Lo scorso 20 aprile, a Venezia, sestriere di Cannaregio, verso le sette di sera due uomini sono sbarcati da un’idroambulanza e si sono fatti largo tra gli spettatori assiepati fuori dal Venice Venice Hotel reggendo una barella su cui, assicurato con delle cinghie, c’era Spot, cane-robot creato da Boston Dynamics.

Ad attenderlo, sulla pedana di un piccolo palco, una donna, l’artista austriaca Silke Grabinger, ideatrice e protagonista della performance SPOTSHOTBEUYS, ospitata dalla Fondazione Bonotto e ispirata a una performance di Joseph Beuys, tra le più famose della storia dell’arte contemporanea.

Ebbe luogo nel 1974, esattamente 50 anni fa. Quando atterrò a New York il 21 maggio di quell’anno, Beuys (1921-1986) era uno degli artisti più famosi al mondo e indossava il suo famoso cappello di feltro. Brancolò verso l’uscita, avanzando a tentoni, perché si era coperto gli occhi con una mano. Non voleva vedere l’America. Due uomini lo imbozzolarono servendosi del suo famoso telo di feltro, oggetto feticcio protagonista di molte opere dell’artista concettuale tedesco.

La crisalide venne caricata su un’ambulanza tipo auto dei Ghostbusters che partì a tutta sirena diretta a SoHo, dove si inaugurava una nuova galleria in cui Beuys avrebbe trascorso tre giorni chiuso in una stanza insieme a un coyote, simbolo della natura selvaggia.

I like America and America likes me, così si chiama la performance, invitava l’homo sapiens a non ritenersi fuori dalla natura, al di sopra delle altre specie, ma piuttosto a sforzarsi per trovare un modo di convivere e coesistere nello stesso spazio.

I like America and America Likes Me (foto Wikipedia)

È passato mezzo secolo e l’opera (purtroppo) è ancora attuale (pure troppo: vedi alla voce “pandemia”). Come un classico, «non ha ancora finito di dire quello che aveva da dire» e c’è chi la ascolta per portarne il pensiero un po’ più in là.

Nata a Linz, dopo aver studiato Belle arti, Silke Grabinger fa un dottorato di ricerca in robotica. Le piace anche ballare la breakdance: «Totalmente autodidatta», racconta quando, il mattino dopo, ci incontriamo per un caffè americano. «Ero molto brava», al punto da essere chiamata dal Cirque du Soleil per lo spettacolo sui Beatles LOVE: «Ero giovane, è stata una grande opportunità che mi è servita per capire cosa NON volevo fare nella vita. Ho passato due anni e mezzo a Las Vegas, ho lavorato con Yoko Ono, facevo dieci spettacoli alla settimana, mi hanno addirittura affidato un assolo: essere lì, per molti era il sogno della vita, a me non interessava».

La chiamano perfino a Hollywood, come coreografa, ma nello stesso periodo la invitano anche a realizzare una performance artistica: «Dovevo scegliere: Hollywood o l’arte? Ho scelto la libertà».

La performance

La prima volta che interagisce con un robot è nel 2018, grazie alla sua collaborazione con Ars Electronica (festival di Linz che intreccia arte, tecnologia e temi sociali): «Mi chiesero se volevo interagire con un enorme braccio robotico di tre tonnellate e mezzo, per una sinfonia con un’orchestra di 30 elementi. E io “Ok”. Ma ero terrorizzata: era pericoloso e c’era sempre una persona pronta a schiacciare un pulsante rosso per fermare tutto in caso di emergenza».

Il click nel 2019, grazie a una seconda performance, questa volta con un robot che «di braccia ne aveva quattro e, col motion tracking, memorizzava i miei gesti: ho pensato “Wow, questo è un modo per fissare la performance, per tramandare la mia presenza in movimento nel futuro, quando non ci sarò più”. È diverso da una foto, da un video o da un ologramma, perché è qualcosa di tangibile».

E poi è arrivato il cane: «Quando mi hanno proposto di lavorare con Spot (grazie alla Johannes Kepler University di Linz e al suo Circus of knowledge, progetto didattico che unisce studiosi, scienziati e artisti, ndr), la prima cosa che ho pensato è stata “Aspetta un attimo… ma questa è la performance di Beuys!”». La seconda cosa che ha pensato è stata «non posso rifarla: Beuys è Beuys, io sono Silke».

