Anne Sexton, poesie e demoni di una donna • Terzo Pianeta ...

Anne Sexton, poesie e demoni di una donna

 
 
Anne Sexton, volto intarsiato e cornice d’occhi intensi, per più della metà della sua vita è stata inconsapevole scrigno di poesia dissacrante, corrosiva, dolente e improvvisamente esplosa nel canto interiore di una donna dalle molte anime, rapita da una vorticosa danza d’inquietudini emotive: passione, sofferenza, disillusione, scandiscono un’esistenza alla ricerca e affermazione della propria identità, in un profondo e tormentato viaggio compiuto al confine fra creazione e devastazione.

Vita e poesie di Anne Sexton: Donna dalle molte anime rapita da una vorticosa danza d'inquietudini, lungo un viaggio al confine fra creazione e devastazione. (https://terzopianeta.info)Strega. Posseduta. Pazza. Secoli di donne bruciate, esorcizzate, curate, solo perché si rifiutavano di recitare la parte della donna giusta, oppure non ne erano capaci.

Non ne ero capace nemmeno io e per questo, anche se non era più tempo di roghi, mi sentivo uguale a quelle donne torturate, mi pareva quasi di provare sulla mia carne le fiamme e gli anatemi. Non sapevo come fare a essere la donna giusta, non mi piacevano le pentole, i cosmetici e le sete, pensavo di essere strana, pazza, diversa, e si può dire che lo fossi davvero. Perché ero diversa dal personaggio dipinto nel quadro che avrebbe dovuto essere la mia vita: un quadro pieno di bianco. Il bianco delle staccionate, il bianco dei piatti e delle lenzuola, di un filo di perle e di un sorriso perfetto da perfetta moglie e madre.

Ci ho provato, a vivere in quel quadro. Ero giovane, non avevo ancora capito chi ero in realtà, ma conoscevo la parte che avrei dovuto recitare, e mi impegnavo a muovermi e a dire le battute nel modo corretto. Ma nella mia testa continuavano a esserci altri colori, altri desideri. C’erano pensieri che credevo, e lo credevano tutti quelli intorno a me, andassero curati, ma invece non dovevo guarirli, ma solo esprimerli, e alla fine ho trovato un modo, il mio modo – la poesia – per strappare la tela e uscire dal quadro, il mio modo per dire e capire chi sono: sono una strega, sono una pazza, sono una donna, sono una persona.

 
Anne Gray Harvey nacque a Newton, nel Massachusetts, uno dei territori del New England dove gli antenati di entrambi i suoi genitori, giunsero nel XVII secolo, allevatori e agricoltori britannici che nel tempo seppero conquistare posizioni di prestigio sociale, potere economico e politico.

Il padre, Ralph Churchill, era un facoltoso imprenditore del settore laniero, erede di Elizabeth Anderson e Louis Harvey, presidente della National Bank di Wellesley, cittadina situata alla periferia di Boston, sede dell’omonimo college femminile dove studiò la madre di Anne Sexton, Mary Grey Staples, nel cui ramo genealogico, fra le tante notabili figure vi è anche quella di Nelson Dingley, speaker della Camera dei rappresentanti e governatore del Maine dal 1874 al 1876. Era l’unica figlia di Jane Lambert Dingley e Arthur Grey Staples, autore di numerosi saggi e stimata firma del giornalismo americano. Per due decadi fu caporedattore del Lewiston Evening Journal e quando il 2 aprile 1940 si spense all’età di 79 anni, venne salutato dal New York Times come «one of the best known newspaper men in the north-east».

Amore per la penna ch’ebbe il potere di trasmettere a Mary e lasciò che lo coltivasse facendole frequentare elitari istituti privati e poi l’università, allorché in lei prendeva sempre maggior coraggio il desiderio d’aprirsi agli universi della letteratura. Il sogno però s’infranse anzitempo, il 24 giugno 1922, giorno in cui sposò Ralph Harvey abbandonando all’istante l’ateneo e poi le proprie ambizioni, da lui osteggiate e infine avvilite.

Avevano ambedue poco più di vent’anni e a dar notizia del matrimonio anche il Boston Sunday Globe, dedicando all’evento un’intera colonna titolata «Daughter of Editor Staples Marries», ignari di come il tributato collega fosse invece addolorato da una unione colpevole d’aver spento il soffio d’arte scrittoria che sin ad allora aveva sospinto il desiare di Mary; la quale tuttavia proseguì perlomeno a comporre versi e forse, proprio quella mancata corsa verso un destino tanto sentito, fu il seme del contrasto che avrà con il poetare della sua stessa figlia.

Dodici mesi dopo l’incontro all’altare misero al mondo Jane Elizabeth, nel 1925 venne alla luce la secondogenita Blanche Dingley e il 9 novembre 1928, schiuse gli occhi Anne, la strega dannata e dall’inconcusso umorismo che in un crescendo di conflitti interiori, avrebbe rifiutato le soffocanti regole e convenzioni richieste dalla società, contribuendo così alla redenzione della donna e all’emancipazione del linguaggio poetico femminile.
 

Sono uscita di casa, una strega ossessa,
imperversando nell’aria persa, più impavida di notte;
sognando malignità, ho fatto il mio dovere
sopra le case della pianura, luce dopo luce:
creatura solitaria, con dodici dita, fuori di sé.
Una donna così non del tutto una donna.
Io sono stata come lei.

Ho trovato calore nelle caverne nei boschi,
le ho riempite di pentole, soprammobili, ripiani, 
armadi,
sete e innumerevoli oggetti;
ho preparato cene a vermi ed elfi:
lamentandomi, riordinando il storture.
Una donna così è fraintesa.
Io sono stata come lei.

Ho viaggiato sul tuo carro, conducente,
ho salutato con le mie nude braccia i villaggi che passavano,
imparando gli ultimi luminosi tragitti,
sopravvissuta
dove le tue fiamme ancora mordono la mia coscia
e nella tua morsa s’incrinano le mie costole.
Una donna così non si vergogna di morire.
Io sono stata come lei.

(Come Lei)

 

La prima guerra mondiale aveva generato un’impennata nel volume d’affari dell’industria manifatturiera tessile e negli anni ’30, Harvey era ormai al comando di un impero che riuscì a mantenere in costante crescita anche nel decennio susseguente il crollo dell’indice di Wall Street che originò l’epoca della Grand Depressione. Come la moglie però, non si dimostrò altrettanto abile nel gestire una prosperità che finì coll’avvelenarli. L’agiatezza che concedeva alle bambine di risiedere nella florida cittadina di Weston, beandosi del lusso di una dimora di 4 piani con tanto di alloggi per maggiordomi, chef e camerieri, per poi trascorrere i mesi esistivi nel Maine, sulla privata e vacanziera Squirrel Island sita al largo della costa di Boothbay Harbor, era controbilanciata da una ferrea educazione affidata all’onnipresente governante che ne doveva curare modi, aspetto e nel frattempo, le attenzioni dei genitori andavano sempre più annebbiandosi sotto gli eccessi di alcol, lasciando che i normali slanci d’affetto si perdessero nell’indifferenza e in improvvisi quanto offensivi moti di collera ai quali cedeva soprattutto il padre. Circostanze che provocarono distanza fra le stesse sorelle, crescevano senza legare l’una con l’altra e ben presto, l’insofferenza a un simile ambiente familiare pervase Anne, spingendola a rifiutare l’autorità genitoriale.

