Il segreto di Clausewitz - Limes
numero del mese

Fine della guerra

Conflitti infiniti perché senza scopo
sono la malattia dell'Occidente
Solo il ritorno alla politica ci salverà
numero del mese

Fine della guerra

Conflitti infiniti perché senza scopo
sono la malattia dell'Occidente
Solo il ritorno alla politica ci salverà
numero del mese

Fine della guerra

Conflitti infiniti perché senza scopo
sono la malattia dell'Occidente
Solo il ritorno alla politica ci salverà

GEDI Digital S.r.l. - Via Ernesto Lugaro 15, 10126 Torino - Partita IVA 06979891006

Il segreto di Clausewitz

Editoriale del numero di Limes 4/24, Fine della guerra.
Pubblicato il
Pubblicato in: Fine della guerra - n°4 - 2024
Carta di Laura Canali - 2024
Carta di Laura Canali - 2024 

1. C’era una volta la guerra continuazione della politica con altri mezzi. Che cosa ne resta, senza politica? La guerra autonoma. Scopo a sé stessa. Violenza illimitata. Irrazionale. Diremmo bestiale se nelle specie animali non vigessero gerarchie di dominanza, sicché la competizione per il rango superiore è di norma risolta con la minaccia, non l’esercizio della forza. A rigore, dovremmo smettere di chiamare guerra ciò che da tempo non risponde più al canone fissato nel 1832 da Carl von Clausewitz. Sul suo Della guerra, trattato di antropologia e di arte politica – le armi ne sono mero strumento – si sono formate generazioni di ufficiali, sicché passa per manuale tecnico di combattimento. Mentre è degno di affiancare la Fenomenologia dello spirito dell’altrettanto prussiano suo contemporaneo, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, salvo rovesciarne il senso perché non espone il compimento della storia quale progetto divino ma ne annuncia forse inconsciamente la sovversione.

La frattura che sotto i nostri occhi sta finendo di liquidare la dimensione politica della guerra per emancipazione della seconda dalla prima, ridotta allo stato larvale, si produsse a partire dall’età napoleonica. Fine della guerre en dentelles, tornei in merletti retti da un cavalleresco galateo dei costumi, avvio delle mobilitazioni di massa e dei movimenti rivoluzionari culminati nel triplo suicidio degli egemoni europei (1914-45-91). Hegel e Clausewitz erano entrambi a Jena il 14 ottobre 1806, quando Napoleone sbaragliò l’esercito prussiano. Clausewitz vi cadde prigioniero di quel Bonaparte nel quale Hegel, affacciato alla finestra, volle vedere l’anima del mondo a cavallo. Due prospettive anche fisicamente opposte: l’ufficiale caduto in mano al nemico esperisce clima e modi di un grandioso esercito di popolo, per poi volgere da cavia a indagatore di quella rivoluzione non solo militare; il filosofo sistematico, troppo sistematico per ammettere le aporie che gli impedirebbero di chiudere la sua dialettica trinitaria, scorge in Napoleone il simbolico annuncio del disegno di Dio: «È sensazione meravigliosa vedere un tale individuo che qui, concentrato in un punto, si irradia sul mondo e lo domina» 1.

Clausewitz rifiuta in premessa la necessità di ridurre le sue osservazioni a sistema, segno del destino visto che non riuscirà a finir di correggere il suo capolavoro: «Invece di una dottrina conchiusa, non abbiamo da offrire che frammenti. (…) Come molte piante non producono frutti se il loro fusto si slancia troppo in alto, così occorre che nelle arti pratiche le foglie e i fiori teorici non prendano soverchio sviluppo. Occorre non allontanarsi troppo dal terreno che loro conviene, e cioè dall’esperienza. (…) Forse sorgerà presto qualche spirito più illuminato, che sostituirà a questi grani isolati un insieme fuso in un sol getto con un metallo senza scorie» 2. Clausewitz finirà poi sequestrato dalle «scienze» militari e politiche. Finché un antropologo e critico letterario assai originale, René Girard, ne rivelerà il nucleo nascosto. Formula che rende il suo pensiero attuale, per tale intendendo la scissione tra politica e guerra. Clausewitz in realtà l’aveva già intuita, salvo ritrarsi quasi impaurito dalla scoperta e rivestire i panni del tecnico delle armi, decisamente stretti. Ecco il passaggio chiave, che nel testo precede l’ormai inattuale postulato sul nesso politica/guerra: «Confermiamo dunque: la guerra è un atto di forza, all’impiego della quale non esistono limiti: i belligeranti si impongono legge mutualmente; ne risulta un’azione reciproca che logicamente deve condurre all’estremo (tondi nostri, n.d.r.)» 3.

Girard legge in questo frammento la conferma della sua tesi sul mimetismo, tratta dallo studio dei classici della letteratura, da Cervantes a Proust e a Dostoevskij: l’imitazione è il motore delle relazioni fra umani in quanto si riconoscono simili. Spinge ad apprendere, ma anche a combattersi per il desiderio dell’oggetto altrui. Più radicalmente, per il desiderio del desiderio dell’altro. Ne discende dinamica della violenza come gioco di specchi che rende sempre più affini i nemici. L’uso illimitato della forza è sintomo della «tendenza all’estremo» che da fine Settecento accelera il corso della storia. E determina una continuità dello scontro bellico attraverso l’«azione reciproca» mossa dal desiderio mimetico dei contendenti. Botta e risposta. Allargabile all’infinito, per imitazione: violenza chiama violenza. Fino a perdere il senso stesso della difesa e dell’attacco, dell’aggressore e della vittima. Esempio, l’«odio misterioso» tra Francia e Germania che costituisce «l’alfa e l’omega d’Europa»4. In questo senso Della guerra è apocalittico. Giacché noi siamo sempre in guerra da quando la guerra come istituzione capace di produrre senso e determinare equilibri di pace non esiste più. Fenomeno che secondo Girard riguarda tutte le istituzioni. Quel che resta della politica insegue la guerra come Achille la tartaruga.

2. Troviamo nel Clausewitz secondo Girard la chiave del titolo che abbiamo dato a questo volume: Fine della guerra. L’abolizione dell’articolo determinativo è voluta. Qui ci interessano sia il sia la fine della guerra. L’assenza del primo esclude la pace. Per farla dobbiamo sapere perché combattiamo e soprattutto per quali scopi ci affrontano i nostri avversari. La geopolitica serve a questo. Obbliga a contemplare il conflitto dall’alto (prospettiva arbitrale) e di qui a calarsi per gradi e scale crescenti sul terreno disputato (sguardo conflittuale), misurando posta in gioco – oggetto del desiderio mimetico – intenzioni e risorse dei protagonisti. L’esercizio geopolitico educa al limite. Frena le pulsioni più sconsiderate dei contendenti mentre li include mimeticamente nella stessa equazione, in ossequio al principio di realtà. Prepara alla pace.