SPOTSHOTBEUYS, infatti, parte da Joseph per arrivare a Silke e va in scena per la prima volta durante Ars Electronica 2023, dura tre ore divise in tre giorni, ed è in quell’occasione che Giovanni Bonotto (figlio di Luigi Bonotto, fondatore della omonima Fondazione), la vede e propone a Grabinger di portarla a Venezia in una versione ridotta a due ore.

Nella laguna 

Ed eccoci qui, nel Campiello del Lion Bianco. Il cane robot che arriva in barella. L’essere umano che lo aspetta a occhi chiusi, in ginocchio: «È la terza cosa che ho pensato: dovevo invertire i ruoli». Così facendo, se nel 1974 il coyote simboleggiava la natura selvaggia messa in pericolo dall’uomo, ora è il robot a relazionarsi con l’uomo (specie in pericolo?), dando spunto a una riflessione sull’impatto della tecnologia sull’esistenza umana e sui cambiamenti sociali e politici che comporta.

Nel campiello fa freddo. Da giorni a Venezia c’è questo vento polare che infierisce sulle acconciature bauhaus e i caftani polisemici e le montature irisapfelesche del popolo dell’arte, sbarcato in laguna per la Biennale e tutto il resto. Eppure: nel campiello tutti immobili, in piedi, per due ore, in silenzio, più che congelati ipnotizzati dalla visione di una donna e un cane-robot che cercano di convivere in quei pochi metri quadrati. Si scrutano diffidenti, si rincorrono, si scontrano, si incontrano.

Due ore che innescano parecchie domande «a cui non voglio dare risposte: ognuno trovi le sue», dice Grabinger mentre sorseggia il caffè, sorridente, nessuna traccia della dura intensità emanata dal suo corpo in scena la sera prima: «Per me ogni volta è una catarsi. Un rituale. Devo cercare di stabilire una connessione con il cane, adattarmi a questa entità che è solo un contenitore ma anche un mio riflesso: come diceva Lacan, quando guardi nello specchio lo specchio ti rimanda un’immagine, e tu capisci che sei tu ma non sei davvero tu».

Sarà perciò che mi colpisce il modo in cui guarda il cane negli “occhi”: «Beh, è come guardare nell’abisso, che poi guarda dentro di te». La tecnologia sarebbe quindi l’abisso di Nietzsche? «Non do risposte», sorriso sornione, «solo spunti di riflessione».

Il controllo 

Uno spunto è: chi ha il controllo? Lo spettatore non sa se il cane sia autonomo, il che genera inquietudine: il robot le farà male? Ci farà male? Ci salterà addosso?

Toc-toc-toc-toc… Il battere sinistro delle zampe meccaniche sul legno della pedana a ogni passo del cane, sempre più veloce, scandisce il ritmo di un’ansia che monta, come nella colonna sonora de Lo squalo: «Nella prima parte della performance voglio dare l’impressione che nessuno abbia il controllo di Spot. Nella seconda svelo che c’è qualcuno che lo comanda dall’esterno».

In scena ecco, infatti, un uomo con un tablet. È lo spunto «per riflettere sul fatto che di fronte a un robot o a una Ia dimentichiamo che dietro c’è sempre un essere umano, con la sua cultura e le sue idee politiche. Spot è controllato da un uomo con cui non ho nessuna connessione, proprio come, quando interagiamo con una Ia o uno smartphone, non abbiamo un rapporto con la persona che li ha programmati. E vorrei che su questo ci fosse un dibattito». Nella terza e ultima parte, infine, «sono io che prendo il controllo sul robot».

Qui Grabinger si discosta decisamente dal Beuys del 1974: «Lo porto nel 2024. Nella terza parte, pur essendo io che la controllo, ho sempre l’assurda speranza che l’entità reagisca autonomamente. E questo ci porta a un altro punto chiave: quando ci troviamo di fronte a qualcosa di diverso da noi, che si muove o reagisce, abbiamo sempre il bisogno di “umanizzarla”. Perché sentiamo che minaccia la nostra esistenza. È una questione importante nel dibattito intorno alla Ia, alla robotica e all’arte digitale: non accettiamo che ci sia qualcosa “altro da noi”. Ne siamo spaventati, ma anche affascinati».

Contraddittorio. Umano. Viene in mente Ennio Flaiano: «I grandi amori si annunciano in un modo preciso, appena la vedi dici: chi è questa stronza?».

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