente approfondire il discorso, ci
basti sapere che l’impresa è
«una rappresentazione simbolica di un proposito, di un desiderio, di una linea di
condotta (ciò che si vuole “imprendere”, o intraprendere) per mezzo di un motto e di
una gura che vicendevolmente s’interpretano».78
Il motto è chiamato “anima” e la
gura, come già detto, “corpo”. La lettura
approfondita del celebre trattato Dialogo dell'imprese militari et amorose, di Paolo
Giovio, ci avvisa: alcune imprese mancano di anima o corpo — Cesare Borgia,
l'antagonista di Elisabetta e Guidobaldo, ad esempio, ebbe un’impresa senza un
gura, il corpo: la sua era un’impresa di sola anima —79 ma non per questo di valore.
77
Si fa riferimento al genere letterario nato nel 1531 con gli Emblemata dal giurista Andrea Alciato
Praz, Mario, “Impresa”, Enciclopedia Treccani, 1933.
79
Giovio, Paolo, Dialogo dell'imprese militari et amorose, Vinegia [Venezia], Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1556, p.6.
78
63
Può essere interessante sapere che questa particolare rappresentazione
«fu specialmente in onore nella società cortese di Francia nel Medioevo (...) e dalla
Francia passò in Italia al tempo della spedizione di Luigi XII, allorché il costume dei
Francesi di decorare d'imprese (devises) vesti, cappelli, bandiere, colpì la fantasia
d'alcuni letterati italiani».80
Incuriositi prendiamo appunti, “decorare d’imprese vesti” e “colpì la fantasia di
alcuni letterati”, e scorriamo di nuovo la voce enciclopedica. Leggiamo:
«Paolo Giovio (...) ricorda (...) i cinque requisiti dell'impresa; egli voleva: 1. che fosse con
giusta proporzione di corpo (cioè gura) e d'anima (motto); 2. che non fosse sì oscura da
aver bisogno della Sibilla per interprete, né tanto chiara che ogni plebeo l'intendesse: 3.
che soprattutto avesse bella vista, cioè rappresentasse cose gradevoli all'occhio, come
astri, fuoco, acqua, alberi, strumenti, animali, uccelli fantastici; 4. che non vi comparisse
la gura umana; 5. che il motto che n'è l'anima fosse d'una lingua diversa dall'idioma di
colui che faceva l'impresa, perché il sentimento fosse alquanto più coperto, e che il
motto fosse breve, ma non tanto da essere oscuro o dubbioso.
Molte delle imprese ricordate dal Giovio son desunte dai gerogli ci di Orapollo e questa
comunanza d'origine con gli emblemi fa che talora sia di cile distinguere imprese da
emblemi. (...). L'impresa divenne a tal segno cosa italiana, che il Menestrier nella sua
Philosophie des Images (1682) poté dire che il cardinal Mazzarino "aveva portato questo
gusto e questa inclinazione in Francia dal suo Paese"».81
Ripetiamo diligentemente «l’impresa non doveva essere esplicita ma neppure
oscura» e «la sua gura poteva essere un animale o un astro». Leggiamo in ne — la
cosa ci tranquillizza — che la confusione con gli emblemi è frequente. Non
preoccupiamoci troppo: trattiamo lo scorpione nella sua natura mista di emblema,
impresa o gura identi cativa, lo abbiamo già conosciuto nelle vesti di simbolo, è più
a ascinante che pericoloso. Siamo pronti per la nostra ricerca, per leggere queste
strane “rappresentazioni simboliche”.
80
81
Praz, Mario, op. cit.
Ibid.
64
Ci domandiamo subito: «La duchessa di Urbino può aver usato questo animale
come suo “emblema” personale, o come gura, corpo di un’impresa più completa di
cui non conosciamo l’anima, il motto? E se avesse scelto lo scorpione considerandolo
capace di esprimere la sua anima nel suo mortale silenzio, se avesse scelto, per dirlo
con parole più semplici, un’impresa senza anima, di solo corpo?».
Proviamo a scoprirlo insieme.
Impresa illustrata in Delle imprese di Giulio Cesare Capaccio.
