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Pane

Enciclopedia dei ragazzi (2006)

pane

Giorgio Bertoni

Un alimento semplice, ma con una storia complicata

La storia del pane ha accompagnato da sempre quella della civiltà umana. Ottenuto grazie alla cottura delle farine derivate dai cereali, questo alimento ha rappresentato nei secoli la base dell’alimentazione, tanto che il controllo dei forni è stato spesso un aspetto essenziale del potere, fino a essere all’origine di sommosse e rivoluzioni. Alimento semplice ed essenziale, ha però avuto un suo sviluppo tecnologico, soprattutto nel Rinascimento con l’introduzione della lievitazione artificiale

Una scoperta casuale

Il pane accompagna la storia dell’uomo da almeno diecimila anni. È infatti nell’era di passaggio tra Paleolitico e Neolitico (tra il 10.000 e l’8.000 a.C.) che l’uomo inizia a coltivare cereali (grano, segale, farro). Ne sono testimonianza ritrovamenti archeologici in varie zone dell’Europa occidentale e del Medio Oriente. È difficile stabilire una data esatta in cui l’uomo ‘inventò’ il pane. Per lunghi periodi, infatti, l’uomo si cibò dei chicchi interi – crudi o cotti – o macinati con pietre. Il passaggio successivo avvenne quando la farina, di grana grossa e non pura, fu unita all’acqua. La pappa così composta aveva un buon potere nutrizionale, ma non era facilmente digeribile. Il primo passo importante nell’evoluzione del pane si ebbe probabilmente per caso: quando cioè un recipiente con farina e acqua fu lasciato a lungo vicino a un fuoco. Si vide allora che questi ingredienti tendevano a rassodarsi e a creare un impasto più o meno omogeneo; oppure potrebbe essere capitato che un impasto di acqua e farina venisse appoggiato su una pietra calda, in modo da consolidarsi rapidamente e dare origine a una rudimentale focaccia.

Antico, ma non vecchio

Gli archeologi sono concordi nell’asserire che, nel mondo antico occidentale, furono gli Egizi a ottenere le prime forme di lievitazione del pane. Uguale diffusione ebbe il pane in tutte le società successive, da quella greca a quella romana. Durante l’età repubblicana, nel 168 a.C., i Romani, consapevoli dell’importanza del pane, delegarono alla magistratura degli edili il controllo dei forni pubblici – che nella città antica di Roma erano oltre 400 – perché la lavorazione e la vendita avvenissero secondo le modalità di legge. L’uso di farine di cereali o di legumi unite all’acqua per fare pani o focacce – spesso cotti anche sotto la cenere – non è però tradizione solo occidentale: reperti archeologici ci dicono che essi erano consumati anche dalle civiltà centroamericane del periodo precolombiano e in Asia. Il consumo e la cultura del pane ebbero un periodo di decadenza con la caduta dell’Impero Romano e con l’avvento delle civiltà barbariche. Un periodo relativamente breve, però, perché il consumo di pane non si interruppe mai, grazie soprattutto ai monasteri (dal 7° secolo) e poi all’avvento della civiltà feudale.

L’importanza, anche politica, del controllo dei raccolti, delle farine, dei mulini, e quindi del pane, fu subito chiara a signori e vassalli, che presto imposero il monopolio delle loro strutture di raccolta, macinazione e cottura, almeno del pane derivato dal grano. Il popolo, tuttavia, continuò per secoli a produrre in casa pane di bassa qualità, ma comunque commestibile, con orzo, avena, miglio e sorgo, cotti o tra le braci del camino. Fu con l’epoca comunale che i fornai tornarono a essere numerosi e, per certi aspetti, anche ben considerati nella scala sociale degli artigiani. In molti Comuni furono istituite anche corporazioni di fornai, spesso uniti ai mugnai.

La rivoluzione del lievito

La vera grande rivoluzione nel campo della panificazione si ebbe solo nel Rinascimento. Nel pane, fino ad allora lievitato naturalmente, fu introdotto il lievito di birra, prodotto dalla complessa lavorazione di lieviti naturali e malto, appunto il principale ingrediente per produrre la birra. Fu grazie a questo lievito e al sempre più massiccio consumo di pane da parte delle classi più agiate che i fornai, nei secoli successivi, diedero libero sfogo alla loro fantasia creativa. Nacquero così non solo nuove forme ma anche tipi diversi di pane: all’olio, al burro, alle olive, alle erbe aromatiche; e poi pani dolci, con le uvette, con il cioccolato, con l’anice. Una tradizione, quella dei pani abbinati ad altri ingredienti, per altro non nuova, semmai riscoperta: gli scrittori greci e romani nelle loro opere ci hanno infatti tramandato che in Grecia si facevano più di trenta tipi di pane diversi, segno evidente di quanto, anche a tavola, quella civiltà fosse sviluppata.

