Phastidio.net | La recessione pro capite, tra immigrazione e immobiliare

La recessione pro capite, tra immigrazione e immobiliare

Il tema dell’immigrazione, come noto, è centrale nel dibattito pubblico statunitense e condizionerà l’esito delle elezioni di novembre. Dietro la robusta creazione di occupazione dell’economia a stelle e strisce, ottenuta malgrado una delle più forti strette monetarie degli ultimi decenni e soprattutto in presenza di disinflazione, sia pur in rallentamento, molti osservatori intravvedono il forte influsso immigratorio.

Boom immigratorio, non solo Stati Uniti

Ma la scala del fenomeno immigratorio negli Stati Uniti è assai inferiore a quanto registrato altrove: è il tema di una recente indagine di Bloomberg. Che ha scoperto, tra le altre cose, che in Canada lo scorso anno il tasso di immigrazione è stato del 32 per mille. Cioè 32 ingressi netti ogni mille residenti. Negli Stati Uniti, questo dato è pari a 10. Quella canadese doveva essere una immigrazione “smart” e pianificata, grazie al sistema a punti: il paese ne è finito travolto. Negli ultimi due anni, in Canada sono arrivati in 2,4 milioni. Il primo punto di criticità dei fenomeni immigratori, destinato ad avere evidenti ripercussioni politiche oltre che economiche, per l’impatto sugli standard di vita, è quello relativo al mercato immobiliare.

Per usare la suggestiva immagine di Bloomberg, negli ultimi due anni in Canada si è riversato l’equivalente della popolazione del New Mexico ma il paese ha creato capacità abitativa sufficiente solo per i residenti della capitale di quello stato, Albuquerque. Nell’ultimo anno, la popolazione canadese in età lavorativa è aumentata di un milione di persone ma sono stati creati solo 324.000 impieghi. Il tasso di disoccupazione è quindi aumentato di circa un punto percentuale, e giovani e ultimi arrivati sono quelli che soffrono di più.

La crisi del Canada si coglie da più metriche: negli Stati Uniti, negli ultimi due decenni, la crescita del reddito disponibile medio è stata comunque superiore a quella dei prezzi delle abitazioni. Lo stesso non è accaduto a nord del confine. I prezzi delle case a Toronto sono quasi tre volte quelli di Chicago.

La “recessione pro-capite”

Ma fenomeni analoghi sono in atto anche in Regno Unito, Australia e Nuova Zelanda. L’indagine di Bloomberg scopre che, alla fine dello scorso anno, tredici economie sviluppate si trovavano in una condizione definita di “recessione pro-capite”, vale a dire che il Pil complessivo può pure essere aumentato, ma l’aumento di popolazione prodotto dalla forte immigrazione ha determinato una variazione negativa a livello pro capite per i classici due trimestri consecutivi.

Alla base di questo fenomeno possono esserci più fattori: ad esempio, l’aumento di persone impiegate in lavori meno produttivi, o il fatto che i nuovi arrivati tipicamente guadagnano meno. Ma la penuria di abitazioni e il relativo stress al costo della vita causato da aumento di prezzi degli immobili, degli affitti e la conseguente inflazione (che induce le banche centrali a non allentare la politica monetaria) sono argomento centrale al dibattito e una combinazione tossica per i governi in carica nei paesi interessati più massicciamente dal fenomeno.

L’arretramento negli standard di vita causa l’ascesa dei populismi e la spinta a frenare l’immigrazione, che a sua volta ha ricadute economiche, visto che la carenza di lavoratori causa squilibri di altro segno ma non meno problematici, nei paesi in cui il tasso naturale di crescita della popolazione non riesce a compensarne l’invecchiamento.

Come scrivono gli autori dell’indagine, sempre in riferimento al Canada,

La cronica carenza di costruzioni residenziali e decenni di continui aumenti dei prezzi hanno drenato fondi da altre parti dell’economia verso l’immobiliare. Questa mancanza di investimento di capitale, combinata con l’orientamento delle aziende a espandere la forza lavoro grazie ai minori costi del lavoro, ha guidato al ribasso la produttività, che la banca centrale canadese giudica a livelli di “emergenza”.

Il primo ministro Justin Trudeau ha quindi deciso di correre ai ripari e agire sul fenomeno immigratorio, fissando l’obiettivo di ridurre nei prossimi tre anni del 20 per cento, pari a mezzo milione, la popolazione di lavoratori temporanei esteri, studenti internazionali e richiedenti asilo. In tal modo, il tasso annuo medio di crescita della popolazione dovrebbe più che dimezzarsi, all’1 per cento, nel 2025 e 2026.