Mr. & Mrs. Frank L. Dingley con i parenti nella veranda di casa a Squirrel Island (1912).
Da sinistra: Anna Ladd Dingley (in piedi), Jane Dingley Staples, Arthur Grey Staples e la figlia, Mary Gray Staples; Florence Dingley Lord, Lu Mary Greeley Dingley, Frank Lambert Dingley e Hartley Little Lord.

Il vuoto venne colmato dalla nubile prozia Anna Ladd Dingley, ‘Nana’.
Estroversa e anticonformista, aveva dato la vita al giornalismo e durante la carriera aveva viaggiato molto all’estero, soprattutto in Europa. Nonostante gli impegni lavorativi si recava spesso a far visita agli Harvey e quando lo stato di salute di Arthur Staples cominciarono a tener Mary lontano da casa, da Auburn dove abitava si stabilì da loro.

Se per la nipote quindi era stata una presenza costante sin dalla prima infanzia, quella vicinanza fece di lei l’intima e amata confidente, la persona, l’unica, alla quale commettere il cuore. Il rapporto però, fu tanto intenso quanto fuggevole: nel 1941 Dingley sprofondò in un grave esaurimento nervoso, a seguito del quale venne trasferita in un istituto psichiatrico e sottoposta a terapie elettroconvulsivanti. Morirà nel 1954, all’età di 86 anni e non fu l’unica a manifestare disturbi mentali nella famiglia: identico dramma lo conobbe il nonno paterno Louis, ricoverato nel ’44 finì i suoi giorni in un letto di ospedale e la di lui sorella Frances, dopo esser stata in cura presso un nosocomio privato per tentato suicidio, si uccise con un colpo di pistola nel 1975.

Senza la prozia accanto, Anne piombò di nuovo in un baratro di solitudine e il disagio sfogò in problematiche disciplinari, ignavia e mancanza di concentrazione con ovvie ripercussioni anche in ambito scolastico: «Mi mandarono alle scuole pubbliche di Wellesley, poi in strutture private e di nuovo in quelle pubbliche. Finché ai miei genitori non fu detto di rinunciare. Non avrei mai imparato niente». Il collegio dei docenti, ravvisando la possibilità di futuri squilibri emotivi, suggerì agli Harvey di farle avere cure psichiatriche, ma considerando l’opinione troppo drastica o quantomeno prematura, non seguirono il consiglio.

A metà degli anni ’40 la iscrissero alla Rogers Hall Boarding School di Lowell, a poche miglia da Weston, con l’adolescenza che ne aveva acuito il senso di ribellione. Iniziò a fumare, bere, spariva dal campus, ai libri preferiva attività come basket e recitazione, intanto che in lei cresceva il bisogno di sentirsi apprezzata dalle coetanee e ammirata dai ragazzi, volizione quest’ultima, non certo ostacolata dal temperamento e dall’aspetto. Questo, fu anche il momento in cui l’animo di Anne s’affidò alla poesia e alcune delle prime composizioni, vennero pubblicate sulla rivista letteraria della scuola.

Tuttavia, quel rimeggiare vagando fra sonetti, terzine dantesche, versi liberi e american cinquains stile Adelaide Crapsey, anziché esser per tutti fonte di gioia, istigò l’ira, e forse le frustrazioni, della madre. Ritenendola colpevole d’aver attinto l’inchiostro dal calamaio della poetessa americana Sara Teasdale, la tacciò di plagio e con tale accusa riuscì a tarparle le ali: «Avevo scritto un poema al giorno per tre mesi, quando però mi disse quelle parole, mi fermai». (The Art of Poetry: Anne Sexton, 1968, intervista di Barbara Kevles)

Conclusa l’istruzione superiore, Anne se ne andò a Boston per studiare nella scuola femminile di arti liberali Garland Junior College, ma la sua presenza fu quanto mai effimera. A luglio del 1948 era al Cricket Club di Newton quando le venne presentato Alfred Muller Sexton II, un aitante 19enne soprannominato Kayo che aveva appena concluso il primo anno di medicina alla Colgate University. Cupido non avrebbe potuto scoccare frecce più efficaci. I due s’innamorarono all’istante e il successivo 16 agosto fuggirono in North Carolina e si scambiarono le fedi nuziali nella chiesa metodista di Sunbury.

Adesso era Mrs. Anne Sexton e a alla madre confidò di sentirsi adorata, felice come non mai.

Sin dal primo incontro, Mary aveva visto nel giovane una persona concreta e in grado di prendersi cura della figlia, per cui sperava che nel matrimonio potesse finalmente trovare certezze e stabilità. D’altro avviso erano invece i consuoceri, George Edward e Wilhelmine Sexton, specialmente quest’ultima riteneva la nuora una donna inadatta al ruolo di moglie, di genitore, non gradiva il vizio che aveva di fumare e poi lo stile, troppo prorompente. Il malcontento si accentuò quando Kayo decise di abbandonare gli studi accettando di lavorare presso la R.C. Harvey Company e vi rimase finché non venne chiamato a prestare servizio militare nella Naval Reserve degli Stati Uniti, all’indomani dell’invasione della Corea del Sud. A bordo della portaerei U.S.S. Boxer, salpò dalla California il 14 luglio 1950 e la sua partenza ebbe immediate ripercussioni sulla personalità della Sexton, la quale cominciò a mostrare improvvisi e repentini cambiamenti del tono dell’umore, alternando attimi di euforia a preoccupanti fasi depressive.

Poté riabbracciare il marito solo a settembre del 1952, a San Francisco, dove la nave era giunta per essere revisionata e riparata dai guasti riportati dopo che un incendio era divampato sul ponte dell’hangar, durante operazioni di combattimento nel Mare del Giappone. Vivevano in uno dei piccoli alloggi forniti al personale militare, «un tavolo e un letto» ricorderà la Sexton e dalla cui finestra potevano rimirare un «lembo di oceano e un inceneritore». A tale romantico panorama dovettero però rinunciare presto, in primavera la Boxer levò gli ormeggi e la coppia si vide costretta a separarsi ancora, ma questa volta il distacco sarebbe durato solamente pochi mesi. Il 21 luglio infatti, Kayo era nuovamente al cantiere navale e se l’attracco fosse avvenuto appena poche ore prima, avrebbe potuto raggiungere Boston e assistere Anne mentre dava alla luce la creatura che chiamarono Linda Grey.

Le sensazioni lasciatele dal parto, le naturali e dovute cure verso la bambina, nonché i pianti che in mente le rimbombavano come fossero incessanti, la fecero crollare nella disperazione e l’appoggio proveniente da genitori e suoceri, anziché come un ausilio erano dai lei percepiti come una conferma della propria inettitudine e impotenza. Ad aggravare la situazione l’agorafobia di cui soffriva da sempre e poi le assenze del coniuge; nel frattempo tornato nella società di Harvey in qualità di agente di commercio e quindi frequentemente in viaggio. La situazione precipitò dopo la nascita della seconda figlia, Joyce Ladd, venuta al mondo il 4 agosto 1954. Sentiva di soffocare, non riusciva ad essere madre, donna, moglie e i disturbi che l’avrebbero accompagnata sino al temine dei giorni stavano impietosamente palesandosi: insonnia, crisi di panico, collassi psichici, manie suicide.

