Lo scivolamento di Israele. La sicurezza prima della democrazia, le forze armate prima dello stato sociale - HuffPost Italia

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Lo scivolamento di Israele. La sicurezza prima della democrazia, le forze armate prima dello stato sociale

Tempi di guerra, tempi di continue tensioni, tempi bui anche per lo sviluppo democratico di Israele. Di ieri la notizia che la Commissione Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset - la stessa Commissione del Parlamento israeliano che ha portato avanti a luglio la riforma della giustizia - ha approvato l'avanzamento di un disegno di legge che consente di incarcerare i minori di età compresa tra i 12 e i 14 anni condannati per omicidio colposo a sfondo di terrorismo. Questi minori, se la legge fosse approvata, sarebbero dunque sottoposti agli stessi termini di detenzione degli adulti. È l’ennesimo segnale di arretramento di quella che era considerata la culla della democrazia in Medio Oriente. Non solo. Israele deve fare i conti con un governo in piena crisi, da cui si è dimesso il portavoce Eylon Levy; con una società lacerata da un conflitto che cannibalizza tutte le risorse economiche, sottraendole ad altri settori fondamentali, come il welfare, su cui si è sempre investito, per tradizione, in ossequio alle fondamenta socialiste dello Stato ebraico.

Una settimana fa V-Dem, uno dei più celebri istituti al mondo che studia le forme di governo, ha stabilito che Israele non può più essere considerato una democrazia “liberale” (come gli Usa e diversi paesi europei), ma è scivolato un gradino più in basso, democrazia "elettorale", al pari di Polonia e Brasile. L’istituto ha rilevato che c’è stato un calo degli indicatori che misurano la trasparenza e la prevedibilità della legge, e anche di quelli che misurano gli attacchi del governo alla magistratura. Il rapporto di V-Dem arriva sette mesi dopo che è stata approvata alla Knesset la riforma della giustizia, con l’abolizione della 'clausola di ragionevolezza', la legge fortemente voluta dal governo di Benjamin Netanyahu che impedisce ai giudici di esprimersi sulle decisioni prese dall’esecutivo. Una norma che poi a gennaio è stata bocciata dall’Alta Corte.

Ma V-Dem sottolinea anche che si è registrato un aumento degli episodi di tortura nelle carceri. Secondo l'ong Addameer di Ramallah, dall’inizio del conflitto, il numero di palestinesi arrestati nella Cisgiordania occupata supera le 7.350 unità. Sono almeno 200 i bambini tenuti nelle carceri israeliane: 40 di loro sono tenuti in detenzione amministrativa, dunque senza processo giudiziale, per ragioni di sicurezza. I rapporti delle organizzazioni internazionali per i diritti umani e dell'Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa) - in queste settimane oggetto di un'indagine indipendente dopo le accuse, gravissime, sui legami con Hamas - sulle torture esercitate da Israele contro i palestinesi a Gaza e nelle carceri israeliane sono copiosi, puntualmente smentiti da Israele. Poi ci sono gli insediamenti in Cisgiordania, che aumentano a vista d’occhio. Un rapporto dall’Onu ha documentato 24.300 nuove unità abitative israeliane costruite in un solo anno, dall’ottobre 2022 all’ottobre 2023. 

Secondo il politologo Alberto Spektorowski, esperto di democrazia israeliana, per diversi anni docente all’università di Tel Aviv, “la democrazia israeliana è sicuramente in crisi e Israele ha superato il limite”. Ma, aggiunge il professore, non è da molto tempo che Israele ha raggiunto lo status di democrazia “liberale”. “Lo è diventato negli anni ’80 e ’90, ai tempi della caduta del mondo sovietico e del comunismo, nello stesso momento in cui anche altri paesi in Europa e gli Usa sono maturati in una democrazia. Certo, oggi, è impossibile parlare di democrazia liberale, quando Israele si appropria di territori non suoi, li occupa. E questa è la ragione che porta molte persone a volere la soluzione a due stati, oppure a chiedere la fine dell’occupazione dei territori palestinesi” commenta con Huffpost l’esperto. Ma c’è, secondo Spektorowski, un elemento che differenza la democrazia israeliana da quella dei paesi occidentali, con cui spesso Israele è posto a confronto, ingiustamente. “La democrazia israeliana è difficile da paragonare ad altre democrazie in Europa, o negli Usa. Anche lì questa forma di governo è oggettivamente in crisi, e quindi Israele segue un po' un andamento generale. Ma spesso ci si dimentica che Israele vive una situazione drammatica, circondato da paesi nemici e non democratici. E allora spesso ci si trova a domandarsi se dare la priorità a preservare la democrazia o ritenere più importante la sicurezza nazionale”.