65
L’abito araldico gonzaghesco di Elisabetta
«Nelle corti italiane del Rinascimento i manufatti tessili suntuari contribuivano alla
messa in scena del potere, ossia alla manifestazione visibile della magni cenza del
signore. Tale magni cenza, da intendersi in termini umanisti come summa di dignità,
nobiltà, cultura e capacità di governo, si emanava dalla persona del signore,
ri ettendosi nel suo seguito e in tutti gli ambienti circostanti (...) Tali pratiche erano
ampliamente di use anche nella corte urbinate dei Montefeltro e dei Della Rovere. I
ritratti dei duchi e delle loro consorti mostrano abiti confezionati con le sto e seriche
più pregiate dell’epoca. Anche le fonti testuali ricordano la ricchezza del vestiario dei
signori di Urbino. Sappiamo, ad esempio, che Guidobaldo, subito dopo le nozze con
Elisabetta Gonzaga, fece comprare a Firenze nel 1489 numerosi tessuti
d’abbigliamento (brocati per veste), desiderando donare alla sua sposa alcuni abiti, tra
cui “una (veste) de broccato d’oro et raso morello, taliata a scalioni et quelli da un
capo all’altro caricati tutti de perle” . La principessa mantovana, in ogni caso, era già
arrivata ad Urbino con un guardaroba ricchissimo, come attesta la descrizione del suo
corredo nel 1488, dove si menzionano abiti in damasco, raso e velluto; pezze intere di
sete pregiate per future confezioni e innumerevoli maniche staccabili de brocà d’oro o
ricamate, tra le quali una, notevolissima, era addirittura decorata da ottocento perle
tra grandi e piccole, da un rubino e un da diamante. Simili sto e suntuarie, inoltre, si
facevano veste e ornamento anche dell’intero Palazzo Ducale».82
Abbiamo ribadito più volte, forse troppe, che l’obiettivo di questo articolo è svelare il
signi cato dello scorpione di Elisabetta. Perché, quindi, dedicare del tempo all’abito
della duchessa? Potremmo rispondere ripetendo le parole sopra citate o illustrando
l’importanza di conoscere tutta l’opera; non tergiversiamo e replichiamo in modo
preciso: il vestito di Elisabetta Gonzaga potrebbe nascondere un’anima, il motto di
un’impresa.
82
Bruschetti, A. (a cura di), “Sto e preziose alla corte di Urbino” in Il Montefeltro e l’Oriente islamico. Urbino 1430
-1550. Il Palazzo Ducale tra Occidente e Oriente, Genova, Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale di Urbino,
2018, p. 233.
66
Leggiamo la scheda, la descrizione dell’opera sul sito u ciale della Galleria degli
U zi:
«La duchessa indossa un abito nero, una “gamurra” (o camurra) ornata di rettangoli
tramati d’oro e argento, disposti in ordine asimmetrico ed ispirati ai colori araldici del
Montefeltro. Lo scollo bianco è intessuto di una scritta in oro a caratteri cu ci e due
semplici catene ornano il collo, mentre sulla fronte bianchissima spicca un gioiello a
forma di scorpione contenente una pietra preziosa».83
Purtroppo — è una mia mancanza? — non ho riscontro di un’interpretazione della
frase ricamata in oro sulla gamurra di Elisabetta.
Se fosse possibile, sarebbe
opportuno decifrarla; le due principali “decorazioni parlanti” della duchessa, l’abito e
il gioiello, comunicherebbero meglio tra loro e, forse, con noi tutti.
Segnalo che non considero indispensabile un motto per l’impresa di Elisabetta ma è
probabile che un letterato della sua corte abbia voluto o rire un’anima al suo
scorpione, al suo corpo.
Una breve nota, anche in questo caso spero di non sbagliare: gli U zi, lo abbiamo
appena letto, sostengono che i «rettangoli tramati d’oro e argento, disposti in ordine
asimmetrico (...) [sono] ispirati ai colori araldici del Montefeltro». È possibile che vi
sia stata una semplice svista da parte del Museo e che si volesse scrivere “i colori
araldici dei Gonzaga”? Ho letto in altri importanti studi la stessa descrizione;
immagino che l’informazione sia stata presa direttamente dalla Galleria degli U zi.
Penso non sia corretta. Desidero dare il mio piccolo contributo nella correzione (se
necessaria) dell’errore (eventuale), sono sicuro verrà apprezzato.
L’arme antica dei Gonzaga, infatti, è “d’oro a tre fasce [fasce orizzontali] di nero”
mentre il blasone di quella feretrana (dei Montefeltro) è “bandato [bande oblique]
d'azzurro e d'oro, la prima banda d'oro caricata di un'aquila col volo abbassato di
nero, coronata del campo”.
