La produzione letteraria e la cultura fascista del Dopoguerra | theWise Magazine

La produzione letteraria e la cultura fascista del Dopoguerra

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In Fascismo immaginario (Laterza 2024) Andrea Martini mette in evidenza come nell’Italia del Dopoguerra la cultura fascista sia sopravvissuta insieme con i tentativi dei reduci o dei simpatizzanti del fascismo e di Benito Mussolini di minimizzare gli effetti del Ventennio. Martini parte dall’immagine dell’esule in patria, secondo cui ci fu una stagione di epurazione aggressiva per i fascisti. Ma sembrerebbe che l’esclusione del fascismo dall’arena politica e culturale sia stata più apparente che reale. La cultura e la mentalità fascista sembrano aver permeato le istituzioni democratiche e il personale statale. A destra c’è spesso e volentieri la volontà di narrare i fatti secondo i propri interessi politici. L’esempio di Rodolfo Graziani, che nel Dopoguerra pubblicò Ho difeso la patria, è emblematico. Per rafforzare le sue tesi, Martini traccia l’origine di diverse iniziative editoriali.

Si concentra sul caso di Duilio Susmel, che curò la pubblicazione dell’intera produzione scritta e orale del leader del fascismo (Opera omnia di Benito Mussolini). Nel Dopoguerra, i fascisti desideravano presentare la loro interpretazione degli eventi. Il revisionismo venne recepito positivamente da un numero non poi così modesto di italiani che leggevano Giuseppe Bottai (Vent’anni e un giorno), Dino Alfieri (Due dittatori a fronte), Yvon De Begnac (Palazzo Venezia). Ma anche Gioacchino Volpe, Ermano Amicucci, Attilio Tamaro, che hanno tentato di rivalorizzare il fascismo e la cultura fascista. «Sin dalle sue origini il fascismo aveva innescato un’azione di riscrittura della storia, perciò chi, anche al termine del conflitto mondiale, continuò ad aderire a quella causa non fece altro che proseguire su quella linea», scrive Martini. Nonostante Paolo Monelli (Roma 1943) esprimesse giudizi negativi su Mussolini, le sue valutazioni non erano distanti da quelle di alcuni esponenti del regime fascista.

Egli favoriva la costruzione di un’immagine benigna di Mussolini e, di conseguenza, del fascismo. Declinò la persecuzione come il prodotto delle sole politiche naziste. Sulla generosità presunta del Duce ha scritto, con Giorgio Pini come ghost-writer, Rachele Guidi (La mia vita con Benito), che rafforzò la credibilità del dittatore. La moglie gli rimproverava solo di aver osato troppo, cioè di aver continuato la sua attività politica nonostante avesse portato il Paese a risultati impensabili. Bottai invece cercava di conferire legittimità alla propria biografia. Il suo memoriale era critico nei confronti di Mussolini perché mirava a difendere se stesso. Indro Montanelli (Il buonuomo Mussolini) attenuava l’autorità del Duce e attribuì un’accezione positiva anche alla decisione di assumere la guida della RSI. Pur ammettendo alcuni eccessi del fascismo nelle sue imprese coloniali, smentì a lungo l’utilizzo di armi chimiche. Leo Longanesi riproponeva un’immagine di Mussolini simile: umana e vulnerabile.

Ma al contempo virtuosa, votata alla tutela degli interessi nazionali. Scrisse sulle pagine de Il Borghese (1° luglio 1952): «Di dittatori veri e propri […] non ne abbiamo mai avuti; e quando s’ode ripetere le solite descrizioni dei soprusi commessi dal capo del defunto regime, vien da sorridere». Anche Benedetto Croce (Il dissidio spirituale della Germania con l’Europa) fu indulgente. Teorizzò la «differenza intima e l’Europa profonda fra nazismo e fascismo». Edoardo Susmel (Mussolini e il suo tempo) negava che il Duce fosse antisemita e per dimostrarlo si affidava alle parole toccanti rivolte a un soldato ebreo, Roberto Sarfatti, figlio di Margherita Sarfatti; e contribuiva ad alimentare il mito “del bravo italiano”. Martini sottolinea come ci fosse una propensione all’autoassoluzione. Cosa che rappresentò l’ennesimo punto di saldatura tra la cultura fascista e quella più genericamente conservatrice. L’esempio maggiore è da trovarsi in Guido Piovene (La coda di paglia).

Tuttavia, la tendenza a non riconoscere i propri errori fu l’approccio più frequente. «L’assoluzione individuale fu però il risultato di un’autoassoluzione su più vasta scala che “nel segno dell’antifascismo” coinvolse l’intera nazione», scrive Martini. «Fu proprio questa predisposizione all’autoassoluzione a garantire anche alle memorie fasciste uno status di rispettabilità». In un altro capitolo Martini affronta la questione degli editori. «Con la complicità e il sostegno di editori e direttori di giornali, “l’inchiostro dei vinti” ebbe così modo di lasciare il proprio segno sul processo di riscrittura della storia». Garzanti – fondata da Aldo Garzanti, imprenditore nel settore della chimica – fu tra i più inclini ad accogliere la voce post-fascista. Pubblicò opere di Susmel e anche Decima flottiglia Mas di Junio Valerio Borghese. Poi Roma Berlino Salò di Filippo Anfuso e Parla Laval, con riflessioni di Pierre Laval.

Quindi Guerra in camicia nera di Giuseppe Berto, le memorie di Erwin Rommel e Albert Kesselring e Morte a credito di Louis-Ferdinand Céline, curata da Giorgio Caproni. Orio Vergani, uno dei più stretti consiglieri di Garzanti nella scelta degli autori da lanciare, aveva collaborato con il regime. La Longanesi & C. pubblicò i testi di Oswald Spengler, Ernst von Salomon ed Ernst Jünger. Quindi Diciassette colpi di Amerigo Dumini – «opera di dubbia qualità, appartenente a uno dei filoni tra i più frequentati dai fascisti, quello della letteratura dal carcere, in cui l’autore rivendicava con orgoglio l’adesione al fascismo», commenta Martini. Dumini sganciava il regime da ogni responsabilità riguardo al delitto Matteotti. Durante il Ventennio, Angelo Rizzoli aveva finito per stringere un rapporto di collaborazione con il fascismo, al punto che alla Liberazione gli Alleati gli avevano revocato per alcuni mesi il diritto di stampa.

Pubblicò i diari di Galeazzo Ciano, già usciti in America e utili per svelare alcuni nodi critici della storia del fascismo. Pubblicò anche il diario di Roberto Farinacci, un falso clamoroso. La Mondadori, invece, ristampò (erano comparsi la prima volta nel 1932) i Colloqui con Mussolini di Emil Ludwig. Curiosa è la genesi di questo libro: nessun dialogo era stato inventato; e fu approvato da Mussolini. Martini ricorda che nella stampa del Dopoguerra si affermò anche il profilo di un combattente di Salò che costruì la propria carriera attraverso scritti apologetici del fascismo: Giorgio Pisanò. Pisanò contribuì ad affinare il mito dell’epurazione selvaggia. Fu tra i primi fascisti a ritenere eccessiva la stima di 300mila omicidi commessi dai partigiani durante la Liberazione, propendendo per una stima inferiore pari a 60mila, comunque esagerata, visto che gli studi più attendibili riferiscono di 12mila vittime.

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Amedeo Gasparini

Amedeo Gasparini, classe 1997, MA in Relazioni Internazionali, BSc in Comunicazione, giornalista freelance, gestisce “Blackstar”, www.amedeogasparini.com

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