Vita e poesie di Anne Sexton: Donna dalle molte anime rapita da una vorticosa danza d'inquietudini, lungo un viaggio al confine fra creazione e devastazione. (https://terzopianeta.info)
Kayo e Anne Sexton con le figlie

Già anni prima la madre di Anne Sexton, toccandone l’esaurimento nervoso ed essendo anche venuta a conoscenza di una storia d’amore da lei cominciata subito dopo il matrimonio, cercò di aiutarla portandola in terapia presso il Westwood Lodge, struttura privata dove in precedenza era stato accolto Ralph Harvey per i suoi problemi con l’alcol. Venne seguita dalla psichiatra e neurologa Martha Brünner-Ornstein (Vienna, 1894 – Boston, 1982), ma una notte d’estate del ’56, proprio con i sonniferi prescrittile dal medico tentò di uccidersi e non riuscì nell’intento unicamente perché fermata in tempo da Kayo.

Fu soltanto il principio del dialogo con la morte.

«Fino ai 28 anni avevo una sorta di Sé sepolto che non sapeva di potersi occupare di qualunque cosa, a parte fare besciamella e badare ai bambini. Non credevo di avere alcuna profondità creativa. Ero vittima del Sogno Americano, della borghesia, il sogno della classe media. Tutto quello che volevo era un pezzetto di vita, essere sposata, avere dei bambini. Pensavo che incubi, visioni, demoni, se ne sarebbero andati se avessi messo abbastanza amore nel fugarli. Mi stavo dannando per condurre una vita convenzionale, perché era quello per il quale ero stata educata, ed era quello che mio marito voleva da me. Ma non si può vivere dietro una facciata d’illusoria perfezione per tenere alla larga gli incubi. Tutto andò in pezzi, quando a 28 anni ebbi un crollo psichico e tentai di uccidermi». (Anne SextonThe Art of Poetry: Anne Sexton, 1968, intervista di Barbara Kevles)

 

Anne Sexton: Stiamo tutti scrivendo il poema di Dio

Riprese le cure recandosi dal figlio della dottoressa, Martin Theodore Orne (Vienna, 1927 – Paoli, 2000), psichiatra e psicologo che dedicò gran parte della sua carriera investigando sulla distorsione dei ricordi e sull’ipnosi, tecniche che utilizzò anche con la Sexton e la diagnosi fu isteria e bipolarismo. Per affrontare le sedute le faceva assumere sodio tiopentale allo scopo di indurla a uno stato prossimo al sonno, abbassarle le capacità inibitorie e facilitare il recupero della memoria repressa. Inoltre il medico registrava ogni sessione per poi consegnarle il nastro invitandola a trascriverne i contenuti perché riflettesse su di essi e inoltre, la incoraggiò a farsi catturare dalla poesia come un tempo aveva fatto, sfiorando le corde più ime del suo cuore.

In pochi mesi compose decine e decine di opere, le fece leggere alla madre, ne inviò alcune a riviste e quotidiani che non esitarono a pubblicarle, apparvero sul Compass Review, Fiddlehead, Christian Science Monitor, Herald Tribune. Un risveglio che la portò a gettarsi sui libri di psicologia, partecipare a seminari incontrando letterati come il premio Pulitzer William De Witt Snodgrass, Robert Lowell, il padre della poesia confessionale e poi Maxine Kumin, Sylvia Plath, voce angosciata e sublime con la quale s’intrecciò; donne così affini e dissimili, quando mise fine alla sua esistenza, l’amica la evocò quasi fosse più sola nei tormenti.

Sylvia, Sylvia
dove sei andata dopo che dal Devonshire
mi hai scritto di patate e api?…

…Come hai potuto scivolare giù da sola nella morte
che ho desiderato così tanto e così a lungo,
la morte che tutte e due dicevamo di aver superato…

…la morte di cui parlavamo tanto, a Boston,
mentre ci scolavamo tre martini extra dry,
la morte che parlava di analisti e cure,
la morte che parlava come spose con tresche,
la morte che abbiamo bevuto…

In un commisto incendiario di liriche, alcol, psicofarmaci e terapia Anne Sexton libera i fantasmi in canti che ammaliano poeti, lettori, critica e intanto la vita pretende, colpisce, strappa e il 10 marzo 1959 porta via Mary Staples, sconfitta da un tumore contro il quale aveva iniziato a combattere due anni prima e il successivo 3 giugno, fu invece un’emorragia cerebrale a causare la morte di Ralph Harvey. Dolore che si aggiunge alla frustrazione di non essere presente come moglie, il suo è un amore disinibito, infedele e non riesce a donarsi del tutto neppure alle figlie, vorrebbe, ma senza pietà verso di sé rifiuta ambedue i ruoli reputandosi incapace: «Con senso di colpa, mi rendo conto d’essere una donna che dovrebbe stare con il marito, o a casa, e non scrivere. Ma non è così, amo i bambini, ma non sono così femmina da poter offrire tutta me stessa alle loro attenzioni».

A prendersi cura di loro è spesso Wilhelmine, mentre lei si recava a corsi, laboratori, conferenze raccogliendo conferme, crescendo poeticamente, ricevendo premi. Nel 1960 venne pubblicata la prima raccolta, To Bedlam and Part Way Back, silloge in pieno stile confessionale in cui narrava il ricovero e il cammino affrontato per risollevarsi. Il consenso fu immediato tanto che l’antologia venne nominata per il National Book Award e altrettanto successo riscosse con All My Pretty Ones con cui trattava temi come la malattia mentale, il sesso, la spiritualità. Uscì nel 1962 e le sue opere volarono fuori dai confini degli Stati Uniti per essere conosciute e apprezzate anche in Europa, tanto che la prima edizione di Selected Poems venne pubblicata dalla Oxford University Press di Londra nel 1964.

Tra ricadute, alcol e ricoveri, iniziò a tenere laboratori di poesia all’università di Harvard, al Radcliffe College di Cambridge, dovendo quindi viaggiare e affrontare la sua ossessione per i luoghi aperti che non fossero abituali e nello stesso periodo ricevette anche la borsa di studio dell’American Academy of Arts and Letters. Nel 1966, dopo l’ennesimo tentato suicidio, fu data alle stampe Live or Die e l’opera le valse il Premio Pulitzer e lo Shelley Memorial Prize.

Anne Sexton andava oltre il poeta, durante le letture in pubblico si abbandonava fra pause e tiri di sigaretta, era esuberante, a chi le chiedeva com’era diventata poetessa, rispondeva ch’era una storia simile alla trama di Biancaneve, con sua madre a vestire i panni della regina e la società nella parte della mela il cui veleno avrebbe dovuto renderla perfetta casalinga impegnata a badare alle figlie e aiutare il marito a far carriera nel commercio della lana, concludendo la fiaba affermando che il frutto aveva in qualche modo funzionato, facendola ammalare sino a bramare la morte.