I nostri occhi, ora, nalmente, sono preparati; d’improvviso uno nuovo sguardo
all’abito di Elisabetta ci mostra delle bande d’oro ricamate su un campo nero di
velluto: l’arme antica dei Gonzaga rappresentata in uno splendido abito araldico.
83
“Ritratto di Elisabetta Gonzaga, duchessa d’Urbino”, Galleria degli U zi [sito u ciale, ultima visita: 17 ottobre
2022]
67
Ra aello, Elisabetta Gonzaga, Galleria degli
U zi, dettaglio.
A resco arme antica Gonzaga, Palazzo Ducale
di Mantova
Scaricamazza, Ricostruzione storica arme antica Gonzaga
68
Gli scorpioni dei Gonzaga
Abbiamo ricordato ipotesi che riteniamo plausibili, noi stessi ne abbiamo proposte di
inedite. Dobbiamo porre un’ultima domanda, è determinante per la nostra ricerca:
esistono delle imprese, dei simboli, emblemi, momenti nei quali lo scorpione è stato
protagonista della casa Gonzaga, e che quindi ci consentano di a ermare che lo
scorpione rappresenta Elisabetta non solo nel sue vesti di duchessa di Urbino ma
nella sua identità di donna Gonzaga? La risposta è “sì”. Lo straordinario ruolo delle
glie e spose Gonzaga è ampiamente dimostrato.84 Quando Elisabetta riceve un
ambasciatore veneziano ad Urbino non è solo la moglie del duca Montefeltro: è (in
alcuni casi) reggente del ducato marchigiano e, nel contempo, diplomatica dei
marchesi di Mantova (suo fratello Francesco II Gonzaga e la sua amica e con dente,
nonché cognata, Isabella d’Este). Ora che siamo certi della centralità di Elisabetta
nell’universo gonzaghesco, non solo in quello urbinate, illustriamo tutti gli scorpioni
di casa Gonzaga.
Il primo punto: non si riscontrano scudi, armes vere e proprie della famiglia
mantovana la cui gura araldica è uno scorpione. Questo signi ca che l’animale non è
presente nel mondo dei marchesi85 Gonzaga? Leggiamo alcune informazioni —
molte sono inedite, mai messe in luce — che possono strapparci un sorriso e togliere
ogni dubbio sulla risposta.
Lo scorpione, sicuramente n dal XV secolo, è un segno identi cativo del popolo
ebreo (attribuito ad esso dal mondo cattolico in virtù del tradimento dei quali gli
ebrei si sarebbero macchiati con la morte di Cristo), ce lo testimoniano numerose
opere d’arte, a reschi (magni ci e importanti per il nostro discorso quelli dei fratelli
Salimbeni, ad Urbino). Questa identi cazione verrà presto estesa a tutti i “colpevoli”
di eresia, in sintesi a chiunque non fosse cattolico. Di per sé, dunque, lo scorpione è
un attributo, un segno negativo. L’araldica, però, è spesso complessa e nebulosa. Chi
possiede un drago, un serpente sul proprio scudo, ad esempio, utilizza
84
Si veda: Continisio C., Tamalio R. (a cura di), Donne Gonzaga a corte. Reti istituzionali, pratiche culturali e affari di
governo, Roma, Bulzoni Editore, 2018.
85
Dal 1530 “duchi”: Federico II Gonzaga ottenne il titolo di duca dall’imperatore Carlo V.
69
(normalmente) questa gura in virtù della sua supposta vittoria sul male. Per lo stesso
motivo, quindi, il cavaliere cattolico potrebbe fregiarsi di uno scorpione. Questa
gura, ad ogni modo, non è una delle più comuni tra i cavalieri cattolici, lo
segnaliamo. Potrebbe comunque essere interessante conoscere un dato: Ludovico
Gonzaga, il nonno di Elisabetta, forse il personaggio più illustre della famiglia, era
detto “il Turco”.
Lorenzo e Jacopo Salimbeni, Oratorio di San Giovanni Battista, Urbino.
70
L’araldica non è solo ambivalente, ingannatrice, ma addirittura ironica: ce lo
testimoniano le scherzose armi a bbiate dagli araldisti dell’Armorial général. Nel
nostro caso, poi, trattandosi di una probabile impresa, oggetto para-araldico, (le cui
regole sono quindi meno rigide,), ci possono venire in mente allusioni mitiche e nel
contempo maliziose, mordaci. Se fossimo stati duchesse o araldisti umanisti, infatti,
in riferimento al culto di Mitra e allo scorpione che ferisce i testicoli del toro,
avremmo constatato con divertimento che l’arme del nostro nemico ( i Borgia) aveva
come gura un toro.