Esercizio fuori tempo? Non crediamo. Siamo invece convinti che compensi la «tendenza all’estremo». Eccitata dal teatro di cartapesta che dipinge effettivo l’inesistente mondo delle regole universali, eleva a diritto il non-diritto internazionale. Ricetta per finire sì la guerra, però via collisione definitiva capace di sradicare l’umanità da questo pianeta. Chi rassicura non cura. Contribuisce al disastro.

Traduciamo in geopolitica la tendenza all’estremo. Di che cosa ci parla, se non dell’occidentalizzazione del mondo figlia della rivoluzione francese? Scatenata dalle campagne di Napoleone, sviluppata con le britanniche guerre dell’oppio, le imprese coloniali di potenze europee vestite da civilizzazione delle razze inferiori, culminata nella formazione di un mercato mondiale delle merci e dei capitali sotto egida americana. Già anticipata nel 1848 da Karl Marx e Friedrich Engels quale stigma della società borghese nel Manifesto del Partito comunista: «La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. (…) L’incertezza e il movimento eterni distinguono l’epoca borghese da tutte le precedenti. (…) Il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia per tutto il globo terrestre. Dappertutto essa si deve ficcare, dappertutto stabilirsi, dappertutto stringere relazioni» 5. Sostituiamo «borghesia» con «Occidente» e scopriamo la dinamica geopolitica da allora corrente, di cui oggi sperimentiamo la crisi.

La tendenza all’estremo che avrebbe dovuto finire la storia ha deragliato dai binari economicistici genialmente tracciati dai due giovanotti renani. Gli studi antropologico-culturali che seguiranno in scia l’espansione coloniale erano agli albori. Radici e funzioni plurime delle guerre moderne, incentivate dalla tecnologia, cominciavano ad estenderne il raggio. Per investire ogni dimensione competitiva dei rapporti fra gruppi umani: i commerci come la cultura, la forza militare come la sfera del diritto, la finanza come lo sport. Processo da cui dirama il miraggio dell’occidentalizzazione del mondo quale fine (al maschile e al femminile) della storia umana. Deragliamento della teleologia hegeliana.

L’idea alquanto bizzarra di universalizzare l’Occidente, offesa al principio di non contraddizione, espone i limiti della tendenza all’estremo che si pretende illimitata. Sindrome di Clausewitz-Girard: l’occidentalizzazione dell’umanità è figlia dell’imitazione dei non occidentali, consapevole o meno, quanto della nostra bellicosa pulsione ecumenica. Non procedere unilaterale dal centro del potere alle periferie impotenti, bensì movimento doppio. Avvicinamento reciproco in vista del duello. Le periferie cercano il centro – soprattutto quando non lo ammettono a sé stesse, offrendosi alternative a un paradigma che hanno già introiettato – come il centro punta le periferie. Dialettica senza possibile sintesi, in accelerazione continua. Ormai fuori giri.

Se invece di procedere verso il trionfo la storia marcia a caso o in tondo, la tendenza all’estremo si radicalizza fino al parossismo. E produce guerre potenzialmente infinite perché infinibili. In senso doppio: senza scopo e senza termine. Si balla sull’orlo del vulcano. Siamo nell’èra della proliferazione delle armi di distruzione di massa, non solo nucleari. Ci vuole un formidabile atto di fede per convincersi che migliaia di bombe atomiche in possesso di attori sempre più imprevedibili e numerosi – lanciabili da vettori ipersonici capaci di colpire il bersaglio in pochi minuti e rendere inabitabili interi continenti – siano prodotte per i rispettivi magazzini. E che dire della favola per cui l’intelligenza artificiale non sarà mai autonoma dai suoi creatori?

La tendenza all’estremo scompiglia le cartesianerie degli strateghi da tavolino. Vedovi della deterrenza, ancien régime crollato con la demolizione del Muro. Non se la passano meglio gli storici, specie in estinzione per progressiva abolizione della disciplina, visto che sport del secolo è la frenetica marcia da fermo. Niente passato, niente futuro, niente da fare se non per immediato consumo.

L’improbabile occidentalizzazione del mondo scade in deoccidentalizzazione dell’Occidente. Soprattutto, in deameri­caniz­zazione dell’America (carta 1). A forza di esportare libertà e democrazia con guerre preventivo-educative regolarmente fallimentari – sofferenza, se in qualche angolo della memoria custodiamo il principio per cui ci si batte per vincere – quante ce ne restano a casa? Se molte democrazie residuali sono meno popolari di diverse autocrazie, perché cinesi o russi dovrebbero imitarci? Forse pensiamo che una campagna di liberazione di un popolo dal tiranno, stile invasione a stelle e strisce della Mesopotamia, trasformi d’un colpo il suddito in fanatico del modello Westminster? Rendiamo omaggio a Thomas Friedman, ideologo del terrapiattismo, cui in un sussulto inconsapevolmente autocritico scappò la domanda proibita: «L’Iraq è come è oggi perché Saddam è quello che è, oppure Saddam è quello che è perché l’Iraq è così?» 6. Quanto infine alla globalizzazione del consenso di Washington, paradigma economico dell’Occidente a trazione americana, che fare se gran parte del mondo dissente e ciascuno si dedica a recintare il proprio stile di produzione e scambio, per adattamenti successivi?

<address>Carta di Laura Canali - 2024
Carta di Laura Canali - 2024 

Eppure noi occidentali continuiamo a concepire le guerre come estrema risorsa del progresso di cui ci siamo intitolati l’esclusiva. Sempre più deboli e meno convinti, ma tuttora prigionieri di una sindrome da arto fantasma. Collaterale della tendenza all’estremo, per definizione avversa a riflettere. A misurare la realtà e il posto che provvisoriamente vi occupiamo. Quasi l’Occidente sia categoria metastorica. E la guerra levatrice della storia – dixit Marx, occidentalista inconcusso.

3. Lo iato fra ideologia e correlazione globale delle forze induce depressione in America, che s’identifica con the West in quanto protettorato di affidamento divino e comunità di valori (?). Ma la profondità della propria crisi impedisce di abiurare l’idea universale di progresso che ne giustifica l’esistenza e ne ha promosso la superiore potenza. Non si può finire in gloria la storia, d’accordo, epperò l’autocoscienza fondativa senza la quale l’America non esiste potrebbe porla di fronte all’alternativa del diavolo: guerra civile o guerra mondiale. O entrambe. In nome dei diritti umani si può anche suicidarsi con tutto il pianeta.

L’avvicinamento al bivio procede per conflitti senza scopo né conclusione (carta a colori 1). Nutriti dall’illimitismo americano. E delimita Stati Uniti e associati rispetto alle potenze non occidentali, dove qualche forma di pur peculiare razionalità persiste. L’antistrategia con steroidi praticata alla Casa Bianca e dintorni esprime la «geopolitica per le classi medie» cui lo Stato profondo in confusione postula ispirarsi. Anatema agli occhi degli ipercapitalisti a stelle e strisce, per i quali nemmeno il cielo è limite. Pensiamo a Elon Musk e a Jeff Bezos, secondo e terzo uomo più ricco della Terra, che immaginano di esportare l’umanità oltre questo pianeta, posto che ci sta troppo stretto. Sottotesto: possiamo finire di distruggerlo e cominciare a colonizzare l’universo. Musk ci vuole su Marte. Bezos rilancia: trilioni di umani fluttueranno su enormi stazioni spaziali nello spazio interplanetario. Ci si può aspettare di tutto da chi (Musk) è stato punito dalla storia generando una figlia comunista e dal rivale che ragazzino allenava il suo talento tecnologico installando un allarme elettrico per impedire ai fratellini di entrargli in stanza. Profetiche visioni del futuro? Da buoni veteroeuropei, preferiamo la ricetta del socialdemocratico viennese Franz Vranitzky, già cancelliere austriaco: «Chi ha delle visioni deve visitare un medico» 7.

