“Nulla muore”. La poesia dell’Uomo Elefante - Pangea
24 Novembre 2022

“Nulla muore”. La poesia dell’Uomo Elefante

The Elephant Man è uno straordinario film di David Lynch, uscito nel 1980, candidato a otto Oscar – non ne ottenne neanche uno.

Come si sa, il film mette in scena la storia di Joseph Merrick (1862-1890), cresciuto a Leicester, affetto da micidiale deformità fisica. A David Lynch interessa mettere in scena il mostro in una società mostruosa.

Il mostro è prima dileggiato poi omaggiato. Il mostro è una meraviglia della natura: prima si paga il biglietto per assistere all’orrore; poi gli si fa visita, sul calesse della buona morale vittoriana, per impetrare da lui una sorta di assoluzione.

Gli incurabili: serrature del mondo, zampate di innocenza.

Nel 1887, durante il suo ricovero al London Hospital, anche Alessandra di Danimarca, principessa del Galles, moglie di Edoardo VII, fa visita a Joseph Merrick. Le fotografie dimostrano la bellezza di Alessandra, non priva di malizia. Figlia del re di Danimarca Cristiano IX, Alessandra approda in Inghilterra nel 1863: è salutata da Alfred Tennyson, poet laureate del regno, con l’epiteto di “Figlia del Re dei mari, giunta da oltremare”.

Nel film di David Lynch, Joseph Merrick è interpretato da John Hurt, attore dal talento istrionico: lo abbiamo visto in Fuga da mezzanotte, Alien, I cancelli del cielo e V per vendetta; è Winston Smith nel 1984 di Michael Radford. Anche David Bowie ha interpretato Joseph Merrick: nel 1980, a Broadway, nello spettacolo ideato da Bernard Pomerance.

Il medico che prende in cura Joseph Merrick, Frederick Treves, è interpretato nel film di Lynch da Anthony Hopkins. È grazie al libro di Treves, The Elephant Man and other Reminiscences, pubblicato un secolo fa, che la storia di Joseph Merrick diventa di pieno dominio – prima volteggiava nella stampa ‘sensazionalistica’. Le memorie di Treves – non del tutto esatte – sono pubblicate come L’Uomo Elefante sia da Adelphi che da Morcelliana, nel 2021.

In realtà, una Autobiography of Joseph Carey Merrick è stampata nel 1884 come opuscolo per accompagnare le performance di “Elephant Man”, “Half-a-Man and Half-an-Elephant”. Si racconta di un’infanzia infranta, di una madre malata, morta ragazza, unica spira d’amore, del padre che abbandona il mostro, di insulti, di ferite inferte e di cappucci in testa, a celare l’orrido. Joseph Merrick, “L’Uomo Elefante”, per sopravvivere diventa ‘un fenomeno da baraccone’.

“Signore e signori… vorrei presentarvi Mr. Joseph Merrick, l’Uomo Elefante. Prima però, vi chiedo un attimo di attenzione, vi chiedo di prepararvi attentamente – preparatevi ad ammirare l’essere umano più straordinario che abbia mai respirato su questa terra”. Così lo presentava Tom Norman, inglese, showman, imprenditore dei freak shows. Lo spettacolo si svolgeva al 123 di Whitechapel Road, di fronte al London Hospital. Fu lì che Frederick Treves, il medico, conobbe Merrick. Nelle sue memorie, Treves descrive Norman come un avido sfruttatore, un ubriacone. Norman reagì scrivendo una lettera ai giornali del regno: grazie a lui, Merrick riuscì ad avere uno stipendio; il medico non si era comportato diversamente da uno showman, mettendo in mostra la creatura deforme per i suoi fini, di fama chirurgica.

Quando i freak shows furono banditi dall’Inghilterra vittoriana, Tom Norman cominciò a produrre spettacoli per il circo, diventò banditore di trucchi, di oggetti rari; riuscì a vendere uno zoo. Morì nel 1930, i figli seguirono le sue orme. Uno di questi, Ralph Van Norman, si specializzò in spettacoli ‘stile Far West’, vagabondando tra Europa e Stati Uniti.

Il primo ad accorgersi delle potenzialità ‘spettacolari’, diciamo così, di Merrick fu Sam Torr, esteta del music hall, che aveva acquistato il Green Man pub a Leicester. Sam Torr mise su un giro di agenti, accettando di aiutare l’Uomo Elefante a esibirsi – poi passò l’impegno a Tom Norman. Finì in ristrettezze, a Nottingham, esibendosi saltuariamente in spettacoli ormai modesti; morì nel 1923, quando il dottor Treves pubblicò la sua autobiografia.

Più che altro, Frederick Treves, nominato baronetto, diventò il chirurgo ufficiale del Duca di York – il futuro Giorgio V – e della regina Vittoria. Formatosi al London Hospital, era stato, da ragazzo, discepolo di un poeta, William Barnes.

Di Merrick – lo si capisce nel film – sappiamo l’indole nostalgica e sentimentale, una rara perizia – ha costruito, in scala, una replica del duomo di Magonza –, l’amore per il teatro, sviluppato grazie ai rapporti – pur mediati – con Madge Kendal, grande interprete shakespeariana. Gli piaceva ascoltare il violino e recitare una poesia di Alfred Tennyson, Nothing Will Die, che gli sussurrava la madre.