Lasciamo da parte, per un attimo, la parte ludica del segno. Una ricerca approfondita
ci obbliga alla lettura delle fonti antiche; come sempre non smettono di sorprenderci.
Dal loro studio apprenderemo che nel ‘600 si supponeva che i popoli germanici
avessero usato lo scorpione come proprio emblema e che quindi le famiglie di
stirpe tedesca come i Gonzaga — li si segnala espressamente — avessero il diritto di
usare tale segno. Leggiamo infatti che
«onde anche fosse chiaro (...) che li regnanti in Italia dopo l’occaso della Maestà
Romana, non habbino usato insegna di Scorpione (...) no però sarebbe buono
l’argumento che li gentilhuomini priuati d’Italia non possino essere discesi da Principi
d’alto lignaggio forastieri, come sono li duchi di Sauoia (...), di Mantua rampolli della
Germania (...). Conviene duqnue rintracciare l’insegne dello Scorpione non dentro li
con ni dell’Italia sola ma ancora fuori di quella. E quanto ai paesi fuori di quella non
v’è dubbio veruno che lo Scorpione sia stata insegna armale dei popoli Gheti nominati
Ghoti (...)»86.
Più speci catamente verremo a sapere che a Mantova, nel 1612, per celebrare le nozze
di Francesco Gonzaga e Margherita di Savoia, s lerà uno
«scorpione molto grande e spaventoso, sopra di cui era in piedi un cavaliere, che
dimostrava essere Marte. Era questi Don Giovanni Ottauio Gonzaga (...) circondato
da dodici amazzoni. (...) Parlò Venere (...) Finite sopradette parole, il cavaliere scese
dallo scorpione e combatutto (...). Era quel carro ricco d’oro , e d’argeto, e fatto con
mirabile arti cio (...). Ritirati che si furono i Principi di disparte, condussero il Si.
86
Avicenna, Orazio, Memorie della città di Cingoli raccolte da dottor Oratio Auiccenna da Vrbino. Accresciute
nouamente d'altre particolari notitie, Paolo, & Gio. Battista Sera ni, 1644, p. 8 [numerazione irregolare: ci si riferisce
all’ottava pagina della sezione “Giuditio sopra la targa di casa Silvestri” ].
71
Paolo Emilio Gonzaga (...) con habiti e manti ricchissimi (...), i quali seguitauano il
carro d’oro d’Apollo (...) sopra il carro era l’Iride, l’Alba, e la Stella di Venere (...) ».87
Ci avvicineremo sempre più ad Elisabetta e avremo prova di come lo scorpione
non fosse solo un simbolo ma anche un segno gonzaghesco.
Gli storici dell’arte conoscono da sempre l’impresa dello scorpione di Luigi Gonzaga
ma, purtroppo, non le hanno dato il peso adeguato. Giulio Cesare Capaccio, infatti,
già alla ne del ‘500 ci ricorda che
«fù Impresa di Luigi Gonzaga, che per il gran valore, fu chiamato Rodomonte,
quando CARLO V fece l’entrata in Mantua col motto, QVI VIVENS LAEDIT,
MORTE MEDETVR; E volea inferir ch’egli haurebbe ammazzato chi presumesse di
o enderlo, riualendosi del danno dell’o esa, con la morte del nemico. (...) [Non
parlando speci catamente di Luigi Gonzaga ma della gura dello scorpione in
generale lo stesso autore aggiunge:] con lo Scorpione che signi ca Vittoria acquistata
per mare e per terra».88
Molti specialisti hanno considerato secondario questo fatto poiché Luigi Gonzaga,
nato nel 1500 (Elisabetta nacque nel 1471), a dir loro sarebbe un parente lontano di
Elisabetta. Vi sono due “piccoli” vizi di fondo. Il primo di questi è che Luigi, in
verità, è un “parente stretto” della duchessa; può infatti vantare i suoi stessi avi: il
padre di Elisabetta, Federico, è glio di Ludovico Gonzaga; il nonno di Luigi,
Gianfrancesco Gonzaga, era fratello di Ludovico; Elisabetta e Luigi discendono
direttamente da Ludovico II Gonzaga e Barbara di Brandeburgo.