<address>Carta di Laura Canali - 2024
Carta di Laura Canali - 2024 

Ma più noi occidentali invecchiamo, più soffriamo di mimetismo diacronico. Imitiamo i nostri grandi condottieri d’antan, senza temere il ridicolo. È il caso di Emmanuel Macron in mantello napoleonico, pronto a una campagna militare contro la Russia. E dei dirigenti polacchi, baltici e scandinavi che vorrebbero cancellare la Federazione Russa dalla carta geografica per dar luogo a un variopinto festival di frattaglie «post-coloniali» (carte a colori 2 e 3).

<address>Carta di Laura Canali - 2024
Carta di Laura Canali - 2024 

<address>Carta di Laura Canali - 2024
Carta di Laura Canali - 2024 

Clima neofuturista da guerra sola igiene del mondo che annebbia tanto insospettabili commentatori mainstream quanto militari in servizio e non. Così Janan Ganesh, editorialista del Financial Times, stabilisce l’equazione pace=stagnazione e invita ad assaggiare la guerra quale «stimolante». Droga potente, i cui effetti Ganesh descrive in tre stadi: «Primo, il trauma obbliga a immaginare nuovi e strani posti. Secondo, le idee che ne derivano si vendono più facilmente perché le idee dominanti sono ormai macchiate di sangue. Terzo, la violenza provoca spesso qualche innovazione tecnica» 8. Echeggia il generale François Lecointre, già capo di Stato maggiore delle Armate francesi, sicuro che entro dieci anni noi europei dovremo ricolonizzare l’Africa perché non potremo più accettare di «confinare col caos». In ogni caso, «possiamo uccidere solo per la Francia, non per la democrazia» 9. Qui Lecointre emula il Robespierre appreso a scuola: «La più stravagante idea che possa nascere nella testa di un politico è di credere che a un popolo basti entrare a mano armata presso un popolo straniero per fargli adottare le sue leggi e la sua costituzione» 10.

<address>Carta di Laura Canali - 2024
Carta di Laura Canali - 2024 

L’illimitismo dei limitati che noi siamo genera mostri. Anziché indurci alla modestia, allo studio della realtà quindi alla ricerca del compromesso, invita alla proliferazione dei conflitti senza fine (in senso doppio). La guerra scade a massacro. Sangue per sangue. Secondo due tipologie prevalenti, possibili preludi alla terza, intesa guerra mondiale: il conflitto più o meno indiretto, via clienti (proxies), vedi Ucraina (carte a colori 4 e 5); e la guerra al terrore, stile Israele contro amās alias Iran (carta a colori 6). Sull’uso di clienti o mercenari per risparmiare le proprie forze la prima e ultima parola l’ha scritta ante litteram Hegel nella Fenomenologia, descrivendo la dialettica servo/padrone. Dove il padrone si scopre dipendente dal lavoro del servo, sicché tende ad abbandonarlo prima di esserne consumato.

<address>Carta di Laura Canali - 2024
Carta di Laura Canali - 2024 

La cosiddetta war on terror offre il vantaggio della revoca in qualsiasi momento, spedendo il terrorista emancipato a Oslo dove riceverà il Nobel per la pace, salvo ridemonizzarlo secondo necessità. Può però produrre l’effetto di abbassare lo Stato controterrorista al grado di terrorista, perché l’obiettivo dichiarato di entrambi è ammazzare tutti i nemici. L’America ha sperimentato crasi delle due tipologie, per esempio mobilitando soci atlantici od occasionali contro al-Qā‘ida e il regime talibano, quintessenza del terrore jihadista, solo per logorarsi e fuggire da Kabul. Nella lucida sintesi di Osama bin Laden, riferita a Bush figlio: «È stato facile provocare quest’amministrazione e portarla là dove volevamo. Ci basta mandare in Estremo Oriente due mujahidin a sollevare una banderuola di al-Qā‘ida perché i generali vi si affrettino, aumentando così le perdite umane, finanziarie e politiche, senza fare niente di notevole, tranne ottenere alcuni benefici per le loro società private» 11.

<address>Carta di Laura Canali - 2024
Carta di Laura Canali - 2024 

Le nevrosi autodistruttive di noi occidentali – nordamericani, europei e oceanici, non considerando tali giapponesi e sudcoreani come vorrebbe il cliché washingtoniano – incentivano il disordine. E incoraggiano i rivali. Così Xi Jinping constata che «la più importante caratteristica del mondo d’oggi è, in una parola, “caos”. E questa tendenza pare debba continuare». Poi, rivolgendosi alle telecamere con Putin al fianco: «Stiamo vivendo cambiamenti che non abbiamo visto da cent’anni. E noi li guidiamo insieme» (carta 2) 12.

<address>Carta di Laura Canali - 2024
Carta di Laura Canali - 2024 

In una logica a somma zero che contempli l’ipotesi della superiore astuzia del nostro campo, potremmo intendere i nostri autogol tattici quali mascheramenti per convincere i competitori che l’Occidente è moribondo, sicché azzarderanno passi che non possono permettersi e si faranno male da soli. Putin marciante su Kiev docet. Ma attribuiremmo eccesso di astuzia ai nostri strateghi senza strategia. Ai quali sembra semmai attagliarsi la filosofia flippista di Paperino, illustrata da Carl Barks in un celebre fumetto, per cui nella vita conviene affidarsi al lancio della monetina (figura 1) 13.

media_alt

4. Nel globo astrategico la geopolitica occidentale è nottola di Minerva. Si leva al tramonto, contempla i frammenti della scena planetaria in conflitto e ne ricompone idealmente i pezzi rabberciando il vaso di Pandora in frantumi per ricomprimervi i mali del mondo. Tre i punti di vista dei protagonisti: rassegnati, resistenti e opportunisti. I primi, veteroeuropei accompagnati dalla marea crescente dei nordamericani intristiti, più straniti intellettuali d’ogni colore, sentono inarrestabile il declino e adottano la divisa di Orwell: siamo impegnati in un gioco che non possiamo vincere; alcuni fallimenti sono migliori di altri – questo è tutto. Gli altri – immortali neoconservatori a stelle e strisce, tardocoloniali britannici labbra strette e sguardo largo, francesi educati a sembrare più di quel che sono, avanguardie antirusse dell’Est europeo che sellano i cavalli per la carica finale su Mosca – sperano di rovesciare il tavolo. Per preservare la propria relativa pace e scaricarne i costi sul cosiddetto Resto, stragrande maggioranza degli umani, i sette miliardi su otto dell’altrettanto cosiddetto Sud Globale (tabella 1). Infine, le potenze intermedie che nella crisi dell’Occidente sentono l’occasione di allargare la propria sfera d’influenza: turchi, indiani, polacchi, giapponesi oggi, dopodomani forse brasiliani, nigeriani e coreani riuniti.