Fino alla seconda metà del Settecento, tuttavia, il lavoro dei fornai era rimasto praticamente immutato. Si erano affinate le farine, era stato introdotto il lievito di birra per rendere i pani più leggeri e morbidi, ma null’altro era cambiato nei forni: confezionamento e lievitazione dell’impasto la sera prima, sveglia in piena notte del fornaio che, all’alba, preparava il forno a legna. Una volta che il forno era giunto alla temperatura necessaria (dai 120 ai 150 °C) il fornaio metteva le forme di pane a cuocere, così che di primo mattino poteva già rivenderle alle massaie o ai lavoranti che andavano a bottega.

Dalla casa all’industria

Non sempre il fornaio compiva l’intero processo produttivo. Era infatti tradizione – durata, in alcuni luoghi anche d’Italia, fino alle soglie della Seconda guerra mondiale – che l’impasto si facesse in casa. La sera la massaia preparava la forma di pane e la metteva, avvolta in un panno, a lievitare nella madia, un apposito mobile con apertura ribaltabile. La mattina si recava al forno per farla cuocere e pagava una piccola cifra al fornaio. Un tempo il pane, più consistente rispetto a quello di oggi, poteva conservarsi per molti giorni, senza indurire troppo. Così, il ‘rito’ dell’impasto era una mansione che la massaia svolgeva di regola una volta la settimana. Ora questa tradizione del pane non esiste praticamente più, almeno nelle civiltà occidentali.

I primi tentativi di meccanizzazione del lavoro del fornaio avvennero già nella seconda metà del Settecento, ma fu solo a metà Ottocento che furono create le prime vere innovazioni tecnologiche. Nacquero le impastatrici meccaniche – poi sostituite da quelle elettriche –, le spezzatrici, le formatrici. Oggi quello del fornaio resta un lavoro pesante, ma assai meno impegnativo di un tempo, perché tutte le fasi della panificazione sono meccanizzate e le macchine hanno sistemi elettronici preimpostati per le varie fasi di lavorazione.

La politica del pane

Il pane è così intimamente legato alla vita dell’uomo che ne è diventato parte integrante. Il pane è il risultato del lavoro nei campi e del buon esito dei raccolti. L’equilibrio di ogni società si è mantenuto, per millenni, sui raccolti, e soprattutto sul controllo centralizzato delle farine e sulla loro equa distribuzione tra la gente. Ogni volta che le carestie riducevano drasticamente le quantità disponibili di farina, nascevano rivolte popolari, spesso dall’esito tragico. Non a caso, secondo lo scrittore romano Giovenale, gli imperatori romani tenevano a bada il popolo mettendo in pratica il motto: panem et circenses «cibo e divertimenti». Meno attente a questo aspetto, le società medievali registrarono spesso rivolte popolari, la cui scintilla era data dall’improvvisa carenza di farine o dall’aumento del costo del pane. Ancora in età moderna, tra le tante, non si può dimenticare la rivolta dei milanesi, nel 1628, descritta da Alessandro Manzoni nell’episodio dell’assalto ai forni de I promessi sposi. La rivolta fu causata dall’aumento del prezzo delle farine provocato dalla carestia dell’anno precedente. La stessa Rivoluzione francese ebbe, tra le cause non secondarie, quella della carenza di pane. Famosa, ma forse inventata dagli stessi ambienti rivoluzionari, la frase che avrebbe pronunciato la regina Maria Antonietta vedendo davanti al palazzo reale una folla inferocita di parigini che chiedeva pane: «Se non hanno pane, dategli delle brioches». Infine, ancora nella seconda metà dell’Ottocento, in Italia fu molto odiata la cosiddetta tassa sul macinato, introdotta nel 1868 dal ministro delle Finanze Quintino Sella, poco dopo l’unità d’Italia per far fronte alle immani spese del giovane governo italiano.

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