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TABUCCHIANA. Trent’anni dopo Pereira, i libri e il mutamento del canone

Ogni cultura elabora o fa proprio un canone, un insieme di autori e opere di riferimento che ne rispecchiano credenze e valori. I regimi dittatoriali li usano come strumento di propaganda e ogni allontanamento viene interpretato come un atto eversivo.

Quel che stupisce è che spesso alcuni tra i più fedeli osservatori del canone non si accorgono del gioco di potere che quest’ultimo sottende e vi aderiscono con una convinzione che ritengono, almeno in gran parte, libera e non condizionata.

È quanto accade almeno all’inizio a Pereira (l’indimenticabile protagonista di un romanzo di grande successo pubblicato da Feltrinelli esattamente trenta anni fa, nel gennaio 1994), che pensa che il Lisboa, il giornale per la cui pagina culturale lavora, sia apolitico e indipendente, e dovendosi confrontare per i suoi articoli con libri e scrittori, pur usando norme di elementare prudenza, che lo inducono a qualche autocensura, ritiene complessivamente di agire liberamente e nel rispetto di valori oggettivi.

Per questo hanno tanta importanza i libri che legge e che cambia, gli autori di cui parla e la funzione perturbante che provocheranno, nella rubrica Ricorrenze (i ‘coccodrilli’ in ricordo di grandi personalità), le scelte diverse e/o le letture sostanzialmente variate del giovane e ribelle Monteiro Rossi che, insinuandosi nei punti deboli della sua riflessione esistenziale (i quesiti sull’immortalità, una certa inquietudine che lo tormenta dopo la morte della moglie…), lo porteranno a rendersi conto della possibilità di interpretazioni alternative che si troverà gradualmente ad accettare.

Il passaggio, lento, sarà accompagnato da piccoli segnali che predispongono e ridestano il dubbio (l’accorgersi del clima mutato nel paese, della presenza di militari e bandiere, del silenzio dei giornali su gravi fatti di sangue…) e alimentano uno scontento all’inizio imprecisato, assieme a una delusione che si fa sempre più forte.

Per altro la teoria della “confederazione delle anime”, la possibilità che nella nostra vita possano succedersi diversi io egemoni differenziati l’uno dall’altro, propostagli dal dott. Cardoso (che, da cardiologo e dietologo qual è, avvia una cura che non è solo del corpo), dà un suggestivo tocco filosofico alla metamorfosi che lentamente il personaggio sperimenta dentro di sé.

Pereira cambia con l’apparizione nella sua vita di Monteiro Rossi (che l’anziano giornalista finirà per sentire come una sorta di alter ego: i romanzi di Tabucchi sono sempre pieni di doppi…), ma anche per quanto muovono in lui i colloqui con Padre António, con Ingeborg Delgado, con il cameriere del caffè, con il medico… Cambia venendo a contatto con le letture e convinzioni dei suoi interlocutori e con i loro libri, compresi tra questi perfino quelli… del suo stesso autore.

Se infatti l’“ipotesi” di médecins-philosophes come Binet e Ribot, sostenitori della possibilità psicologica del cambiamento, è messa sulle labbra del dottor Cardoso, anche i “sentieri che si biforcano” di Borges, le immagini che mutano e si perdono nella vita e sulle fotografie (come l’amica Susan Sontag gli aveva insegnato), l’autopsicografia di Pessoa e dei suoi eteronimi, qui appena accennati, e che tanto hanno contato per Tabucchi, alimentano in modo sotterraneo il percorso di crescita, di tardiva educazione morale, politica, esistenziale di Pereira, che comincerà a confrontarsi davvero con la cultura europea – così lontana dall’asfittico e nazionalista Portogallo di Salazar – fino a inserire nella sua finale testimonianza autori eterodossi e libri (sia pur di altri tempi) che inneggiano alla libertà.

Antonio Tabucchi nel 2010 a Stoccolma (©anna dolfi)

Sostiene Pereira (uno dei romanzi più apparentemente facili e godibili di fine Novecento) è ricco di nomi di filosofi che appartengono a culture e progettualità politiche diverse (Vico, Hegel, Feuerbach, Marx…), di scrittori soprattutto francesi che propongono alternative interpretazioni della realtà (Claudel, Mauriac, Bernanos…), di vittime/poeti interdetti (García Lorca), di portoghesi teorici della molteplicità (Pessoa), di italiani di cui si può parlare diversamente (D’Annunzio, Marinetti…), di ‘oggetti’ di necrologi da lui scelti (T. E. Lawrence, Rilke) o affidati al giovane Monteiro (Majakovskij…) rifiutati e poi accettati, se non nella forma certo nella sostanza (Marinetti…).