media_alt

Una constatazione angustia e insieme eccita gli intelligenti nelle citate famiglie: per la prima volta nella storia universale la partita si gioca davvero sulla scala mondiale. Ma la Guerra Grande non è ancora riducibile a equazione unica. La brillante formula di papa Francesco – «terza guerra mondiale a pezzi» – non va presa alla lettera. Le guerre mondiali sono insiemi variabili ma coerenti. Qui i pezzi del puzzle non sono composti attorno a un centro, quindi non sono periferie ma potenziali centri regionali in (ri)formazione causa declino dell’intenibile ecumene a stelle e strisce. Pezzi di terra e di mare che l’America in ritirata astrategica non può e/o non vuole trattenere nel proprio impero (carta a colori 7).

<address>Carta di Laura Canali - 2024
Carta di Laura Canali - 2024 

Deglobalizzazione e deamericanizzazione sono le due facce di una crisi annunciata che coglie impreparato il Numero Uno. Eppure i primi allarmi erano risuonati vent’anni fa dalla Beltway, quando parte dello Stato profondo ancora funzionava e diagnosticava insostenibile l’impero mondiale, trappola in cui il sovietico suicida l’aveva involontariamente trascinato.

Ne risulta un’ingovernata frammentazione geopolitica. Nemici e amici sono categorie provvisorie e le carte vengono rimescolate nei diversi teatri di tensione dove l’America si confronta con i competitori massimi, Cina e Russia, finta coppia destinata a scoppiare semmai Washington scegliesse l’una per combattere l’altra. Noi eurasiatici non abbiamo ancora finito le guerre di successione prodotte dalla disintegrazione dei nostri grandi imperi. Ucraina e Israele/Palestina sono terremoti rispettivamente prodotti dall’incrocio delle faglie sismiche russo-germano-asburgica e anglo-ottomana. Possiamo immaginare che la resezione dell’impero americano si produca in pace?

La partizione davvero rilevante su scala mondiale separa oggi chi vuole e può combattere da chi non può o non vuole. La potenza non dipende tanto dagli arsenali militari e dalle tecnologie, tantomeno dal volume della produzione autocertificato via improbabile pil, quanto dalla disponibilità di una collettività a battersi. Con le armi. E in tutte le dimensioni dei conflitti attuali. Determinanti demografia e identità condivisa. Ovvero popolazioni giovani e disponibili in caso estremo a morire per la patria.

In questo scenario le macrocategorie di Occidente e Resto del mondo valgono poco la prima nulla la seconda. Alla prova della guerra in Europa gli europei si confermano divisi fra loro e in diverso rapporto con il capocordata americano. Quanto al Resto non è l’anti-Occidente. Se non nel senso di quella vaga fraternità anticoloniale che avvicina africani, asiatici e latinoamericani. Nel pentolone dei Brics in allargamento ribolle di tutto. In opportunistica attesa di disputarsi spazi di sovranità resi contendibili dalla ritrazione americana.

Quel che resta dell’Occidente è attraversato da tre crisi. Psicologica, in quanto formato da potenze che hanno dominato gli ultimi cinque secoli di storia e temono di non poterne governare il sesto; umana, stante la carenza numerica e culturale di forze disposte a battersi; strategica, vista la divergenza di interessi in un campo tenuto insieme – sarebbe ora di ammetterlo – dal Nemico sovietico, molto meno da un’empatia valoriale.

Noi europei abbiamo trascorso la modernità a massacrarci, salvo parziali intervalli anche lunghi (Vienna 1815-Sarajevo 1914) fondati sull’equilibrio della potenza a prevalenza britannica e francese, finché il tardo imperialismo tedesco fondato sulla razza non richiamò in Europa i transfughi nordamericani. Decisi ad archiviare il balance of power per stabilire la propria egemonia sul Vecchio Continente, condizione del primato mondiale.

Perché stupirsi se ci scopriamo spaesati di fronte a tanto sconvolgimento? Inutile cercare ricette nel passato. Il foglio sul quale disegnare strategia è bianco. Per tutti: americani, cinesi, russi, europei. Tacciamo del Resto, abituato a subire le potenze. Battezzato Maggioranza Mondiale da Mosca, che vuol servirsene come leva per far ingoiare a Obama la velenosa sentenza sulla Russia potenza regionale che Putin considerò dichiarazione di guerra – tanto da scatenarla lui con l’invasione del­l’Ucraina, con grande scorno dei cinesi (carte 3 e 4). Per capirci qualcosa, ripartiamo dalla carta matrice di Limes, Caoslandia vs Ordolandia. Bipartizione semplificatrice ma non semplicistica.

<address>Carta di Laura Canali - 2024
Carta di Laura Canali - 2024 

La posta in gioco su scala globale è palese: dove passerà la linea di faglia fra Caoslandia e Ordolandia nei prossimi decenni? Detto dagli occidentali apocalittici: riusciranno i nostri eroi a bloccare l’invasione del Sud, se necessario con le armi? Geopolitica delle viscere. Dilagante in America e in quasi tutti i paesi europei.

<address>Carta di Laura Canali - 2024
Carta di Laura Canali - 2024 

Le terre del caos o di Hobbes – omaggio al teorico del bellum omnium contra omnes – le abbiamo interpretate, disegnate e via via aggiornate a partire da una traccia: la Nuova Carta del Pentagono firmata da Thomas P. M. Bartlett, consigliere del segretario alla Difesa, nel marzo 2003 14. Primo tentativo di cartografare la grand strategy americana nel «momento unipolare». Gli Stati vi erano divisi tra beati ammessi nel Nucleo Funzionale della globalizzazione e disgraziati intrappolati nella Sacca Non-Integrata, sconnessi da noi globalizzati. Fra i due una fascia di potenziale sutura: dal Messico al Brasile, dal Sudafrica al Marocco e all’Algeria, dalla Grecia alla Turchia (l’Italia era invisibile a Bartlett) fino a Pakistan, Thailandia, Malaysia, Filippine, Indonesia. Nell’America ancora ottimista, che proprio in quei giorni celebrava la «missione compiuta» in Iraq senza rendersi conto che quella «vittoria» ne stava accelerando il declino, la carta intendeva assegnare alle élite di Washington il compito del dopo-guerra fredda: globalizzare/americanizzare il pianeta. Più «tendenza all’estremo» di così difficile immaginare, salvi Musk e Bezos. Il mondo, non l’impero. Ironia della storia, Bartlett citava fra i globalizzati (sic) Cina, Russia e India, salvo avvertire in postilla che «potremmo perdere quei paesi». Detto e vent’anni dopo fatto.