Mentre i compensi per le esibizioni salivano, decise di portare voce, parole e trasporto alla musica. Nel corso di un intervista rilasciata a Richard Owen Moore, poeta, cofondatore della storica stazione radio KPFA e documentarista per l’emittente KQED, la scrittrice mise un brano di Chopin, Ballata in Sol minore op.23, lasciandosi cullare dalle note iniziali per poi esplodere in un gioiale «Oh, it’s beautiful! It’s better than a poem! Music beats us». L’anno dopo, con Bill Davies al pianoforte, Ted Casher al flauto e sassofono, Steve Rizzo alla chitarra, Mark Levinson al basso e Harvey Simons alla batteria, s’inventò il gruppo rock, blues, jazz chiamato Anne Sexton and Her Kind e in abito lungo, fino al 1971 presentò le sue rime tra fumi jazz e blues.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

Accresce la gloria, piovono premi, riconoscimenti arrivano dal Guggenheim, dalla Tufts University, è chiamata a condurre seminari di poesia al McLean Hospital, centro di salute mentale di Belmont e poi all’Oberlin College, la prima istituzione d’istruzione superiore che ammise persone di colore e senza temer critiche, partorì Love Poems, regalando aperte immagini sessuali, quando il sesso non era natura e men che meno doveva esserlo per la donna, e nel solo primo mese le copie vendute furono oltre 4000. Nel ’71 venne pubblicato Trasformation, cupa rivisitazione delle storie dei fratelli Grimm che il compositore statunitense Conrad Susa, prese e tramutò in un’opera in due atti presentandola al Cedar Village Theater di Minneapolis nel 1973, quando la Sexton aveva già realizzato The Book of Folly e The Book of Miguel Flores’ Dad.

Il mal di vivere era però tutt’altro che annientato nonostante i trattamenti, i calci presi dall’alcol e dalle pillole che la Sexton chiamava ‘uccidimi’. Dopo 25 anni mise fine al matrimonio e il marito si rifece una vita sposando Peggy Totten, ma non riuscirà a liberarsi dalla disperazione: il figlio della donna, Mark, apparentemente lontano da problemi che potessero dare preoccupazione, nel 1990 si uccise gettandosi sotto un treno, aveva 26 anni e il dramma spinse la sorella Julie Totten a fondare nel 2001 l’organizzazione Families for Depression Awareness, al fine di aiutare le famiglie a comprendere e superare la stigmatizzazione e i pregiudizi sulla depressione e i disturbi mentali.

Il 1° febbraio 1974, la casa editrice Houghton Mifflin Company pubblicò l’opera alla quale la Sexton dette il preconizzante titolo The Death Notebooks. In autunno, il 4 ottobre, indossò la pelliccia della madre, si versò della vodka, dopodiché scese in garage, salì nella sua rossa Ford Cougar del ’67 e accese la radio, poi il motore, lasciando che il monossido mettesse lentamente fine a ogni incubo, quelle voci maledette che prima di lei non riuscirono a far tacere diversamente altre poetesse, donne in fuga dalle oppressioni, donne libere come Teresa Wilms Montt, Antonia Pozzi, Virginia Woolf, Marina Cvetaeva, Nika Turbina e la sua Sylvia Plath.
 

E’ tutto. Non c’è più niente che io possa dire o perdere. Altri hanno mercanteggiato la vita e non hanno potuto parlare.

Vita e poesie di Anne Sexton: Donna dalle molte anime rapita da una vorticosa danza d'inquietudini, lungo un viaggio al confine fra creazione e devastazione. (https://terzopianeta.info)

 

Biografia: polemiche, rivelazioni e accuse terrificanti

Il vortice suicida prese anche la sorella maggiore Jane, nel 1983, e per poco non riuscì ad avvolgere la figlia Linda Grey, salvata da un’amica dopo che si era procurata tagli ai polsi e ingerito una miscela di sonniferi, un gesto compiuto per la sofferenza per essere stata lasciata dal marito. Era il 1998 quando tentò di togliersi la vita, 7 anni dopo l’uscita della biografia su Anne Sexton a cui collaborò personalmente, fornendo materiale e informazioni all’autrice da lei stessa voluta, Diane Wood Middlebrook e vennero così svelate relazioni extraconiugali, manie e inquietanti aspetti della follia, ma soprattutto, attraverso il libro mosse nei confronti di sua madre accuse terrificanti.

Nominata dalla poetessa esecutrice letteraria, dette a Middlebrook documenti e nastri in cui erano registrate le sedute della Sexton, poi fece da tramite affinché il Dr.Orne facesse altrettanto e questi non esitò a cedere alla biografa scritti inediti, cartelle cliniche e più di 300 audiocassette, attirando su di sé le ire della comunità medica. Dalle pagine del New York Times, il Dr. Willard Gaylin, professore di psichiatria della Columbia University descrisse quella concessione come un «tradimento del paziente e della professione», trovando concorde il presidente del comitato etico dell’American Psychiatric Association, Dr. Jeremy Lazarus, il quale sottolineò che «solo il paziente può dare quel rilascio. Le volontà della famiglia non hanno alcuna importanza». Martin Orne si difese affermando che la Sexton, dalla quale era definito suo “new God”, gli avrebbe dato permesso di usare le registrazioni nel momento in cui fossero state di aiuto per altre persone: «Condividere i suoi pensieri e sentimenti più intimi a beneficio del prossimo, non solo era suo desiderio espresso e messo in atto, ma lo scopo per cui viveva».

A riportarlo, un articolo del Los Angeles Times dell’11 agosto 1991 e nello stesso, veniva riferito il pensiero del Dr.William Webb, all’epoca presidente dell’ospedale psichiatrico di Hartford, Connecticut, secondo cui oltre a ledere il diritto del paziente, in mancanza di esplicita autorizzazione «essenzialmente si opera per congetture». Osservazione che venne fatta anche verso la testimonianza offerta dai nastri, quando in alcuni passaggi, la Sexton farebbe presagire possibili abusi mentali e sessuali subiti durante l’infanzia per mano del padre, contrastando la memoria dei parenti, fra cui la sorella maggiore Blanche che la ricordava «molto amata, viziata e al centro dell’attenzione» (Anne Sexton: A Self-Portrait in Letters, Linda Gray Sexton, Lois Ames), contestando anche altri risvolti negativi riferiti ai propri genitori. Ma a tale orribile supposizione, nella fotografia di una vita distrutta, Linda Grey aggiunse inoltre la sua, atroce, verità, ovvero che Anne Sexton avrebbe fatto lo stesso con lei, con la figlia a cui spesso si rivolgeva nelle poesie: «Parlare pubblicamente dell’abuso sessuale di mia madre su di me era angosciante. Tuttavia, mentre leggevo il manoscritto in via di completamento, cominciai a riconoscere che – come con tutto nella vita di mia madre – la sua vita quotidiana era inestricabilmente legata al suo lavoro. L’unico modo per trascendere il dolore è dire tutto e onestamente».