Soprattutto sono significativi gli autori a cui Pereira dedica le sue ultime traduzioni: Maupassant, Balzac (con Honorine, uno splendido racconto secondario sul pentimento), Daudet (con il primo, vibrante, dei sui Contes du lundi)…

Conteranno questi libri insieme alle letture di un’ebrea tedesca costretta a fuggire, alle opinioni degli scrittori, alla loro figura morale (lo scontento di Mann emigrato negli Stati Uniti per sfuggire al nazismo, le denunce di Bernanos contro il clero spagnolo in Les Grands Cimetières sous la lune).

L’autorità del nome combinata all’eticità, in contrapposizione alla prevedibile acquiescenza al canone stabilito, condizionerà, alla pari di quel che comincia a vedere anche grazie alle confidenze del barman del Caffè Orquídea, necessariamente esterofile, ai frammenti di conversazione carpiti nei locali pubblici…, la presa di coscienza di Pereira.

È progressivo il suo fastidio per un modo di vivere privo di varietà, di fantasia, si tratti di politica, di idee, di alimentazione. Scoprire il mondo equivarrà a educarsi alla libertà, a imparare a leggere in chiave autobiografica la grande letteratura, sì da fare di un romanzo breve sul pentimento l’occasione per un’esperienza ‘saudosa’ che può avviare il lavoro del lutto.

Pereira intuisce che si può cominciare a parlare per interposta persona (ad esempio traducendo La dernière classe di Daudet, che con una subitanea partenza per sfuggire all’oppressione e un finale grido d’amore per il proprio paese occupato anticipa la conclusione di Sostiene Pereira), e che, a dispetto di ogni nostalgia, l’invito ad andarsene, a non essere complici, può diventare realtà.

La crescita di Pereira, la liquidazione del suo primo, acquiescente super-io stanno compiendosi ancora prima della morte del suo giovane ospite, quando comincia a trovare noiose le novelle di Camilo Castelo Branco, preferendo il Journal d’un curé de campagne, “serio, etico, che tratta di problemi fondamentali, un libro che avrebbe fatto bene alla coscienza dei lettori”; quando trova inaccettabile scrivere su Camões nella giornata della celebrazione della razza, quando comincia a eliminare il cibo zuccherato e ripetitivo che era diventato una sorta di compensazione alla frustrazione.

Quando si accorge che la vita nella quale si era sempre visto non gli basta più e affida a una testimonianza, a pagine scritte (in definitiva ad un libro: quello che stiamo leggendo), un messaggio destinato a raggiungere, tra noi, tutti quelli a cui una vita non basta.

Nella cover: Tabucchi a Stoccolma nel 2010 (© Anna Dolfi)

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Anna Dolfi

Anna Dolfi, professore emerito dell’Università di Firenze (dove ha insegnato fino al 2018 Letteratura italiana moderna e contemporanea), è Socio Nazionale dell’Accademia dei Lincei. Tra i maggiori studiosi di Leopardi, di leopardismo, di ermetismo, di narrativa e poesia del Novecento, ha progettato e curato volumi di taglio comparatistico dedicati alle “Forme della soggettività” sulle tematiche del journal intime, della scrittura epistolare, di malinconia e malattia malinconica, di nevrosi e follia, di alterità e doppio nelle letterature moderne, e raccolte sul tema dello stabat mater, sulla saggistica degli scrittori, la riflessione filosofica nella narrativa, il non finito, il mito proustiano, le biblioteche reali e immaginarie, il rapporto tra notturni e musica, letteratura e fotografia, ebraismo e testimonianza. Dopo due libri su Tabucchi (“Antonio Tabucchi, la specularità, il rimorso”, 2006; “Gli oggetti e il tempo della saudade. Le storie inafferrabili di Antonio Tabucchi”, 2010), ha curato per la Feltrinelli l’ultimo, postumo libro di saggi dello scrittore (“Di tutto resta un poco. Letteratura e cinema”, 2013). Su Bassani imprescindibili i suoi libri che ne leggono l’intera opera alla luce della malinconia e delle strutture e proiezioni dello sguardo (“Giorgio Bassani. Una scrittura della malinconia”, 2003; “Dopo la morte dell’io. percorsi bassaniani ‘di là dal cuore'”, 2017). A sua cura l’edizione critica e commentata delle “Poesie complete” di Bassani (Feltrinelli, 2021).

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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