L’idea di Bartlett e dei neocon che inneggiavano alla Nuova Roma – trascurando che quell’impero verteva sul limes – è fallita. Washington si concepiva faro destinato a estendere all’orbe terracqueo il fascio di luce verde che eccitava Gatsby, in hoc signo vinces del destino manifesto. L’illuminazione è ormai ridotta. Prevale la «tendenza al minimo». Dove il minimo, forse il massimo, è impedire che Caoslandia integri l’America. Che cos’altro è lo spettro della guerra civile, evocato dai media e dall’omonimo film, con ovvio intento apotropaico? 15.

Osserviamo con occhio disincantato la nostra mappa (carta a colori 8 - in apertura). E proiettiamola indietro nel tempo. Prima nella fase alta della modernità, il secolo tra Vienna e Sarajevo. L’odierna Caoslandia era campo di battaglia fra le grandi potenze del Nord, Francia e Inghilterra in testa. Bagarre per l’Africa, parallela alla corsa all’Ovest dell’America e alla sua effettiva unificazione nel 1865, poi alla penetrazione giapponese nell’Asia del Sud-Est, mentre russi, inglesi, americani ed europei banchettavano con le spoglie della Cina. Il trentennio delle due guerre mondiali (1914-45) elimina Giappone, Germania e Italia dal novero delle potenze, completa il passaggio di testimone al vertice da Londra a Washington e sancisce la fine dell’ordine eurocentrico. Segue guerra fredda, quando gli europei – vinti, vincitori o vie di mezzo (Francia) – su pressione americana smantellano a malincuore le colonie per concentrarsi sul contenimento dell’Unione Sovietica e del morbo comunista. Si torna a un ordine mondiale, imperniato sul Muro di Berlino (1945-91). Restando nella logica della bipartizione semplificatrice, osserviamo nei quasi due secoli che separano il congresso di Vienna dal suicidio dell’Urss una torsione ad angolo retto dell’asse strategico globale dall’opposizione Nord-Sud verso quella Est-Ovest. Seguono il decennio unipolare (1991-2001), poi un ventennio di assestamento, definito post-guerra fredda perché era impossibile stabilirne il carattere. L’invasione dell’Ucraina, ovvero l’attacco volutamente provocatorio della Russia all’America, seguito dai conflitti mediorientali lungo la faglia levantina che connette Occidente e Sud Globale/Maggioranza Mondiale incrocia le due direttrici, che agiscono a 360 gradi, fuori d’ogni paradigma e senza un egemone riconosciuto. L’angolo giro a polo unico è ruota senza perno e senza solco. Mai stati così lontani dal­l’ordine mondiale.

La macrofaglia di lunghissimo periodo resta Nord contro Sud. È il nostro futuro prossimo perché già passato remoto. A ben guardare, valeva sottopelle anche nel sistema sovietico-americano. Organizzato da potenze settentrionali che non potendosi combattere direttamente sfogavano la rivalità in Caoslandia. Est e Ovest: le due facce del Nord diviso tra due universalismi ma unito dal patto non scritto che consentiva a ciascuno di gestire il suo impero europeo, il Sud restando contestabile o negletto. La guerra fredda era la pace del Nord. Goduta da noi europei occidentali, subita dagli orientali e scaricata su gran parte dell’emisfero meridionale.

Stati Uniti, Cina e Russia si affrontano oggi con tutte le armi a disposizione: militari, economiche, legali, mediatiche, culturali. Unico limite, per ora, lo scontro diretto. Ma la guerra mondiale per accidente o per follia è prospettiva logica. Siamo tutti potenziali soci del club Caoslandia. Nessuno è al sicuro. All’orizzonte non si vede un’altra pace, una nuova guerra fredda. I blocchi non esistono più, le alleanze nemmeno. Sezionate in provvisori allineamenti, revocabili a seconda del momento e dei casi.

I tecnici discettano di guerra mondiale sotto soglia. Giochi di parole per trovare senso dove non ce n’è. Il conflitto fuori tutto su scala planetaria non lo vuole nessuno. Ma tutti pensano di doversi attrezzare per affrontare l’indefinibile mischia in corso. Solo non sanno come, data l’imprevedibilità delle minacce.

Il pericolo maggiore è l’eccitazione con cui i protagonisti giocano la carta della propaganda, l’altro nome della disinformazione. Al punto che consciamente o meno finiscono per credervi. Nessuna tregua, nessun vero negoziato è possibile se non a partire dal principio di realtà. Esercizio cui le potenze adulte erano un tempo allenate. Oggi sono intossicate dalla nuvola delle propagande, che mescolandosi formano un cumulonembo diffuso nello spaziotempo mediatico. Anticipazione di una tempesta troppo attesa. Succede quando rifiuti la realtà e te ne inventi una, consolatoria. Senza accorgerti che ti stai lasciando trasportare dalla corrente.

Qui sta il tallone d’Achille dell’America. Nella Guerra Grande la sua narrazione (narrative) è fuori tempo, fuori tono. Deprimente al grado accademico-elitario, segnato dalla nevrosi dei canoni propri intesi universali, dalla reductio ad Hitlerum – tutti i capi nemici sono Hitler, dunque non lo è nessuno, con postuma riabilitazione del Führer – al paradigma Tucidide, classico più citato che letto dal quale augusti strateghi intendono estrarre la cifra segreta delle guerre destinali, senza termine né scopo. Non osiamo immaginare che cosa sarà di questa antistoria for dummies quando la campagna contro gli studi classici che furoreggia nei campus avrà prodotto frutti definitivi.

Finché si tratta della comunicazione di guerra, passi. Ma qui è in ballo il soft power, la più efficace delle armi. Quella che spinge gli altri, nemici inclusi, a considerarti degno d’imitazione. Il potere che ha magnetizzato popoli d’ogni latitudine per i decenni alti del dopo-seconda guerra mondiale ha perso slancio. Scade a poco convinta imitazione di sé stesso. Hollywood non è adatta al clima post-hollywoodiano. Il vettore immaginifico del sogno americano non funziona in casa, figuriamoci fuori. La pedagogia filmica e musicale degli anni Cinquanta, decennio magico nella memoria storica a stelle e strisce, è materiale da cineclub. I suoi surrogati correnti, al meglio, diversivi. Ogni paese che si rispetti produce le sue serie televisive, comfort zones e aggregatrici sociali su misura. Diffonde il senso di appartenenza necessario in qualsiasi competizione, dalle Olimpiadi alla guerra calda. La cultura di massa, resa immediata e pervasiva dalla Rete, contribuisce a ritagliare le sfere d’influenza nel mondo post-americano in gestazione.

Sul fronte della narrazione l’America ha già perso. E molti satelliti europei, tra cui noi, nemmeno partecipano alla competizione. Disgregazione progressiva del demos per proliferazione di avatar egocentrati. Non male, per chi si vorrebbe in lotta per la democrazia. Il Mal d’America, anche nostro, è tutto qui: se non ti rispetti non puoi pretendere il rispetto altrui. Fine della deterrenza.

Per meglio capire che cosa stiamo perdendo, un salto nel primo Occidente, figlio della rivoluzione francese. Quando la teatralizzazione della storia è ancora alfa e omega della politica e della pedagogia.