Dopo la morte di Anne Sexton, la figlia curò la pubblicazione dei postumi The Awful Rowing Towards God (1975), 45 Mercy Street (1976) e Words for Dr. Y. (1978), oltre a dare alle stampe il memoriale Searching for Mercy Street: My Journey Back to My Mother.
 

Guerra civile

Sono divisa in due
ma conquisterò me stessa.
Riscoprirò l’orgoglio.
Prenderò le forbici
ed eliminerò il piatire.
Prenderò un palanchino
e con forza tirerò fuori
ogni frammento di Dio che ho in me.
Come un enorme mosaico,
Lo ricomporrò nuovamente.
con la pazienza di un giocatore di scacchi.

Quanti pezzi?

Sembrano migliaia,
Dio travestito da puttana
 di un lubrico verde alga,
Dio travestito da vecchio 
che barcolla e si trascina,
Dio travestito da bambino ignudo,
senza pelle,
molle come un avocado sbucciato.
E altri, altri, altri.

Ma io li conquisterò tutti
ed erigerò una nazione di Dio
– alla fine in me unificata –
costruirò un’anima nuova
 vestita di pelle.
E indossata la mia camicia,
canterò l’inno:
Canterò me stessa.

 
 

Per l’Anno dei Folli
(preghiera)

O Maria, fragile madre,
ascoltami, ascoltami adesso
anche se non so le tue parole.
Ho in mano il nero rosario, con il suo Cristo d’argento,
non è prediletto da Dio
perché io sono l’infedele.

Ciascuno dei grani è tondo e duro tra le mie dita,
è un piccolo angelo nero.
O Maria, concedimi questa grazia,
concedimi di cambiare,
sebbene io sia brutta,
sommersa dal mio stesso passato,
dalla mia stessa follia.
Anche se ci sono delle sedie
io sono sdraiata sul pavimento.
Solo le mie mani sono salve
toccando i grani del rosario.
Una parola dopo l’altra, ci incespico dentro.
Una principiante, sento la tua bocca toccare la mia.

Conto i grani come se fossero onde
che mi martellano contro,
saperne il numero mi fa ammalare,
afflitta, afflitta nel cuore dell’estate
e la finestra sopra di me
è la sola che mi ascolta, il mio essere goffo.
Dà in abbondanza, è rilassante.
L’elargitrice del respiro
lei, mormora, i suoi polmoni esalano
come quelli di un enorme pesce.

Sempre più vicina
è l’ora della mia morte
mentre mi risistemo il volto, divento come prima,
come prima dello sviluppo, con i capelli diritti.
Tutto ciò è morte.
Nella mente vi è un esile vicolo chiamato morte
ed io mi muovo lungo di esso come
nuotando nell’acqua.

Il mio corpo è inutile.
È disteso, accucciato come un cane su un tappeto.

Si è arreso.

Qui non ci sono parole se non quelle apprese a metà,
l’Ave Maria e piena di grazia.
Ora sono entrata nell’anno senza parole.
Noto la strana entrata e l’esatto voltaggio.
Esistono senza parole.
Senza parole una può toccare il pane
e riceverlo
senza emettere alcun suono.

O Maria, tenero medico, vieni con polveri ed erbe
perché sono nel centro.
È veramente piccolo e l’aria è grigia
come in una casa a vapore.
Mi porgono del vino come a un bambino si porge del latte.
Appare in un bicchiere di delicata fattura,
con la boccia circolare e l’orlo sottile.
Il vino ha un colore denso, muffa e segreto.
Il bicchiere si solleva da solo tendendo verso la mia bocca
e me ne accorgo e lo capisco
soltanto perché è successo.

Io ho questa paura di tossire
ma non parlo,
la paura della pioggia, la paura del cavaliere
che arriva galoppando nella mia bocca.
Il bicchiere si inclina da solo
e io prendo fuoco.
Vedo due sottili righe che mi bruciano rapide giù per il mento.
Mi vedo come se mi vedesse un altro.
Sono stata tagliata in due.

O Maria, apri le tue palpebre,
io sono nel dominio del silenzio,
nel regno della pazzia e del sonno.
C’è sangue qui
ed io l’ho mangiato.
O madre del grembo,
sono venuta soltanto per il sangue?
O piccola madre
Sono dentro i miei pensieri.
Sono rinchiusa nella casa sbagliata.

 
 

Magia Nera

Una donna che scrive è troppo sensibile e sensuale,
quali estasi e portenti!
Come se mestrui bimbi ed isole
non fossero abbastanza,
come se iettatori e pettegoli
e ortaggi non fossero abbastanza.
Crede di poter prevedere gli astri.

Nell’essenza una scrittrice è una spia.
Amore mio, così io son ragazza.
Un uomo che scrive è troppo colto e cerebrale,
quali fatture e feticci!
Come se erezioni congressi e merci
non fossero abbastanza;
come se macchine galeoni
e guerre non fossero già abbastanza.

Come un mobile usato costruisce un albero.
Nell’essenza uno scrittore è un ladro.
Amore mio, tu maschio sei così.

Mai amando noi stessi,
odiando anche le nostre scarpe,
i nostri cappelli,
ci amiamo preziosa, prezioso.
Le nostre mani sono azzurre e gentili,
gli occhi pieni di tremende confessioni.
Ma quando ci sposiamo
ci abbandoniamo ai figli, disgustati.
Il cibo è troppo e nessuno è restato
a mangiare l’estrosa abbondanza.

 
 

La Musica Mi Nuota Incontro

Aspetti Signore. Qual è la strada di casa?
Hanno spento le luci
e il buio trasloca nell’angolo.
Non ci sono cartelli in questa stanza,
quattro signore, più che ottantenni,
e tutte in pannoloni.

La la la, Oh la musica mi nuota incontro
e io  posso sentire la canzone che suonavano
la notte che mi lasciarono
in questo ricovero privato su in collina.

Immagina. Una radio suonava
e tutti quanti qui erano pazzi.
Mi piacque e danzai in cerchio.
La musica fluisce al di sopra del senso
e in qualche strano modo
la musica vede più di quanto io possa.

Ricorda, voglio dire, meglio;
ricorda la mia prima notte qui.
Era il freddo strozzato di Novembre;
perfino le stelle in cielo erano legate
e quella troppo brillante luna
che biforcava attraverso le inferriate ad infilzarmi
con un canto in testa.
Ho dimenticato tutto il resto.

Mi legano a questa sedia  alle otto di mattina
e non ci sono cartelli a indicare la strada,
solo la radio che da il ritmo a se stessa
e la canzone che ricorda
più di quanto io possa. Oh, la la la,
la musica mi nuota incontro.

La notte che sono arrivata ho ballato un cerchio
e non avevo paura.
Signore?

 
 

Casalinga

Certe donne sposano una casa.
Altra pelle, altro cuore
altra bocca, altro fegato
altra peristalsi.
Altre pareti:
incarnato stabilmente roseo.
Guarda come sta carponi tutto il giorno
a strofinar per fedeltà se stessa.
Gli uomini c’entrano per forza,
risucchiati come Giona
in questa madre ben in carne.
Una donna è sua madre.
Questo conta.