Un fenomeno globale

Anche in Australia i problemi sono simili a quelli del Canada. Il paese sta vivendo la peggiore crisi immobiliare a memoria di vivente. I permessi per costruzioni residenziali sono ai minimi da dodici anni, e c’è un forte arretrato dovuto alla carenza di lavoratori generici e specializzati nel settore. Per alleviare il problema, le autorità hanno deciso di spingere sull’immigrazione, solo per scoprire che in tal modo il problema viene esacerbato.

Anche qui, la “recessione pro capite” sta mordendo, malgrado il Pil complessivo sia in crescita ininterrotta dal 2020, dopo la recessione causata dalle chiusura per Covid. E anche qui, con una costante globale, il governo ha iniziato a correggere la situazione agendo sui visti studenteschi.

Stessa situazione in Nuova Zelanda, e correttivi governativi basati sul requisito della conoscenza dell’inglese e riduzione del tempo di permanenza per i lavoratori meno qualificati. Per non farsi mancare gli immancabili slogan, il governo neozelandese punta a una “smarter immigration“, che sia pure auto-finanziabile. Qualcosa suggerisce che potrebbe trattarsi di un’illusione.

La situazione europea presenta analogie: Germania, Austria, Francia, Svezia, sono tutte in recessione pro-capite. Fuori dalla Ue, il Regno Unito non se la passa bene: la recessione tecnica del secondo semestre dello scorso anno è stata superficiale, con una contrazione del Pil dello 0,4 per cento. Ma, da inizio 2022, il Pil pro capite si è contratto di ben l’1,7 per cento. Con la Brexit, il paese avrebbe “ripreso il controllo” dell’immigrazione, con il sistema a punti, peraltro utilizzato anche in altri paesi che oggi hanno una recessione pro capite. Tutto molto bello, sin quando non ci si è resi conto di dover allentare le maglie del sistema per fare entrare proprio quei lavoratori non qualificati il cui accesso doveva essere fortemente ristretto, post Brexit. Illusioni e realtà, su scala planetaria.

La penuria di immobili ha portato il costo delle abitazioni a oltre otto volte i redditi medi in Inghilterra e Galles, e 12 volte a Londra. Nel 1997, quei valori erano rispettivamente 3,5 e 4. La penuria di abitazioni manda alle stelle gli affitti e colpisce i soggetti meno dotati sul piano finanziario e patrimoniale, soprattutto i giovani.

Davvero basta costruire più case?

Per riassumere: abbiamo introdotto una metrica interessante, la variazione del Pil pro capite, che è utile per filtrare la crescita complessiva in base a quella della popolazione. L’immigrazione ha contribuito positivamente alla prima ma negativamente alla seconda. Questo fenomeno alimenta tensioni sociali e populismi, oltre a razzismi.

La risposta prescrittiva degli autori dell’indagine è simile a quella degli economisti: aumentare l’offerta di immobili, attraverso l’allentamento dei vincoli di pianificazione urbana. Temo che le cose non siano così semplici, pur considerando le resistenze a nuove edificazioni e cambi di destinazione di aree.

Una parte dell’occupazione resta certamente legata al fattore umano e non è automatizzabile. Ma forse bisognerebbe tenere in considerazione le interazioni che domanda e offerta di lavoro esercitano sullo sviluppo tecnologico e i processi aziendali. Detto in altri termini, è possibile che la prospettiva di continui afflussi di manodopera immigrata cambi in modo strutturale i calcoli di convenienza e le curve di sostituzione tra capitale e lavoro, inibendo o frenando l’automazione, e contribuendo quindi a tenere basso lo sviluppo della produttività, che nel lungo termine determina l’inesorabile flessione degli standard di vita di una comunità nazionale.

Quindi, l’intepretazione ottimistica del fenomeno immigratorio (“basta aumentare l’offerta di abitazioni”) rischia di rivelarsi nel corso del tempo una dolorosa fallacia. Quasi quanto l’altra mitologia dell’immigrazione “smart” a punti. L’obiettivo resta sempre quello di governare l’immigrazione, ma è un’attività sempre più difficile. Non può esistere un felice “fine tuning” di un fenomeno dalle connotazioni ormai manifestamente esplosive.

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