5. «Vous êtes un homme!». Napoleone Bonaparte, imperatore dei fran­cesi, accoglie così Johann Wolfgang von Goethe (figura 2), forse massimo genio letterario d’ogni tempo. «Voi siete un uomo!» è l’omaggio del nuovo Augusto al Virgilio da cui attende di essere cantato. Sono le 10 del mattino di domenica 2 ottobre 1808. Siamo nella Sala delle Udienze del barocco Palazzo della Luogotenenza di Erfurt, media città turingia già assegnata alla Prussia e appena incorporata dalla Francia. La scena: una stanza lunga 8 metri e 90, larga 6,45, alta 3,2. I due protagonisti sono di altezza quasi eguale: Napoleone un metro e 69, Goethe due o tre centimetri in più. Il primo in sobria tenuta imperial-militare. Il poeta in parrucca incipriata, elegante marsina ricamata, pantaloni al ginocchio, calze di seta, spadino inguainato al fianco, scarpe lucide con fibbia. Napoleone è sorpreso. S’aspettava un essere sciatto e sgraziato, come da suo stereotipo sugli artisti tedeschi. Sta aggredendo la colazione servita da un grasso ciambellano polacco, condivisa col suo sulfureo braccio destro, il duca Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, che in quei giorni consuma il suo tradimento, e un paio di marescialli.

media_alt

Prima di tornare nella Sala delle Udienze, uno sguardo al contesto. Napoleone ha invitato a Erfurt il giovane zar Alessandro I per convincerlo a santificare l’eterna alleanza destinata a sconfiggere Austria e Inghilterra, cui seguirà spartizione del continente fra i due imperatori. Attorno a loro – annota un illustre testimone, il poeta illuminista Christoph Martin Wieland – ruotano dal 27 settembre al 14 ottobre 1808 «quattro re germanici con contorno di principi tedeschi regnanti e non regnanti più una quantità incalcolabile di matador e magnati tedeschi, francesi e russi, per finirla una volta per tutte, se possibile, con le vecchie faide». Non mancano il principe di Prussia e l’inviato degli Asburgo, mescolati a una dozzina di marescialli napoleonici neodotati di titolo nobiliare, più circa 57 mila soldati selezionati per imponenza.

Grandiosa messa in scena. Rigido il protocollo imperiale, dalle udienze mattutine alla colazione di mezzodì, dalle battute di caccia al pranzo serale nella vicina Weimar seguito da spettacoli teatrali recitati dalle stelle del Théâtre français con scenografie originali ippotrasportate da Parigi. Fra loro spicca il celeberrimo Talma, Napoleone del palcoscenico adorato dal Napoleone vero. La mezza luce delle candele invita gli astanti a studiarsi. Goethe ne profitta per spiare fattezze e tic dell’imperatore, lui che pure si vanta presente a Valmy – vittorioso cannoneggiamento francese che il 20 settembre 1792 sbaraglia le armate controrivoluzionarie e marca la transizione dalle guerre in merletti agli eserciti di popolo – come a Jena, il 14 ottobre 1806, dove ha rischiato la pelle. Il calendario drammaturgico lo fissa l’imperatore stesso, che non manca uno spettacolo – Corneille, Racine, Voltaire – sempre accanto allo zar. Le regole sono severe, studiate per solennizzare il convegno. Un rullo di tamburi segnala l’arrivo di un monarca, per gli imperatori diventa triplo. Quando per errore i tamburini dedicano tre sequenze al re del Württemberg, il comandante li fulmina: «Tacete, non è che un re!».

L’imperatore è impegnato a convincere Alessandro del patto fra dominatori dell’Est e dell’Ovest. Il suo magnetismo pare intatto. Quasi tutti coloro che l’incrociano per la prima volta cadono in deliquio, raramente per piaggeria. Ma dietro le quinte gli capita di perdere le staffe. Si lascia andare a qualche rozzezza, segno che le cattive notizie provenienti dalla Spagna, dove i francesi hanno rovesciato i Borbone ma restano impantananti nella controguerriglia, ne hanno scosso i nervi. La facilità con cui Napoleone straccia i trattati e impone suoi parenti sui troni delle terre acquisite ne incrina la reputazione e scuote la fiducia dei sovrani residui. A che vale accordarsi con l’imperatore dei francesi? Eppoi Napoleone soffre le trame di Talleyrand, che nell’ombra disfa quel che lui tesse con Alessandro, già di suo ostinato come un mulo. Non potranno sortirne che vaghissime intese. Formula privata di Talleyrand nei colloqui semiclandestini con lo zar: «Il popolo francese è civilizzato, il suo capo non lo è; il capo delle Russie è civilizzato, non il suo popolo. Quindi lo zar deve allearsi con il popolo francese». Il camaleontico consigliere di entrambi gli imperatori è convinto che le vere frontiere della Francia siano fra Pirenei, Alpi e Reno. Il resto? Follia di Napoleone, che in una delle sue sfuriate lo bollerà «merda in calze di seta».

Rieccoci nella stanza dove Napoleone sta ricevendo Goethe. Il primo incontro fra l’ancor giovane soldato còrso al culmine della gloria e il letterato dai mille talenti, qui in veste di consigliere segreto del duca di Weimar, resta soffuso d’aura misteriosa. Scarni appunti stesi da Goethe nel 1819 in forma di schema, oltre a criptiche testimonianze raccolte da amici e confidenti, lasciano intravvedere in quell’ora di intimità fra due titani la metafora del rapporto fra storia e sua teatralizzazione 16. Nel caso mancata. Per doppio eccesso di genio: a Napoleone sta stretta la fama dello stratega militare, lui che riscrivendo l’ordine del mondo cura di monumentalizzarsi; a Goethe, famoso al punto che le gazzette di mezza Europa spargono subito la notizia dell’udienza presso Bonaparte, preme il riconoscimento dell’imperatore, non certo l’urgenza di cucirgli addosso una narrazione laudatoria.

Il potere è tale se produce la rappresentazione di sé stesso. Qui potente e suo eventuale cantore sono talmente eccezionali da non potersi integrare. Napoleone, imperator gloriosus, dispersivo nei suoi molteplici interessi anche letterari. Goethe, assai consapevole della sua arte, sensibile all’omaggio del potere, monumento ambulante a sé stesso. Colossi fuori calibro per una classica scenografia in versi. Non se ne può pretendere una mitografia qualsiasi, di quelle che dipingono caduchi orizzonti di autoelevazione a futura memoria. Pure, Goethe non riuscirà più a separarsi dalla Legion d’Onore concessagli a Erfurt, quasi una dipendenza da quella fascetta rossa. Per lui Napoleone sarà d’ora in poi «mon empereur». Il quale non avrebbe bisogno di versificatori di corte perché già dirige il mondo come un regista di teatro. Letteralmente, abbiamo visto.