 
 

Filo Sottile

La mia fede
è un carico enorme
appeso a un filo sottile,
proprio come un ragno
appende i suoi piccoli a una tela fine,
proprio come dalla vite,
esile e rigida,
pendono grappoli
come occhi,
come molti angeli
danzano su una capocchia di spillo.

Dio non chiede troppo filo
per restare qui;
solo una piccola vena
e sangue che vi scorra
e un po’ d’amore.
Come qualcuno ha detto:
l’amore e la tosse
non si possono nascondere.

Neppure un colpetto di tosse
neppure un amore minimo.
Perciò se hai solo un filo sottile
a Dio non importa:
Lui te lo troverai tra le mani facilmente
proprio come una volta con dieci centesimi
ti potevi prendere una Coca.

 
 

Notte Stellata

La città non esiste se non dove un albero
dai capelli neri scivola via, come una donna
annegata nel cielo caldo.
Tace, la città.
Bolle la notte, con dieci
e una stella.
Notte stellata, stellata notte!
È così che voglio morire.

Si muove. Sono tutti quanti vivi.
Quando la luna rompe le catene
arancioni che la legano e spruzza
bambini dai suoi occhi, come un dio,
il vecchio serpente, senza esser visto
divora le stelle. Stellata notte, notte stellata!

È così che voglio morire:
in questa strisciante bestia notturna,
risucchiata tutta dentro nel grande
drago, separata
dalla mia vita senza una bandiera,
senza pancia né grido.

 
 

Al Mio Amante Che Torna Da Sua Moglie

Lei è tutta là.
Per te con maestria fu fusa e fu colata,
per te forgiata fin dalla tua infanzia,
con le tue cento biglie predilette fu costrutta.
Lei è sempre stata là, mio caro.
Infatti è deliziosa.

Fuochi d’artificio in un febbraio uggioso
e concreta come pentola di ghisa.
Diciamocelo, sono stata di passaggio.

Un lusso.

Una scialuppa rosso fuoco nella cala.
Mi svolazzano i capelli dal finestrino.
Son fumo, cozze fuori stagione.
Lei è molto di più.
Lei ti è dovuta,
t’incrementa le crescite usuali e tropicali.
Questo non è un esperimento.

Lei è tutta armonia.

S’occupa lei dei remi e degli scalmi del canotto,
ha messo fiori sul davanzale a colazione,
s’è seduta a tornire stoviglie a mezzogiorno,
ha esposto tre bambini al plenilunio,
tre piccoli putti disegnati da Michelangelo,
l’ha fatto a gambe spalancate
nei mesi faticosi alla cappella.

Se dai un’occhiata, i bambini sono lassù
sospesi alla volta come delicati palloncini.
Lei li ha anche portati a nanna dopo cena,
e loro tutt’e tre a testa bassa,
piccati sulle gambette, lamentosi e riluttanti,
e la sua faccia avvampa neniando il loro poco sonno.

Ti restituisco il cuore.

Ti do libero accesso:
al fusibile che in lei rabbiosamente pulsa,
alla cagna che in lei tramesta nella sozzura,
e alla sua ferita sepolta
alla sepoltura viva della sua piccola ferita rossa
al pallido bagliore tremolante sotto le costole,
al marinaio sbronzo in aspettativa nel polso sinistro,
alle sue ginocchia materne, alle calze,
alla giarrettiera  per il richiamo
lo strano richiamo
quando annaspi tra braccia e poppe
e dai uno strattone al suo nastro arancione
rispondendo al richiamo, lo strano richiamo.
Lei è così nuda, è unica.

È la somma di te e dei tuoi sogni.

Montala come un monumento, gradino per gradino.
Lei è solida.
Quanto a me, io sono un acquerello.
Mi dissolvo.

 
 

La Doppia Immagine

A novembre compio trent’anni.
Sei ancora piccola, hai solo tre anni.
Guardiamo le foglie gialle, sono stremate,
turbinano nella pioggia d’inverno,
cadono e s’acquattano. Ed io ricordo
i tre autunni che non hai passato qui.
Hanno detto che mai ti avrei riavuto.
Ti dico quel che mai saprai davvero:
le congetture mediche
che spiegano il cervello non saranno mai reali
quanto queste foglie abbattute.

Io, che ho tentato due volte d’ammazzarmi,
ti avevo dato un nomignolo
appena arrivata, nei mesi del piagnucolare;
poi una febbre t’è rantolata in gola
ed io mi muovevo come una pantomima
attorno al tuo capino.

Angeli brutti mi hanno parlato.
La colpa, dicevano, era mia.
Facevano gli spioni come streghe verdi
versando nella testa la rovina
come un rubinetto rotto;
come se la rovina avesse allagato la pancia
e sommerso la culla,
un vecchio debito che dovevo accollarmi.

La morte era più semplice di quanto credessi.
Il giorno che la vita t’ha restituito sana e salva
Ho lasciato le streghe rapire la mia anima in colpa.
Ho finto d’esser morta
finché uomini bianchi m’hanno spompato il veleno,
m’hanno messo senza braccia e slavata
nella lagna di scatole parlanti e letti elettrici.
Ridevo a vedermi messa ai ferri in quell’hotel.

Oggi le foglie gialle sono stremate.
Mi chiedi dove vanno.
Ti dico che l’oggi ha creduto in se stesso, altrimenti cedeva.
Oggi, piccina mia, Gioia,
ama il tuo essere dove adesso vive.
Non esiste un Dio speciale cui rivolgersi; o se c’è,
allora perché t’ho fatto crescere altrove.

Tu non riconoscevi la mia voce
quando tornavo a casa a trovarti.
Tutti i superlativi di alberi di Natale e vischi del futuro
non ti aiuteranno a sapere le feste che hai perduto.
Nel tempo che non amai me stessa
venni in visita a te su marciapiedi spalati,
mi tenevi per un guanto.
Dopo questo fu di nuovo neve.

Mi hanno spedito lettere con tue notizie
e io cucivo mocassini che non avrei mai usato.
Quando cominciai a sopportarmi
andai a stare con la mamma.
Troppo tardi, troppo tardi, dissero le streghe,
per stare con la mamma.
Non me ne sono andata.

Ma un ritratto mi son fatto.
Dal manicomio nel parziale ritorno
venni alla casa di mia madre a Gloucester.

Ed ecco come venni ad abbrancarla,
ed ecco come venni a perderla.
Mia madre disse, per il suicidio io non posso dar perdono.
Non l’hai mai potuto.

Ma un ritratto lei m’ha fatto.
Ho vissuto da ospite rabbioso,
parzialmente rammendata, bimba esorbitante.
Ricordo che mia madre faceva del suo meglio.
Mi portò a Boston per farmi cambiare il taglio.
Sorridi come tua madre, disse il capocciante.
Non mi pareva interessante.

Ma un ritratto mi son fatto.
C’era una chiesa là dove sono cresciuta,
là in bianchi armadi fummo inchiavati
come coro di marinai, o puritani, irreggimentati.
Mio padre passava col piattino per la questua.
Dissero le streghe, troppo tardi per esser perdonata.
E non fui propriamente perdonata.
Ma un ritratto m’hanno fatto.

