Nina | Carolina Lippo |
Teodoro | Carmine Riccio |
Camilla | Nutza Zakaidze |
Sigismondo | Simone Alberghini |
Ernesto di Roufignac | David Astorga |
Stefanina | Chiara Notarnicola |
Colonnello | Giorgi Manoshvili |
Cola | Davide Bartolucci |
La pianista | Claudia Foresi |
Giulio | Lorenzo Venturini |
Direttore | Sebastiano Rolli |
Regia | Francesco Bellotto |
Scene e luci | Lucio Diana |
Costumi | Stefania Cempini e Lucio Diana |
Orchestra Sinfonica Rossini |
Torna anche per il 2021 la benemerita iniziativa Kammeroper del Teatro delle Muse di Ancona a cura del direttore artistico Vincenzo De Vivo, lo scorso anno svoltasi alla Mole Vanvitelliana e quest’anno rientrata nelle mura del teatro, collegata alle celebrazioni per i cento anni dalla nascita di Franco Corelli che hanno visto il concerto commemorativo di Juan Diego Florez del quale ha dato conto Danilo Boaretto (qui la recensione).
Sulla bontà del progetto non possiamo che confermare appieno quanto avevamo scritto lo scorso anno in occasione delle rappresentazioni all’aperto nella Mole: “La volontà di tornare a far musica dal vivo dopo la chiusura pandemica primaverile di quasi tutte le attività, ma con l’attenzione che ancora deve esserci alle norme su sicurezza e distanziamento, ha portato la quasi totalità delle istituzioni liriche a ripensare i propri cartelloni nell’ottica di ricercare titoli e/o soluzioni che garantissero il rispetto delle norme di cui sopra. (…). Per cercare di restituire al pubblico un’azione teatrale quanto più articolata con interazioni fra i personaggi, varie istituzioni stanno attingendo ad un repertorio pressochè sterminato di opere senza coro e con organico orchestrale non debordante, di epoca barocca e settecentesca ma non solo, che dal punto di vista musicologico potrebbero destare un certo interesse data la rarità, se non proprio l’unicità, dell’ascolto. La prospettiva della programmazione viene così a rovesciarsi: se fino allo scoppio della pandemia moltissimi teatri preferivano affidarsi a titoli collaudati del grande repertorio con la scusa, possiamo proprio dirlo, che erano quelli più affidabili in termini di affluenza del pubblico (e spesso e volentieri abbiamo visto che in realtà non è stato così), in questa fase per tenere aperto un teatro si tende a ricorrere a titoli desueti e agili in termini di durata e organici, ritenuti magari finora delle bizzarìe da festival di nicchia, per sperare di riprendere un’attività un minimo regolare. È parimenti vero che non tutti possono essere dei capolavori ritrovati e che se di certe composizioni, anche di autori affermati, se n’è persa traccia un motivo ci sarà: allo stesso tempo però, come sostenuto più volte su queste pagine, per dare credibilità a un progetto di recupero di titoli desueti condizione primaria è il coinvolgimento di artisti quanto più rodati sulle tavole del palcoscenico e che “credano” in quello che stanno cantando e recitando, con lo stesso impegno e coinvolgimento di un titolo del grande repertorio. Quando questo non avvenga, o se questi titoli vengono scelti per saggi di conservatorio o di scuole di perfezionamento (con tutto il rispetto per gli studenti coinvolti), l’esito può essere spesso poco felice in termini di noia e appeal del titolo.”
Riteniamo anzi che quest’anno si sia fatto un ulteriore salto di qualità nel riproporre una farsa donizettiana tale solo di nome, perché scritta per le voci di due divi dell’epoca come Gianbattista Rubini e Luigi Lablache e caratterizzata da difficoltà esecutive di un certo livello. Tale è dunque Il giovedì grasso, opera che Donizetti compose per il Teatro del Fondo di Napoli nel 1829 e che pure ha conosciuto varie riprese nella seconda metà del ‘900 (è stata, fra le altre cose, il debutto assoluto in un’opera completa di Mariella Devia). Opera inoltre presentata in una revisione critica a cura di Giovanni Sparano e Alvise Zambon di cui dà conto nel programma di sala lo stesso regista Francesco Bellotto nella sua veste di musicologo: vengono anzitutto ripristinati tutti i recitativi accompagnati presenti nelle fonti accertate, effettuate modifiche sul testo sempre sulla base della rigorosa comparazione tra fonti, e soprattutto presentata in prima esecuzione assoluta un’aria aggiuntiva per il personaggio di Sigismondo, scritta dall’autore per una ripresa sempre al Teatro del Fondo con protagonista Antonio Tamburini.
Certo, la trama non spicca per chissà quale appeal drammatico, essendo incentrata su una serie di equivoci e travestimenti anche più sconclusionati del solito, per una farsa in musica, che coinvolge gli amorosi nascosti Nina e Teodoro, il di lei promesso sposo Ernesto per volontà del padre Colonnello, l’amico Sigismondo con la moglie Camilla e un contorno di servi e servette, il tutto durante l’iconica giornata del giovedì grasso.