La conversazione si svolge in due tempi. Nel primo, Napoleone affascina Goethe, che si aspetta un’auto-apologia delle glorie imperiali. L’imperatore imbastisce invece un forbito dialogo letterario. Lo conquista trattandolo da pari. Dialogo fra artisti. Gli riassume il Werther che giura di aver letto e riletto sette volte. Nella sua pedanteria da dilettante Napoleone fa notare l’improprietà di un passo – non sapremo mai quale – in cui l’autore avrebbe violato l’unitarietà di natura e verità: «Perché lo avete fatto? Non è naturale». Goethe ride e gli dà ragione – «sì, lì c’è qualcosa di non vero, di non naturale, licenza poetica». L’imperatore pare placato. Poi, appunterà Goethe, «torna alla drammaturgia, con osservazioni molto importanti, di chi osserva il palcoscenico con attenzione massima, quasi da giudice criminale, e nota con grande profondità quanto il teatro francese stia deviando da natura e verità». Infine, la condanna delle tragedie centrate sul destino. Passatismo: «Ma che cosa si vuole inventare adesso col destino, la politica è il destino» (tondo nostro, n.d.r). La politica difetta ai drammi francesi, violazione della realistica convergenza di natura e verità. L’imperatore governa il mondo e così detta la verità che il drammaturgo deve inscenare. Dalla poesia Napoleone pretende lo stesso realismo della storiografia. Il teatro è il campo di battaglia, l’arena della gloria. E viceversa. Napoleone invita Goethe a scrivere insieme la storia perché la fanno insieme. Con la spada e con la penna. Il poeta ne è flatté.

Secondo atto. Dopo una pausa per spicciare con i marescialli qualche noia quotidiana, Napoleone si alza e con mossa svelta separa Goethe dai commensali, lo conduce nello stretto angolo del bovindo, dove danno le spalle ai notabili. Talleyrand si è congedato. Bonaparte si rivolge al poeta quasi sussurrando, si informa della famiglia, del suo rapporto con la corte di Weimar. Conversazione intima. «Lui sembra contento e si traduce nella sua lingua, solo in modo più deciso di quanto io mi sia potuto esprimere», osserva Goethe, colpito dall’irrequietezza mercuriale di Napoleone. Non sta mai fermo neanche quando ascolta e dopo ogni frase soggiunge: «Che dice il Signor Göth?» – per la fonetica francese l’e finale è sorda. La seduzione si fa pressante. Simpatia sincera, probabilmente. Più che ricambiata. Ma che cosa vuole l’imperatore dal poeta? Goethe non lo preciserà mai. Esistono però testimonianze che svelano l’arcano. Napoleone sperava di portare Goethe a Parigi perché vi scrivesse un dramma su Giulio Cesare imperniato sul dilemma di Bruto, convinto tirannicida ma «parricida» riluttante. Teatro pedagogico, che Rossini avrebbe dovuto mettere in musica. Scuola di principi e popoli, per rispondere infine alla domanda che perseguiterà l’imperatore durante tutta la vita: che cosa avrebbe potuto Cesare se fosse sopravvissuto, graziando dall’alto della sua clemenza il «figlio» mancato assassino? Di certo avrebbe anticipato e superato Augusto. L’errore di Cesare fu di non liquidare gli uomini che volevano ucciderlo, che lui da tempo conosceva bene. La realtà come sarebbe dovuta essere. Solo un genio drammaturgico avrebbe potuto crearla. Realtà effettiva (Wirklichkeit) in versi che muovono la storia.

La sera del 6 ottobre Goethe incrocia per l’ultima volta Napoleone al teatro di Weimar, dove l’imperatore ha preteso si rappresentasse La morte di Cesare, di Voltaire. Fuori un drappello di studenti patriottici è pronto al tirannicidio. Rinunceranno in extremis per timore di colpire qualche principe tedesco, mentre sulla scena Bruto sta accoltellando Cesare. Ha ragione Napoleone: l’arte è per natura realtà.

Quasi due secoli dopo, un callido consigliere del presidente Bush riformulerà la tesi del Bonaparte, da lui probabilmente ignorata. Rivolto a un giornalista del New York Times, spiega: «La gente come lei vive in quella che noi chiamiamo la comunità basata sulla realtà», dove ci si illude «che le soluzioni emergano dal giudizioso studio di una realtà comprensibile. Oggi il mondo non funziona più così. Adesso noi siamo un impero. E mentre agiamo, creiamo la nostra realtà. E mentre voi giudiziosamente studiate quella realtà, noi agiamo di nuovo, producendo nuove realtà, che voi potrete studiare. È così che si sistemano le cose. Noi siamo gli attori della storia. E a voi, a tutti voi, resta di studiarla» 17.

6. L’Italia è campione mondiale di beata incoscienza. Basta uno sguardo alle guerre e ai terremoti geopolitici che ci avvolgono per accorgersene. Siamo all’incrocio delle dinamiche di crisi Est-Ovest, esplose nel conflitto ucraino, e Nord-Sud, frontiera fra Ordolandia e Caoslandia. Qui le potenze si danno convegno in vista di una prova di forza anticipata dallo scontro Israele-Iran combattuto a Gaza, con contorno di focolai accesi dal Caucaso alla Siria e al Mar Rosso (carta a colori 9). Lo scenario per noi esiziale dell’intransitabilità degli stretti che ci connettono agli oceani, a cominciare dalla rotta Suez-Bāb al-Mandab, era ieri caso di scuola oggi cronaca.

<address>Carta di Laura Canali - 2024
Carta di Laura Canali - 2024 

Gli indicatori di base che consentono di accertare l’adattabilità a una guerra vera combattuta attorno o peggio dentro la Penisola segnano rosso.

Demografia: da oltre un decennio gli italiani diminuiscono a ritmo impressionante, soprattutto perché facciamo meno figli e gli immigrati (tecnicamente figli importati ma non sempre integrati) non compensano il declino, aggravato dall’emigrazione di giovani in cerca di un ambiente che ne riconosca i meriti (perdita netta di qualità). Tutto nel contesto di una grande transizione demografica. L’età mediana (47 anni, in crescita) mette a rischio previdenza e welfare, mentre mina la coe­sione sociale (tabella 2).

media_alt

Cultura: tre fortunatissime generazioni di pace sono cresciute nella certezza di non essere minacciate da nessuno, quindi esentate dalla difesa del paese. Ne derivano introversione e ignoranza strategica. La (scarsa) generazione Z si specchia negli smartphone. Il suo mondo reale è il virtuale. La collettività non esiste, siamo collezione di io.

Contesto strategico: la regressione dell’impero americano verso casa mette in questione la disponibilità del Numero Uno a surrogare i limiti difensivi nostrani. La favoletta dell’articolo 5 Nato, dove ognuno legge quel che vuole, è recitazione di maniera. Non esistono alternative allo scudo americano.