Quell’estate gettiti irrigui s’inarcavano
a pioggia sull’erba rivierasca.
Parlavamo di siccità
mentre il prato corroso dal salmastro
nuovamente raddolciva.

Per passare il tempo falciavo l’erba
e la mattina mi facevo fare il ritratto,
fissando il sorriso nella formalità.
Ti ho spedito il disegnino di un coniglio,
e una cartolina col Motif number one
come se fosse normale
essere madre ed essersene andata.

Hanno appeso il ritratto nella fredda luce
del lato nord, che bene mi si addice,
per farmi stare bene.

Soltanto mia madre s’ammalò.
Mi volse le spalle, come se la morte contagiasse,
come se la morte si riflettesse,
come se il mio morire l’avesse corrosa.
Ad agosto avevi due anni, ma era dubbio il calcolo dei giorni.
Il primo settembre mi guardò in faccia
e mi disse che le avevo attaccato il cancro.
Le mozzarono le colline dolci
e ancora non avevo la risposta.

Quell’inverno lei tornò
parziale ritorno
alla sterile suite
di medici, nauseante
crociera di raggi X,
l’aritmetica delle cellule impazzita.
Parziale intervento,
braccio grasso, prognosi infausta,
li ho sentiti dire.

Durante le burrasche marine
lei si fece fare il ritratto.
Caverna di uno specchio,
appeso al lato sud;
una coppia di sorrisi, una copia di lineamenti.
E tu mi assomigliavi sconosciuto
viso mio, tu lo indossavi.
Dopotutto eri mia.

 
 

Il Bacio

La bocca mi fiorisce come taglio.
Maltrattata tutto l’anno in lunghe
notti fatte soltanto di gomiti callosi
e delicate scatole di Kleenex che dicono piangi,
piangi; stupida bambina!

Prima il mio corpo era inutile.
Ora si strappa ai quattro angoli.
Strappa via gli indumenti della vecchia Maria, nodo dopo nodo
e guarda – Ora è colpito in pieno da questi dardi elettrici.
Zac! Una resurrezione!

Una volta era una barca, piuttosto legnosa
e senza impegno, senza acqua salata
e bisognosa di qualche ritocco. Non era altro
che un mucchio di tavole. Ma tu l’hai attrezzata, l’hai issata.

Tu l’hai scelta.
I miei nervi sono tirati.
Come strumenti musicali li ascolto.
Là dove era silenzio
i tamburi e gli archi senza tregua continuano a suonare.
Il merito è tuo.
Genialità pura all’opera.
Caro, il compositore è caduto nel fuoco.

 
 

Giovane

Mille porte fa,
quando ero una ragazza sola
in una grande sala con quattro garage,
una notte d’estate se ricordo bene,
ero stesa sul prato
e sotto di me, increspato il trifoglio,
e sopra, distese, le stelle,
e la finestra di papà, semichiusa,
un occhio da cui passa chi dorme,
e le assi della casa
erano bianche e lisce come cera
e milioni di foglie sbattevano,
come vele sui loro strani gambi
e i grilli ticchettavano tutti insieme
e io, nel mio corpo nuovo fiammante,
non ancora di donna,
facevo domande alle stelle
e pensavo che Dio vedesse veramente
calore luce dipinta e gomiti
ginocchia sogni buonanotte.

 
 

Ragazza Ignota in Reparto Maternità

Bimbo, la corrente del respiro ha sei giorni.
Piccola nocca t’accoccoli sul letto bianco,
piccolo e forte, come una chiocciola rattrappita
ti rannicchi al seno.
Le labbra sono animali, sei nutrito con amore.
All’inizio la fame non è errore.
Tentennano le cuffie le infermiere,
su ceste a rotelle sei pascolato
con la nidiata dei senza nido,
lungo corridoi inamidati.
La tua testa al mio tocco s’inclina,
vacilla piano come una tazzina.
Senti l’appartenenza.
Ma questo è un letto istituzionale.
Non farai per molto la mia conoscenza.

I dottori sono smaltati.
Vogliono sapere i fatti.
Si chiedono dell’uomo che mi ha lasciato,
un’anima pendolo che viene e che va
e come sempre ti lascia piena di bambino.
Ma la nostra cartella clinica rimane vuota.
Ti ho lasciato crescere, non ho fatto altro.
Ora siamo qui, guardati da tutto il reparto.
Hanno pensato che fossi strana
Anche se non ho detto una parola.
Sono esplosa e svuotandomi di te
ti ho lasciato imparare cos’è l’aria.
I dottori fanno grafici d’indovinelli.
Volgo la testa altrove.

Io non lo so.

È tua la sola faccia che riconosco.
Ossa da ossa mi bevi le risposte.
Sei volte al giorno soddisfo il tuo bisogno,
le tue labbra animali,
il tepore della pelle che si fa paffuta.
Vedo schiudersi le tendine degli occhi.
Sono pietre blu, il muschio va sparendo.
Sbatti le palpebre stupito,
e mi chiedo cosa vedi
strano parente che turbi il mio silenzio.
Sono un riparo di menzogne.
Dovrei di nuovo imparare a parlare,
o senza speranza di salute mentale
potrò toccare un viso che riconosco?

Nel corridoio ritornano le ceste.
Le mie braccia ti calzano a pennello,
avvolgono le lanose infiorescenze
dei tuoi salici piangenti,
l’arnia ronzante d’api dei tuoi nervi,
i muscoli e le grinze dei primi giorni.
La tua faccia da vecchietto
disarma le infermiere.
I dottori mi rimproverano ancora.
Parlo allora. È a te che il mio silenzio nuoce.
Dovevo saperlo. Devo far scrivere qualcosa.
La voce s’allarma nella gola:
“Nome del padre: nessuno”.
Ti tengo fra le braccia e ti nomino bastardo.

E anche questa è fatta.
Non ho più niente da dire, niente da perdere.
Altre hanno già trafficato vita
e non potevano parlare.
Mi rattrappisco per evitare
i tuoi occhi da gufo, mio fragile ospite.
Sfioro le tue guance come fiori. Al contatto
illividisci. Ci disconosciamo. Sono
l’insenatura che t’accoglie, lo scoglio
contro cui ti frangi. Ti stacchi. Scelgo
l’unica via per te, piccolo erede,
e ti do via, squassando i noi stessi che perdiamo.
Và bimbo che non sei nulla più d’un mio peccato.

 
 

Non Potevo Tenerti

Non potevo tenerti
tranne il weekend. Ogni volta venivi
stringendo il disegnino del coniglio
che ti avevo spedito. Per l’ultima volta
disfo i tuoi bagagli. Ci tocchiamo senza un contatto.
La prima volta hai chiesto il mio nome.

Ora rimani per sempre.

Dimenticherò che sbalzavamo cozzandoci
come marionette appese a fili.
Non era l’amore ridursi al weekend.
Ti sbucci le ginocchia, impari il mio nome,
traballando sul marciapiede piangi e chiami.
Mi chiami mamma e ricordo ancora mia madre,
che altrove, nei dintorni di Boston, muore.

Ricordo che ti chiamammo Gioia
per poterti chiamare gioia.
Arrivasti come un ospite imbarazzato
allora, tutta fasciata umida meraviglia
alla mia mammella pesante.