Netanyahu incarna la crisi della democrazia israeliana. Governa nonostante le accuse di frode, abuso di potere e corruzione, in tre diverse indagini. Ha spinto per far approvare la riforma giudiziaria e quindi di fatto per diminuire il potere della magistratura. Permette all’estrema destra della sua coalizione di governo di aumentare il numero di insediamenti in Cisgiordania. E sta trasformando lo Stato ebraico in uno stato religioso estremista, dando sempre più potere (e soldi) alla comunità ebraica ultraortodossa (i cui partiti, in cambio, sostengono la coalizione di maggioranza). È lui, secondo Spektorowski, il principale elemento di frattura della società israeliana, che a quasi sei mesi dall’inizio della guerra, appare fortemente disunita e destabilizzata. “Netanyahu è il simbolo della divisione, probabilmente se lui non fosse al governo la società israeliana non sarebbe più unita, ma forse più equilibrata politicamente. È lui che ha portato prima alla divisione sulla soluzione a due Stati, poi sulla riforma giudiziaria, quindi sull’operazione militare a Gaza” sostiene l’analista.

A causa di Netanyahu si sta infiammando il contrasto tra laici e estremisti religiosi. Le due parti di popolo sono arrivate a contendersi il primato di “vero ebreo”. La questione della coscrizione degli ebrei ultraortodossi (Haredim in ebraico) sta allargando quelle divisioni nella società che erano già presenti da tempo. “C’è sempre stata tensione interna tra laici e ultraortodossi, ma ora si è arrivati ad un punto destabilizzante. Perché in Israele davvero tutti servono nell’esercito, c’è tutta la classe media ad esempio. E invece c’è un settore importante demograficamente che non vuole contribuire. Questo è inaccettabile in questo momento” osserva il politologo. Anche perché la relazione tra esercito e società civile è cambiata. Se il contratto sociale non scritto di Israele, che dura da circa 70 anni, ha promesso un esercito temibile, in grado di proteggere il popolo israeliano, ora la società civile sa che l’esercito ha bisogno dell’apporto di tutti per poter proseguire nella guerra. Questo è un grande cambio di paradigma. 

L’altro importante cambio di paradigma che caratterizza la società israeliana di oggi riguarda lo stato sociale. Perché è evidente, come scrive The Economist, che Israele, in questo momento, deve scegliere tra i due pilastri del suo contratto sociale: le sue forze armate e il suo stato sociale, su cui, negli anni ha enormemente investito, perché Israele è nato dal sionismo laburista, il movimento socialista che ha svolto un ruolo chiave negli anni che poi hanno portato alla creazione di Israele. Sono i sionisti laburisti che hanno fondato le comuni agrarie, i kibbutz, che in seguito hanno attirato gli ebrei idealisti della diaspora a lavorare. Insomma Israele, come ha sottolineato Anat Peled, ricercatrice presso il Molad (il Centro per il rinnovamento della democrazia israeliana) ha visto per "diversi anni un profondo coinvolgimento del governo in tutti gli aspetti della vita quotidiana delle persone".