Il secondo errore che ha comprensibilmente ingannato gli storici: il Rodomonte
— modi candone il motto — ha usato un’impresa (perlomeno una gura, il corpo,
lo scorpione) cara a molti componenti della famiglia Gonzaga.
Sveliamo infatti che l’impresa fu portata da Andrea Gonzaga ( glio di Ferrante e
nipote del fratello di Elisabetta, Francesco II, e della cognata Elisabetta d’Este) 89. Pare
sia stata usata dallo stesso padre di Luigi Gonzaga, Ludovico Gonzaga di Sabbioneta;
così perlomeno sembra a ermare Joachimo Camerario nel suo Symbolorum et
emblematum.90
87
Follino, Federico, Compendio delle sontuose feste fatte l'anno 1608 nella città di Mantoua, per le reali nozze del
Serenissimo Prencipe D. Francesco Gonzaga, con la Serenissima Infante Margherita di Sauoia, Aurelio, & Lodouico
Osanna stampatori ducali, 1608, pp.114-118.
88
Capaccio, Giulio Cesare, Delle imprese. Trattato, Napoli, Gio. Giacomo Carlino & Antonio Pace, 1592, pp. 52,
60-61.
89
Ferro, Giovanni, Teatro d’imprese, Sarzina, 1623, p. 623.
90
Camerario, Joachimo, Symbolorum et emblematum, Christophori Kuchleri, 1668.
72
Ricordiamo poi che
«il motto [“QVI VIVENS LAEDIT, MORTE MEDETVR”] non era una novità per
la dinastia, era già presente sul sarcofago (distrutto) nella cattedrale di Mantova, di
Luovico I Gonzaga (1268-1360), primo Capitano del Popolo di Mantova e Vicario
Imperiale, fondatore della dinastia mantovana».91
Quest’ultima informazione è importante: il fondatore della dinastia avrebbe usato il
motto associato (posteriormente da Luigi Gonzaga) alla gura posta sulla fronte di
Elisabetta. Con nostra sorpresa, grazie a degli atti u ciali dell’Ottocento e alle
immagini dall’’Archivio di Stato di Mantova condivise sui suoi social network,
aggiungiamo che l’impresa dello scorpione fu assunta da Barbara Sanseverino,
con dente e amante del marchese Vincenzo I Gonzaga, e di sua glia.
Sappiamo che
«il bresciano Gian Maria Agacio, [scrisse] per la sola Marchesa tutta la terza parte
delle proprie rime (...): Stampate in Parma da Erasmo Viotti nel 1598. (...) Tra i versi
dell'Agacio non passeremo inosservato il sonetto a car. 35 L'aspro animal, di cui
l'e gie strana lu metallo et in cera usar solete assunto per impresa uno scorpione. Uno
scorpione appunto,sopravi una stella, troviamo impresso ne 'suggelli di parecchie sue
lettere originali, da noi consultate per tessere la presente Vita. L'impresa di un
animale, che reca pungendo un acuto e crudel dolore, sembra scelta per analogia al
nome di Barbara. Per questa ragione il suggello coll'impronta dello scorpione scorgesi
anche sulle lettere della glia omonima».92
Ghirardi, Massimo, “Scorpione” in Araldica Civica [Sito Internet].
Ronchini, Amadio, “Vita di Barbara Sanseverini” in Atti e memorie delle Deputazioni di storia patria per le provincie
modenesi e parmensi, Modena, Carlo Vincenzi, 1863, pp. 41-42 [nota n.3].
91
92
73
Sigillo scorpione, Archivio Gonzaga di Barbara di Sanseverino, Archivio di Stato di Mantova
A questo punto sarebbe corretto chiedersi se vi siano prove dell’adozione dell’impresa
dello scorpione da parte della duchessa d’Urbino. Se l’opinione e le informazioni
dello storico urbinate Luigi Nardini
— per le quali «l’impresa dello scorpione [fu] prescelta dalla duchessa»93; venne «animata
dal motto: QVI VIVENS LAEDIT MORTE MEDETVR, che in italiano può essere
tradotto: “Chi da vivo lede nocendo, medica pagando con la morte”»94; fu Elisabetta che
ideò «sia il corpo sia l’anima dell’impresa a ricordo della mala azione dei Borgia commessa
contro il Duca suo consorte.»95 —
fossero confermate, sarebbe opportuno accettare una semplice verità: il gioiello di
Elisabetta rappresenterebbe (perlomeno “anche”) l’impresa dello scorpione.