Il rapporto con il mostro è sempre una benedizione perché nel mostro è adombrato Dio, il mostruoso. Nell’ospedale di Buenos Aires dove decide di uccidersi con il cianuro, Horacio Quiroga fa amicizia con un “uomo elefante” di nome Vicente Batistessa. Siamo nel 1937 e il grande scrittore sudamericano pretende che il ‘mostro’, altrimenti recluso nei sotterranei dell’ospedale, sia ospitato con lui, nella sua camera; ed è a lui che confessa le sue ultime volontà, il suo supplizio.

Alfred Tennyson, “poeta laureato” dal 1850, è il poeta più rappresentativo dell’era vittoriana: morto ultraottantenne, è sepolto nell’Abbazia di Westminster. La sua poesia – dileggiata e ‘superata’ dai ‘modernismi’ – è tornata in auge: Mondadori ha da poco pubblicato, a cura di Saverio Tomaiuolo, In memoriam e altre poesie. La lirica Nothing will die è raccolta in un libro giovanile, del 1830, Poems, Chiefly Lyrical. La ballata di Tennyson, The Lady of Shalott – ispirata da un racconto italiano raccolto nel Novellino – è diventata l’icona dei Preraffaelliti: il quadro più bello del ciclo lo ha realizzato nel 1888 John William Waterhouse.

Tennyson gioca: a Nothing will die, un inno sull’inconsistenza della morte – nulla muore, tutto muta – fa seguito All things will die poesia che ricorda la perentoria necessità della morte.

Alla fine del film di Lynch, Merrick muore immaginando le stelle, un cratere cosmico, il volto della madre, che recita la poesia di Tennyson:

“Never, O, never, nothing will die;

The stream flows,

The wind blows,

The cloud fleets,

The heart beats,

Nothing will die”.

Dall’Uomo Elefante, in effetti, tutti hanno guadagnato qualcosa, nella sua storia tutto è forzatura ed effrazione. A partire dal nome. Merrick si chiamava Joseph, ma perfino il suo dottore, il fatidico Treves, lo chiama “John Merrick, un uomo di ventuno anni di età”. Morto nel 1890, in aprile, Joseph Merrick non riceve sepoltura. Il mostro deve essere dissezionato, il corpo squadrato, sequestrato, studiato; lo scheletro esposto, analizzato, geometrizzato. Da oggetto di spettacolo diventa pappa scientifica. Dopo aver mostrificato il mostro lo si dimostra demostrificato, materia per una leggenda pia, pulita, innocua.

**

Nulla muore

Quando il fiume sarà stanco di scorrere
sotto i miei occhi?
Quando il vento sarà stanco di soffiare
nel cielo?
Quando le nuvole saranno stanche di fluttuare, fugaci?
Quando il cuore sarà stanco di battere?
E la natura, morirà?
Mai, mai, niente morirà, niente muore:
il fiume scorre
il vento soffia
le nuvole fluttuano
il cuore batte
e niente morirà.

Niente morirà, niente muore;
tutto muta,
così in eterno.
Questo è l’inverno del mondo
autunno ed estate
sono passati, tempo fa;
la terra è secca nel suo centro
ma la primavera, nuova arrivata,
una primavera ricca e strana,
farà soffiare i venti
e ruota e si rivolta
di qui e di là
di fianco, ovunque,
fino all’aria
e la terra
sarà gonfia di nuova vita.

Il mondo non è mai stato creato;
cambia, ma non svanisce.
Lascia che il vento vada, ramingo,
dall’alba alla sera
tutto è
per l’eterno.
Nulla nasce
nulla muore
tutto muta.

*

Tutto muore

Lo scampanio azzurro del fiume
sotto i miei occhi;
caldi, immensi soffiano i venti del sud
nel cielo.
Una dopo l’altra rotolano le nuvole;
in questa mattina di maggio ogni cuore romba di gioia
gonfio, allegro;
ma ogni cosa morirà.
Il fiume cesserà di scorrere;
il vento cesserà di soffiare
le nuvole cesseranno la loro fuga;
il cuore cesserà di battere;
perché tutto deve morire,
tutto muore.
La primavera non tornerà
vana
e la morte attende alla porta.

Guarda! I nostri amici abbandonano
il vino e la festa.
Siamo chiamati – dobbiamo andare.
Nell’infimo, in basso,
nell’oscurità ci inabissiamo.
La fatua felicità è immobile;
le voci degli uccelli
non si odono più
né il vento lungo le colline.
Che miseria!
Ascolta! La morte ti pretende
mentre ti parlo,
la mascella crolla,
le guance impallidiscono
muscoli senza trama:
ghiaccio s’irradia nel sangue
gli occhi si fanno fissi.
Nove volte suona la campana:
anime felici, addio.
La vecchia terra
è sorta
come sanno gli uomini
molto tempo fa:
la vecchia terra deve morire.

Lascia che i venti caldi dilaghino
che l’onda azzurra setacci le rive
dall’alba alla notte:
non vedrà mai
l’eternità.
Tutto ha avuto una nascita
tutto svanirà
perché tutto deve morire.

Alfred Tennyson

Gruppo MAGOG