Ci consoliamo con l’idea che nessuno abbia voglia di colpirci. Errore grave: siamo già sotto tiro, sia pure non al grado bellico diretto (salvo droni e missili ḥūṯī nel Mar Rosso). L’Italia è preda golosa inadatta a difendersi. Restiamo uno dei paesi più ricchi e attraenti al mondo, con aziende, infrastrutture e tecnologie appetibili. I predatori cinesi, russi ma anche atlantici si servono con destrezza nel tesoro italiano, piluccando con gusto nel nostro colabrodo. Eppoi il vantaggio/pericolo della geografia: il molo centrale del Medioceano – privilegio di calibro mondiale – resta magnetico per qualsiasi potenza straniera. La robusta presenza militare americana, con basi essenziali per combattere nell’Euromediterraneo e depositi di bombe atomiche che ci rendono potenza nucleare passiva (cioè bersaglio), ne è testimone. Siamo certi che se un giorno Washington fosse costretta ad abbandonarci non saremo ridotti a ospitarvi eserciti ostili? Magari accogliendoli con fiori e canti di gioia?

Su tali premesse, una cura bellicista della nostra insicurezza pare tragicomica. Ammesso di disporre dei soldi, del consenso popolare e della volontà politica che non abbiamo, ci vorrebbero decenni per allestire Forze armate capaci di respingere eventuali aggressori. Quel che urge è rendere il nostro strumento militare in grado di fare la sua parte in coalizione. Obiettivo non impossibile, purché noi lo si voglia e i partner pure. Due enormi punti interrogativi. La guerra in Ucraina ha svelato le faglie che dividono la famiglia atlantica, più che sovraestesa: 32 paesi, dagli Stati Uniti al Montenegro, pronti a dividersi quando c’è la guerra, come mostra il caso ucraino. Quanto alla difesa europea, ovvero non americana, appartiene alle fantasie di consolazione. Specie per quanto riguarda la Bomba. Si legga in questo numero l’intervento dell’influente politologo tedesco Herfried Münkler, che alla domanda su chi sia abilitato a comandare l’ipotetico arsenale atomico Ue propone una rotazione fra le potenze della pentarchia che dovrebbe guidare l’Europa: Francia, Germania, Polonia, Spagna e Italia: «Tra questi paesi potrebbe circolare il “pulsante rosso” dell’alto comando, magari ogni mese o due. Immaginiamo. Prima è un polacco ad avere il pulsante per due mesi, poi magari toccherebbe a un italiano o a uno spagnolo e a un certo punto anche a un tedesco». Dal car sharing al bomb sharing? Se la sequenza fosse quella indicata da Münkler dubitiamo che il bottone giungerebbe a noi, secondi in staffetta. Saremmo probabilmente preceduti dalla fine del mondo.

Rimettiamo i piedi per terra. Non siamo fatti per la guerra. Siamo obbligati a lavorare per la pace. Senza aspettarci che altri lo facciano per noi. Proponiamo un principio strategico e una derivata tattica cui attenerci.

Il primo è riscoprire la diplomazia, sommersa dal frastuono delle propagande e dei cannoni (nell’ordine), il che presuppone un soprassalto di responsabilità politica e culturale: ragionare insieme per evitare il peggio, come fu ad esempio durante la Prima Repubblica. Il principio per cui la politica estera si fonda su un grado di concordia nazionale dovrebbe tornare premessa e scopo dello Stato.

La seconda è tattica geopolitico-militare. Non si deve fare la guerra se non per uno scopo definito. È il solo modo per poterla finire. L’America lo ha dimostrato imbarcandosi dopo il 1945 in imprese infinite contro questo o quel terrorista. Tutte perse o non vinte. Salvo una. La guerra del Golfo (1990-91) con cui punì l’Iraq per l’invasione del Kuwait. Bush padre ebbe la saggezza di non spingersi a Baghdad per rimuovere Saddam. Il figlio, di cui papà non aveva stima, fece o fu costretto a fare dodici anni dopo quell’errore capitale. Quel che è più grave, in perfetta buona fede. Non siamo l’America, d’accordo. Ma se decidessimo di orientare le nostre missioni militari sul principio che non si va in giro per il mondo per dimostrarci fedeli e utili agli alleati veri o presunti – ammesso che questi ci percepiscano tali – ma solo a protezione di interessi irrinunciabili, coinvolgendo ogni possibile partner, avremmo fatto un passo avanti verso la responsabilizzazione della democrazia italiana.

René Girard spiega che la catena di violenza che noi umani tendiamo a scatenare per imitazione viene sedata quando ci accorgiamo di non poter battere il nemico e di finire vittime delle passioni scatenate. Scatta allora la compensazione. La vendetta si consuma sul capro espiatorio, origine del conflitto. Sacrificio rituale che scarica la violenza e porta la pace. Supponiamo che la scelta del capro converga su chi non sa o non vuole difendersi. Ricorda qualcuno?

Note:

1. Cfr. A. Gnoli, «Un imperatore per il divino Hegel», la Repubblica, 28/2/1992.

2. C. von Clausewitz, Della guerra, Milano 2017, Mondadori, p. 15 e 17.

3. Ivi, p. 24.

4. R. Girard, Portare Clausewitz all’estremo, Milano 2008, Adelphi, p. 22. Il titolo originale, che preferiamo: Achever Clausewitz, ovvero Finire Clausewitz, Paris 2007, Cahiers Nord.

5. K. Marx, F. Engels, Manifest der Kommunistischen Partei, Stuttgart 1999, pp. 22-23.

6. T. Friedman, «Iraq without Saddam», The New York Times, 9/1/2002.

7. Il filosofo Rudolf Burger rivendica la paternità della sentenza. Ma è smentito dalla testimonianza del giornalista Hubertus Czernin, presente al momento in cui Vranitzky pronunciò la frase. Cfr. H. Czernin, «Die Geschichte vom Kanzler, den Visionen und dem Arzt», Der Standard, 23/9/1999.

8. J. Ganesh, «The price of peace is stagnation», Financial Times, 6/4/2024.

9. «Recoloniser le Sahel? Quand l’ex chef d’État Major de Macron indigne l’Afrique», Le Figaro Tv, YouTube, 14/4/2024.

10. M. de Robespierre, «Discours sur la guerre», 2/1/1792.

11. O. bin Laden, «Messaggio al popolo americano», in G. Kepel (a cura di), Al Qaeda. I testi, Roma-Bari 2006, Laterza, pp. 80-81.

12. Cit. in M. Pottiger, M. Gallagher, «No Substitute for Victory. America’s Competition With China Must Be Won, Not Managed», Foreign Affairs, May-June 2024.

13. La prima pubblicazione americana è del febbraio 1953 in Walt Disney’s Comics and Stories, n. 149. Appare in Italia nel numero 66/1953 di Topolino col titolo «Paperino e la filosofia flippista».

14. Cfr. T.P.M. Bartlett, The Pentagon’s New Map. War and Peace in the Twenty-First Century, New York 2004, Berkley Books. L’articolo originale appare su Esquire, marzo 2003, vol. 139, n. 3.

15. Civil War, diretto da Alex Garland, appena uscito.

16. Seguiamo in questo capitoletto la ricostruzione dell’incontro di Erfurt dovuta a G. Seibt, Goethe und Napoleon. Eine historische Begegnung, München 2008, Beck. Edizione italiana: Il poeta e l’imperatore. La volta che Goethe incontrò Napoleone, Roma 2009, Donzelli.

17. Cfr. R. Suskind, «Without a Doubt», The New York Times, 17/10/2004.