Esistono altre devises attribuite alla duchessa, o a dei suoi familiari, che possano
confutare o confermare, integrare le notizie di Luigi Nardini?
93
Ceccarelli, Luciano, Non mai: le imprese araldiche dei duchi d'Urbino : gesta e vicende familiari tratte dalla
corrispondenza privata, Accademia Ra aello, 2002, p.84.
94
Ibid.
95
Ibid.
74
Oltre al già menzionato scorpione, ricordiamo alcune gure di casa Gonzaga: il
coccodrillo di Alessandro; il ore di Carlo; la corona di Cesare; l’Amore l’Idra, l’aquila
di Curtio; il diamante di Federico Gonzaga; il Sole di Sigismondo, la cometa di Giulia
Gonzaga, la nave di Isabella (marchesa di Pescara) o la dea Aurora di Ippolita
Gonzaga.
So ermiamoci su quest’ultima: l’abbiamo introdotta nel paragrafo dedicato a
Dante Alighieri e alla “creazione di un nuovo attributo iconogra co di Aurora”, lo
scorpione sulla fronte. A mio parere, proprio grazie all’impresa di Aurora assunta da
Ippolita ( glia di Ferrante I Gonzaga di Guastalla, nipote di Elisabetta Gonzaga), la
di cile lettura dell’unica impresa ( o semplice allegoria) di Elisabetta di cui abbiamo
testimonianza — rappresentata sul verso della medaglia di Adriano di Giovanni de’
Maestri — appare forse più chiara.
Se infatti Monica Centanni, e la maggioranza degli specialisti, accetta
l’identi cazione con Danae della gura dell’opera di de’ Maestri, alla luce
dell’ereditarietà mantovana di numerose imprese e della medaglia di Ippolita,
domando agli studiosi se non si possa ridiscutere tale identi cazione.
Osserviamo la medaglia di Elisabetta Gonzaga.
75
Adriano di Giovanni de’ Maestri, detto
Fiorentino, Medaglia per Elisabetta
Gonzaga, 1495, diritto.
Iscrizione: ELISABET GONZAGA
FELTRIA DUCISS URBINI.
Adriano di Giovanni de’ Maestri, detto
Fiorentino, Medaglia per Elisabetta Gonzaga,
1495, verso.
Iscrizione: HOC FUGIENTI FORTUNAE
DICATIS.
76
Monica Centanni la descrive:
«Sul verso una gura femminile nuda, distesa su un letto, con la testa che appoggia su
un’alta testiera: tra le mani stringe delle redini. Sopra di lei una nube emette ammelle
che cadono a pioggia sulla donna. Come è stato dimostrato con ampi e argomentati
confronti iconogra ci (Settis 1985, 207 ss.), si tratta di una ra gurazione di Danae,
rappresentata in modo del tutto compatibile con la tradizione iconogra ca antica e
medievale»96. O ancora: «Più di recente, non potendo non tenere conto
dell’inoppugnabile identi cazione della gura nuda con Danae avanzata da Settis (...).
HOC FUGIENTI FORTUNAE DICATIS (...) il motto latino – non sempre inteso correttamente,
neppure nel suo primo signi cato – è per lo più messo in diretta relazione con la
gura femminile che campeggia sulla medaglia (...) Se, come pare chiaro, ‘hoc’ si
riferisce alla medaglia stessa (Settis 1985, 207), il signi cato del motto non può che
essere: “Questa medaglia è per coloro che si sono votati/e alla Fortuna che fugge“
(diversamente, e inspiegabilmente, Gasparotto 2013, 200, interpreta: “Questa tu
dedichi alla Fortuna che fugge”). ‘Fortuna’ dunque, che non può essere il nome della
gura nuda distesa sul letto (incompatibile con qualsivoglia iconogra a di Fortuna), è
la divinità a cui Elisabetta, e prima Danae – ipostasi mitica della Duchessa – si sono
votate».97
Ricordo che Aurora, non solo nel
mondo etrusco, caro ai Gonzaga, ma
anche in quello greco o romano, e nel
Rinascimento, non è ra gurata
unicamente su un carro: spesso è
rappresentata nelle vesti di una gura
femminile dal volto pallido, nuda,
distesa, proprio come nel nostro caso.