La spesa sociale pubblica, cioé per l’istruzione, l’assistenza sanitaria e l’assistenza sociale, nel 2018, è stata pari a più del 18% del Pil. Nel 2021, il governo israeliano ha speso oltre 114 miliardi di shekel israeliani (circa 30,5 miliardi di dollari) per la protezione sociale. Nel nuovo bilancio annuale approvato dalla Knesset due settimane fa, invece, la spesa per il welfare si riduce dell’8%: si prevede un taglio di 78 milioni di shekel (21 milioni di dollari). Una fonte del ministero del Welfare ha definito i tagli un "colpo mortale per i servizi sociali nel 2024”. Tutto ciò mentre il bilancio della spesa per la difesa aumenterà di 20 miliardi di shekel (5,5 miliardi di dollari) all’anno.

La guerra a Gaza (e anche al confine con il Libano, contro Hezbollah, conflitto da non sottovalutare e in cui Israele sta impegnando i migliori mezzi) sta costando ad Israele più del previsto. Il Pil del Paese è crollato del 19,4% nell’ultimo trimestre del 2023, in termini annualizzati, rispetto al periodo precedente; più del doppio della contrazione prevista dalla banca centrale. Negli ultimi tre mesi del 2023 le forze armate hanno bruciato 30 miliardi di shekel (8 miliardi di dollari), una somma equivalente al 2% del Pil, in aggiunta alla spesa abituale. A febbraio Moody’s ha declassato per la prima volta in assoluto il rating creditizio del paese. Nel frattempo oltre 750mila persone, ovvero un sesto della forza lavoro israeliana, sono assenti dal lavoro, la maggior parte delle quali perché sfollate o riserviste. C’è un grande problema lavoratori che coinvolge la Cisgiordania, da cui Israele dipende per la forza lavoro a bassa retribuzione. I circa 200mila lavoratori giornalieri della West Bank – equivalenti al 5% della forza lavoro israeliana – non possono entrare in Israele, come stabilito dal governo di Tel Aviv. Nelle fattorie, nelle fabbriche e nei cantieri edili mancano lavoratori. Le aziende agricole hanno perso più della metà della forza lavoro.

Netanyahu vuole aumentare le tasse su individui e imprese, ma diversi analisti avvertono che questa mossa potrebbe causare la fuga dal Paese del settore tecnologico, che è altamente mobile e già in difficoltà nel trovare lavoratori. Il governo israeliano ha tagliato moltissimo anche sulla ricerca scientifica. Il budget del ministero dell'Agricoltura, ad esempio, nei prossimi mesi, dovrebbe essere diminuito del 12%. Il Volcani Institute, ente israeliano di ricerca agricola di fama mondiale, è allarmato: "se venisse approvato il taglio di bilancio di oltre il 20% del budget dell’Istituto, tutto il lavoro di ricerca compiuto in questi anni verrebbe congelato e si perderebbero tutti i contratti di ricerca nazionali e internazionali del valore di decine di milioni di dollari".

In un Paese nel pieno della crisi, su ogni fronte, Netanyahu però va avanti, imperterrito. Secondo fonti egiziane, che avrebbero parlato con funzionari dell'esercito israeliano, l’operazione di terra a Rafah potrebbe cominciare dopo l'Eid al-Fitr, la festa di tre giorni che segue il Ramadan e termina intorno alla metà di aprile, o al più tardi all'inizio di maggio. Per salvaguardare la propria leadership Bibi è disposto a portare il Paese sull’orlo del baratro. L’unico spiraglio, che Spektorowski vede, per la caduta di Bibi e un conseguente possibile riequilibrio dell'intero Stato è la proposta di legge sulla coscrizione degli ultra-ortodossi. “È evidente che Benny Gantz e Yoav Gallant (colleghi di gabinetto di Netanyahu - ndr) stanno ingigantendo la questione degli Haredim, di cui non si sono mai interessati prima, perché stanno cercando di soppiantare Netanyahu. Gantz ha una grande presa sull'opinione pubblica. Ma si ricordi che se poi Gantz o Gallant andassero al governo, sicuramente sarebbero costretti a scendere a patti con gli ultra-ortodossi, che sono una componente troppo importante della società dello Stato ebraico” conclude Spektorowski. 

 

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