Come in tutti i geni della musica (e Donizetti sicuramente lo era) anche nelle composizioni meno frequentate si trovano elementi di grande interesse, e questa non fa eccezione. L’opera si apre con un lunghissimo e impegnativo quintetto che richiede esattezza metrica e musicale non da poco; il personaggio del colonnello compare solo a metà dell’opera e nel finale, ma canta un’impegnativa aria di biasimo paterno che si chiude vocalmente non sulla classica dominante dell’accordo ma con una doppia ripetizione in basso; il finale inizia come se fosse la classica aria con rondò della protagonista, ma poi trapassa in una serie di variazioni di tutti gli altri personaggi. In aggiunta a tutto ciò, i protocolli in tema di Covid hanno previsto la presenza dell’orchestra in opportuno distanziamento sul palcoscenico, separata dall’azione vera e propria da pannelli semitrasparenti, con il direttore di spalle ai cantanti: ne consegue che l’equilibrio musicale pressochè perfetto fra parte cantata e parte suonata è degno di lodi ancora maggiori rispetto al solito.
Nel cast spicca il Sigismondo di Simone Alberghini, che si muove con disinvoltura scenica e interpretativa nella lunga parte come se fosse in un’opera di repertorio, dispiegando la bella voce baritonale a tutte le altezze e con un fraseggio sempre vario e partecipe. Autentica prova di virtuosismo poi l’aver cantato in sequenza l’aria ufficiale “Mo che si’ scopierto a ramma”, in dialetto napoletano e tipicamente sillabata da opera buffa, e l’aria riscoperta “Porre in opera il bastone”, più lunga e cantabile e con più di un’eco di quella che sarebbe stata la cavatina di Don Pasquale: meritati i lunghi applausi che il pubblico gli ha tributato a scena aperta e alle chiamate finali.
Molto brava anche Carolina Lippo, che si fa apprezzare per il legato e la capacità di sfumare i suoni, con un timbro da soprano leggero ma non esangue, e per la nitidezza della dizione particolarmente apprezzabile nell’impegnativo duetto con Ernesto. Il quale Ernesto, come detto, è ruolo creato per il mitico Rubini e quindi di tessitura acutissima e zeppo di do e do diesis scoperti: la micidiale cavatina “Servi…gente…non v’è alcuno?” trova David Astorga in palese difficoltà, complice anche una palpabile preoccupazione, ma passata quella le cose migliorano senza ombra di dubbio, e nel citato duetto con Nina il tenore può fare valere le doti di squillo ed estensione con maggiore sicurezza di canto e interpretazione. Buonissima impressione ha destato la prova di Giorgi Manoshvili, voce autenticamente da basso, omogena e ricchissima di armonici, che speriamo di risentire presto in contesti più ampi rispetto alla limitata parte del Conte.
L’amoroso Teodoro ha parte tenorile non propriamente protagonistica ma nemmeno comprimariale, e Carmine Riccio ne viene a capo molto bene grazie alla robustezza vocale e al fraseggio sempre appropriato. Spigliata e brillante sia vocalmente che scenicamente la Stefanina di Chiara Notarnicola, nella parte della classica servetta languorosa, al pari della Camilla di Nutza Zakaidze, altra voce da tenere d’occhio (anzi d’orecchio) per volume e solidità tecnica. Decisamente sottoutilizzato Davide Bartolucci, la cui bella e ampia voce meriterebbe qualcosa in più della parte marginale in dialetto napoletano del servo Cola. La poco conosciuta partitura viene diretta da Sebastiano Rolli con inusuale finezza e ricchezza di sfumature (come se poi per un Donizetti minore si dovesse andare con la clava…), segno non solo di uno studio profondo ma anche della capacità di gestire al meglio con pochissime prove un’orchestra (l’ottima Sinfonica Rossini) totalmente digiuna di questa musica. La narrazione procede così fluida negli accompagnamenti e incalzante nelle cabalette, e il rigore musicale è assicurato in modo assoluto.
Costretto dalle limitazioni sopradescritte che vedono due terzi del palco occupati dall’orchestra, Francesco Bellotto organizza comunque una regia frizzante e briosa in puro stile vaudeville, spostando l’azione in un hotel negli anni 30 del secolo scorso (evocato dai bellissimi costumi e dagli arredi di Lucio Diana e Stefania Cempini) dove i personaggi entrano, escono e agiscono sfruttando anche i pannelli di separazione con l’orchestra. I caratteri sono accuratamente salvaguardati nello spirito originale della commedia napoletana riportata alla grande tradizione contemporanea, per cui la semplicità d’animo di Ernesto viene messa in rilievo identificandolo per trucco e movenze con il grande caratterista Pietro De Vico e la lamentosa condizione di Nina con l’altrettanto grande Dolores Palumbo. Bella anche l’idea di mettere in scena la cembalista Claudia Foresi come bistrattata pianista dell’hotel, e più convenzionale ma non per questo incongrua la presenza del servo muto del bravo attore Lorenzo Venturini.
Grande successo per il pubblico che finalmente è tornato, pur con tutti gli accorgimenti del caso, ad assistere ad un’opera completa alle Muse.
La recensione si riferisce alla prima del 29 agosto 2021.
Domenico Ciccone