Thesan, dea etrusca dell’aurora, Museo etrusco
di Chianciano Terme
96
97
Centanni, Monica, op.cit.
Ibid.
77
Michelangelo Buonarroti, Aurora, Sarcofago di Lorenzo de' Medici duca di Urbino.
78
L’Aurora di Michelangelo, inoltre — va segnalato — è per il duca d’Urbino Lorenzo
di Piero de’ Medici. Se osserviamo la supposta Danae della medaglia, poi, notiamo
che stringe tra le mani delle briglie; esse non sono un normale attributo della
principessa di Argo. Mi permetto di proporre alla comunità un nuovo nome per la
sua identi cazione: Aurora. Se la mia identi cazione fosse corretta sarebbe veramente
suggestivo scoprire che Elisabetta Gonzaga, la duchessa ritratta da Ra aello con uno
scorpio sul viso e un'aurora sul fondo, ebbe per impresa Aurora: la dea che Dante
Alighieri, attraverso un’allegoria astrale, ha voluto rappresentare con un
gioiello-scorpione sulla fronte98 e che Michelangelo scolpì distesa, come nella
medaglia di Elisabetta, per il nuovo duca d’Urbino.
Il motto ad essa associata (HOC FUGIENTI FORTUNAE DICATIS), inoltre, ora — ma questa è solo
un’intuizione, va chiarito, un’ipotesi priva di un fondamento solido, non pretendiamo chiudere una questione così
complessa con fantasie poco dimostrabili —, potrebbe alludere alla fortuna che fugge lasciandoci nell’oscurità, e che
torna proprio come l’aurora dopo la notte.
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Conclusioni
Siamo giunti al termine del nostro percorso; è stato tortuoso, lo riconosciamo.
Abbiamo ricordato ipotesi e dati che gli studiosi, negli anni, nei secoli, hanno voluto
o rire, donarci. Non ci siamo sentiti più capaci di loro nel formulare nuove
proposte, svelare le nostre scoperte: conosciamo bene la metafora “siamo nani sulle
spalle dei giganti”; continua a piacerci.
L’articolo è stato scritto per un pubblico di specialisti e semplici appassionati: sono
sicuro che tanto i primi come i secondi, nel leggerlo, avranno scusato le spiegazioni
super ue o gli approfondimenti più tediosi; forse sono i limiti della divulgazione o,
più plausibile, di chi scrive, dell’autore.
Concludiamo la nostra ricerca dichiarando in maniera esplicita la nostra idea di
fondo, rispondendo alla domanda per la quale è stata iniziata: perché quello
scorpione? È la stessa questione che più di cinquecento anni fa si sono posti un
giovane pittore ed una duchessa urbinate.
Un giorno, forse — non possiamo saperlo —, Elisabetta estrasse più gioielli per il
suo ritratto. L’artista, incuriosito, le chiese se il signi cato dello scorpione fosse da
relazionare unicamente al segno zodiacale della loro città, Urbino. La donna sorrise.
“Non solo” fu la risposta. Gli spiegò la vicinanza dei Gonzaga all’animale, del quale
Luigi Gonzaga, suo nipote, sarà il massimo testimone. Svelò al pittore il folle amore
per lo Scorpione di Giuliano della Rovere, Giulio II, amico e alleato dei duchi, che
attenderà lo Scorpio per no per la sua incoronazione a papa. Ricordò i “mortali”
miti fondativi della sua città natale, Mantova, e le proprietà talismaniche e di amuleto
dell’aracnide. Suggerì di ampliare le sue conoscenze alchemiche: il Mercurio bramato,
d’altra parte, aveva un nome: Scorpione. Parlò inoltre di letteratura con il giovane
genio. Dante, nel descrivere Aurora, con una allegoria astrale, la descrisse con uno
scorpione sulla fronte; lei era Aurora e quel gioiello le si addiceva. Rise pensando alle
battute dei suoi amici cortigiani che, nel vederla con uno scorpione sulla fronte, le
ricordavano la sua forza dialettica e la sua capacità di pungere all’occorrenza. Il
giovane fu ammirato dal quel racconto: conosceva molte di quelle informazioni ma
probabilmente non tutte. Propose alla duchessa di indossare proprio quel gioiello e la
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donna approvò con convinzione. Quel giorno il pittore non superò l’impostazione
frontale quattrocentesca del ritratto ma apprese e ci insegnò qualcosa di non meno
importante: i molti signi cati dello scorpione e la creazione del segno.
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