Avevo bisogno di te. Non volevo un maschio,
solo una femmina, un topino lattiginoso di bimba,
da sempre amata, da sempre esuberante
nella casa di se stessa. Ti chiamammo Gioia.
Io, che non fui mai certa d’esser femmina,
avevo bisogno di un’altra vita,
di un’altra immagine per ricordarmi.
E fu questa la mia più grave colpa;
tu non potevi curarla o lenirla.
Ti ho fatta per trovarmi.

 
 

Il Pesce Che Camminava

Da valve d’ostriche
e da scompiglio d’alghe,
dalle lacrime di Dio,
da maree che sfigurano, egli venne.

Un cacciatore di radici divenne
e respirava come un umano.
Scarmigliato uscì dalle sterpaglie
e fu conosciuto dal cielo.
Io gli stavo appresso e lo guardavo.
Chiedo scusa, disse,
ma tra di voi ci sono i subacquei,
avete ami e reti,
allora perché io non dovrei
entrare nel vostro elemento per un momento?
Anche se camminare qui è strano
e mi sento insolitamente goffo,
e sgraziato.
Non c’è ritmo in questo paese di polvere.

Ed io gli dissi:
di un certo paese
da cui fui smarrita
posso rievocare qualcosa…
ma la luce di cucina
intanto l’impedisce.
Eppure c’era una danza
quando impastavo il pane,
c’era una canzone che mia madre
soleva cantare…
E il sale della pancia di Dio
dove galleggiavo in una tazza di tenebre.
Ho nostalgia del tuo paese, pesce.

E il pesce replicò:
tu devi essere una poetessa,
una signora di mala fortuna,
che desidera essere quel che non è,
che si strugge per essere
soltanto una figura.

 
 

La Terra

Senza immagine Dio vaga in paradiso
ma preferirebbe fumarsi un sigaro
o mangiarsi le unghie, e così via.

Dio è il proprietario del paradiso
ma agogna la terra, le piccole grotte
assonnate della terra, l’uccellino
alla finestra di cucina, perfino
gli assassini in fila come sedie scassate,
perfino gli scrittori che si scavano
l’anima col martello pneumatico,
o gli ambulanti che vendono i loro
animaletti per soldi, anche i loro
bambini che annusano la musica
e la fattoria bianca come un osso,
seduta in braccio al suo granturco e anche
la statua che ostenta la sua vedovanza,
e perfino la scolaresca in riva all’oceano.

Ma soprattutto invidia i corpi, Lui che non l’ha.

Gli occhi apri e-chiudi come una serratura
che registrano migliaia di ricordi,
e il cranio che include l’anguilla cervello
tavoletta cerata del mondo
le ossa e le giunture che si giungono
e si disgiungono e c’è il trucco, i genitali,
zavorra dell’eterno, e il cuore, certo,
che ingoia le maree rendendole monde.
Lui non invidia più di tanto l’anima.
Lui è tutto anima, ma vorrebbe accasarla
in un corpo e scendere quaggiù per farle
fare un bagno ogni tanto

 
 

Con Pietà per gli Avidi

Riguardo alla lettera in cui mi chiedi
di chiamare un prete
e di mettermi il Crocefisso che mi mandi,
il tuo crocefisso
il crocefisso roso dal cane,
non più largo d’un pollice,
di legno e senza spine, questa rosa:
io prego la sua ombra,
il luogo grigio – profondissimo –
dove si trova, sopra la tua lettera.
Odio i miei peccati e mi sforzo di credere
nel Crocefisso. Tocco le sue tenere anche, le mascelle scure,
il collo solido, il suo sonno bruno.

È vero, c’è
un Gesù, bello,
raggelato fino al midollo come un pezzo di manzo.
Ha una voglia disperata di chiudere le braccia
e io ne tocco disperata l’asse verticale e orizzontale.
Ma non posso: il bisogno non è esattamente fede.

Ho portato il tuo crocefisso
tutta la mattina
legato al collo con uno spago.
Ne sentivo il battito lieve come il cuore di un bimbo,
che in dolce attesa di nascere pulsa indirettamente.
Ruth, mi è cara la tua lettera.
Amica mia, io sono nata
compilando bibliografie sul peccato,
e confessandolo. Le poesie sono questo:
con pietà
per gli avidi,
sono le liti della lingua,
il minestrone del mondo, l’astro del sorcio.

 
 

In ascensore fino al cielo

Come dicono i pompieri,
non prendete mai camere oltre
il quinto piano
negli hotel di New York:
ci sono scale che vanno più su
ma nessuno ci salirebbe.
Come dice il New York Times,
l’ascensore cerca sempre da sé,
il piano in fiamme
e si apre automaticamente
e non si chiude più.
Sono questi gli avvisi
che dovete dimenticare
se volete uscire da voi stessi
fino a catapultarvi in cielo.

Sono andata spesso oltre
il quinto piano
salendo a manovella,
ma solo una volta
andai fino in cima.
Sessantesimo piano:
cigni e pianticelle piegati
verso la propria tomba.
Duecentesimo piano:
montagne con la pazienza di un gatto,
il silenzio in scarpe da tennis.

Cinquecentesimo piano:
messaggi e lettere millenari,
uccelli da bere,
una cucina di nuvole.
Seicentesimo piano:
le stelle,
scheletri in fiamme
con le braccia che cantano.
E una chiave,
una chiave enorme,
che apre qualcosa
– qualche utile uscio –
da qualche parte, lassù.

 
 

Una sola volta

Una sola volta compresi lo scopo della vita.
Accadde a Boston, inaspettatamente.
Camminavo lungo il Charles
e vidi le luci duplicarsi, tutte
con il cuore al neon e vibrante,
spalancando la bocca come cantanti d’opera;
e contai le stelle, le mie piccole veterane,
cicatrici fiorite, e capii che stavo portando
il mio amore sulla sponda verde notturna, e in lacrime
aprii il cuore alle auto dirette a est e a ovest
e feci passare un ponticello alla mia verità
e la condussi a casa in fretta col suo fascino
e fino all’alba accumulai queste costanti
per scoprire poi che se n’erano andate.

 
 

Siate cauti con le parole

Siate cauti con le parole, anche con quelle miracolose.
Per le miracolose facciamo del nostro meglio,
a volte sciamano come insetti
e non lasciano una puntura ma un bacio.
Possono essere buone come dita.
Possono essere sicure come la roccia
su cui incolli il culo.

Ma possono essere margherite e ferite.
Io sono innamorata delle parole.
Sono colombe che cadono dal tetto.
Sono sei arance sacre sedute sul mio grembo.

Sono gli alberi, le gambe dell’estate,
e il sole, il suo volto appassionato.
Ma spesso non mi bastano.
Ci sono così tante cose che voglio dire,
tante storie, immagini, proverbi, ecc.
Ma le parole non sono abbastanza buone,
quelle sbagliate mi baciano.
A volte volo come un’aquila
ma con le ali di un passero.

Ma cerco di averne cura
e di essere gentile con loro.
Le parole e le uova devono essere maneggiate con cura.
Una volta rotte sono cose impossibili
da aggiustare.

 
 
 
 

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