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Cosa nasconde il silenzio

Non era mai successo che un governo non dimissionario rinunciasse a dire agli italiani e al Parlamento quale nelle sue intenzioni dovrà essere il disavanzo pubblico

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Non era mai successo che un governo non dimissionario rinunciasse a dire agli italiani e al Parlamento quale nelle sue intenzioni dovrà essere il disavanzo pubblico (la differenza tra spesa pubblica ed entrate dello stato) l’anno prossimo. Questa è la funzione principale del Documento di Economia e Finanza: dare una idea dell’orientamento di massima del governo per l’anno successivo, con un anticipo sufficiente per consentire a famiglie ed imprese di programmare di conseguenza. È per questo che il Def viene presentato a inizio aprile e non a fine anno. Nei giorni scorsi il Governo ha invece approvato un documento con il solo quadro di finanza pubblica cosiddetto tendenziale per il 2025, cioè il disavanzo previsto sotto l’ipotesi che per il prossimo anno il governo non adotti alcuna nuova misura, dd esempio non rinnovi i tagli alle tasse del 2024. Per il Ministro dell’Economia Giorgetti, in conferenza stampa, la legge di bilancio non si discosterà da questi andamenti o, in termini tecnici, il disavanzo programmatico (quello che tiene conto delle misure da introdurre nel 2025) sarà uguale a quello tendenziale. Ma se questa è l’intenzione, perché non scriverlo nero su bianco nel documento?

Ci sono quattro possibili spiegazioni per questo comportamento anomalo.

La prima è che il governo non abbia voluto dire agli italiani, prima delle elezioni europee, che non intende confermare i tagli alle tasse introdotti nel 2024. Questi tagli alle tasse valgono circa un punto di pil, 20 miliardi. Il sottosegretario Federico Freni sostiene che si troverà questa somma con “una razionalizzazione della spesa pubblica, senza intervenire con l’accetta e senza fare macelleria sociale”. In sostanza, una “spending review” che elimini gli sprechi. Ma l’idea che esistano 20 miliardi — una cifra enorme — di spesa inutile facilmente eliminabile senza danneggiare nessuno è una favola senza fondamento, contro cui si sono scontrati governi dopo governi. I grandi capitoli di spesa (pensioni, sanità etc.) sono intoccabili. Restano i piccoli capitoli e le famose “spese fiscali” (le eccezioni alle regole di tassazione a beneficio di questa o quella categoria). Ciascuna vale qualche decina di milioni. Per arrivare a 20 miliardi bisogna metterne insieme centinaia. L’impresa è di per sé quasi impossibile; ma anche se non lo fosse, al momento buono nessun governo vuole rischiare di perdere migliaia di voti per risparmiare qualche milione. Sappiamo tutti come è finita la spending review dei governi Letta e Renzi, che avevano obiettivi molto meno ambiziosi di 20 miliardi. Anche il governo Conte doveva trovare 20 miliardi, e usò parole quasi identiche a quelle di Freni (razionalizzazione degli sprechi, nessuna macelleria sociale, etc.). Alla fine non ne uscì un euro.

Una seconda spiegazione è che il governo abbia voluto accontentare la Commissione Europea dicendo che il disavanzo programmatico (l’unico che conta per la Commissione) sarà uguale a quello tendenziale, ma abbia in cuor suo l’intenzione di finanziare i tagli alle tasse con un aumento del disavanzo. Insomma, guadagnare tempo mentendo per qualche mese non solo agli italiani, ma anche alla Commissione. Non una grande strategia.

Una terza spiegazione, che fa capolino anche nel Def, è che per avere un’idea delle regole fiscali europee e dell’orientamento della nuova Commissione europea bisognerà comunque aspettare dopo le elezioni. Ma la riforma del Patto di Stabilità e Crescita è già stata approvata dal Consiglio e attende ora solo un passaggio formale al Parlamento Europeo, e sappiamo già che ci attende un aggiustamento pesante in futuro; inoltre la nuova Commissione si insedierà verso la fine dell’anno, quindi troppo tardi per intervenire sulle leggi di bilancio per il 2025.

La quarta spiegazione è il Superbonus, richiamato più volte dal Ministro Giorgetti. È vero che gli effetti sul bilancio pubblico di una misura così unica e scriteriata sono difficilissimi da prevedere, e non per colpa del ministro Giorgetti. Ma con lo scandalo del Superbonus dovremo convivere a lungo: il problema si ripresenterà a settembre e poi nel 2025.Eventuali sorprese negative potranno essere affrontate nella Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza a settembre, come è successo a più riprese nella pandemia.

Quale di queste spiegazioni si voglia prendere, rimane il fatto che, prima ancora che a una violazione delle nostre procedure di bilancio, siamo di fronte a una violazione di un principio di base della democrazia, che impone ai governi di rispondere del proprio operato di fronte agli elettori.

Paradossalmente, tenendo il paese all’oscuro dei suoi piani fino a dopo il voto per le Europee, il governo rischia anche di indebolire l’efficacia del suo provvedimento cui tiene di più, il taglio al cuneo fiscale attuato quest’anno. È plausibile che questo taglio generi più lavoro se famiglie e imprese ritengono che durerà nel tempo. Se preso alle lettera, questo Def dice il contrario. Se invece non va preso alla lettera, perché mai un governo dovrebbe confondere le acque invece di chiarire le idee a se stesso e alla nazione?

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