Il “metodo Scotland” salverà anche le donne italiane? - Linkiesta.it

Il “metodo Scotland” salverà anche le donne italiane?

Patricia Scotland, ex ministro britannico, esporta il suo metodo antiviolenza in Italia

«Il più grande femminista che io abbia mai conosciuto è mio padre». Patricia Scotland, membro della Camera dei Lord inglese ed ex ministro della Giustizia del governo Blair, ha dato il nome al cosiddetto “metodo Scotland” per il contrasto alla violenza sulle donne. Risultato: in sette anni, solo a Londra le vittime sono calate del 90 per cento. Nel 2003 erano state uccise 49 donne, nel 2010 il numero è arrivato a cinque. Già duplicato in Spagna e Nuova Zelanda, il metodo verrà ora sperimentato anche in Italia grazie a un accordo con l’Università Bicocca di Milano. «L’abbiamo fatto noi, potete farlo anche voi. Change is possible. Together we can», ripete più volte la deputata laburista.

Patricia Scotland è volata in Italia, ha incontrato il presidente della Camera Laura Boldrini in concidenza con la ratifica della Convenzione di Istanbul e ha anche inaugurato il ramo italiano della sua Global Foundation for the Elimination of Domestic Violence (Edv) fondata in Inghilterra nel 2011. «Per molto tempo ho creduto che tutti gli uomini avessero rispetto delle donne come mio padre», racconta Scotland. Nata nella Repubblica Dominicana, decima di dodici figli, prima donna nera nominata nel Queen’s Counsel, «a 21 anni, quando ho cominciato a fare l’avvocato e ho scoperto che non era così, ho avuto uno shock». Da questa presa di coscienza è iniziata la sua lotta, «bussando per 18 anni alle porte dei conservatori». Finché, con il governo Blair, è arrivato il momento di agire.  

«Blair mi diede due compiti semplici: ridurre i crimini nel Paese ed eradicare la violenza domestica. Due cose piccole piccole», scherza la baronessa. Nel 2003 nel Regno Unito 120 donne erano state uccise dai propri compagni, due-tre a settimana. Facendo il giro delle carceri,scopre che l’89% delle detenute era stato vittima di violenza domestica o crimini sessuali, oltre il 50% dei giovani presenti in carcere aveva alle spalle storie di violenza e che due uomini su tre erano cresciuti in contesti di abusi. «Erano gli abusati che diventavano aggressivi», racconta. 

Il primo passo è stato quello di riunire istituzioni e ministeri sulle azioni da intraprendere. Poi: collaborazione con le realtà esistenti, «perché il governo non può fare tutto da solo: c’è bisogno dell’aiuto dei datori di lavoro, dei filantropi, delle organizzazioni non governative, delle scuole. Senza questa collaborazione in Inghilterra saremmo rimasti al 2003». Così sono nati i Tribunali specializzati nelle violenze domestiche, 150 in tutto, e 250 agenzie multidisciplinari (i cosiddetti Marac: Multi Agency Risk Assessment Conference). L’anello di congiunzione con le vittime sono gli Independent domestic violence adviser (Idva), «tutor, molte volte ex vittime, che si trovano negli ospedali, al pronto soccorso, nei tribunali, formati per accompagnare la vittima, e il percorso è difficoltoso per tutti, sia per la duchessa sia per la moglie del netturbino».

Perché, ripete molte volte la baronessa, «la violenza domestica non ha ceto, nazionalità, età: una donna su tre nel mondo è vittima di violenza domestica, dalla Francia ai Caraibi». Non solo: «Non si tratta neanche della lotta di un genere contro un altro: in Inghilterra una donna su 4 e un uomo su sei sono vittime di violenza domestica, ma le donne prima di denunciare aspettano in media cinque anni, mentre gli uomini tendono a non fermarsi nelle relazioni di violenza e scappano».  

L’idea alla base del metodo è quella della “staffetta” tra più enti e persone in grado di individuare i casi di violenza e di cooperare tra di loro. «In questo modo si possono fare mille metri passandosi il testimone, anziché 100 per ciascuno». E così, ad esempio, oggi ora «a Londra per avere una licenza da tassista devi aver fatto un corso di formazione per la violenza domestica. Visto che è molto comune che per sfuggire al marito o al compagno violento la donna prenda un taxi».

Il metodo prevede che contro la violenza lavorino due organismi: un gruppo di intervento in grado di valutare i rischi per la vittima e il tutor che la segua dopo la denuncia per almeno tre mesi. La vittima avrà a disposizione un alloggio pubblico per poter lasciare l’abitazione con i propri figli e potrà contare sul supporto della propria azienda, senza il timore di perdere il lavoro. 

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Funzionerà questo modello anche nel nostro Paese? Nel Paese in cui il 47,2% delle donne uccise dai compagni nel 2012 aveva già fatto una denuncia? «Sappiamo che il modello funziona. Quello che può fare uno spagnolo o un inglese, lo può fare pure un italiano», risponde Patricia Scotland. In Spagna in quattro anni le violenze domestiche sono calate del 25 per cento. E anche i numeri inglesi lo dicono: dal 2003 al 2010 i casi sono diminuiti del 64 per cento. Anche «se con i tagli del governo conservatore i numeri stanno tornando a crescere».

Il primo passo in Italia sarà quello di esplorazione tra istituzioni, ministeri, associazioni e organizzazioni non governative per mettere insieme le forze. Così come è stato fatto nel Regno Unito nel 2003. E i costi? «La violenza domestica in Inghilterra aveva un impatto economico notevole: 23 miliardi di sterline all’anno, di cui 3,1 spesi dal settore pubblico, 2,7 spesi dai datori di lavoro, 17 tra cure ospedaliere e ricoveri». Con il “metodo”, invece, in questi anni «sono stati risparmiati 7,1 miliardi di sterline all’anno, e le aziende hanno ridotto il “costo violenza” da 2,7 miliardi a 1,9».

Come? «I datori di lavoro assumono persone e non macchine, e se queste persone soffrono questo si ripercuote sul posto di lavoro. Il 70% degli abusi si protrae anche a lavoro, con email, messaggi, pedinamenti. E il lavoratore è meno concentrato, meno produttivo, arriva tardi a lavoro 4 o 5 volte al mese. La stessa cosa vale per l’aggressore: quando fa queste cose non lavora, magari usa la macchina aziendale per pedinare la vittima. Chiudendo gli occhi le aziende pagano una tassa. Abbiamo chiesto loro: “Volete continuare così? Volete fare qualcosa?”. Chi ha aderito al metodo ha tratto benefici anche economici»

«Per portare il metodo in Italia non serve nessuna legge, ma solo la buona volontà», ribadisce Simonetta Agnello Hornby, avvocato e scrittrice di origini italiane che con Patricia Scotland ha lavorato per molti anni e autrice con Marina Calloni (ambasciatrice di Edv Italia) de Il male che si deve raccontare. Per cancellare la violenza domestica, i cui proventi serviranno a finanziare la prima fase di attività che porterà alla creazione del ramo italiano della fondazione. «Possiamo fare come gli inglesi o anche più degli inglesi. Bisogna coordinarsi e lavorare insieme. La verità è che nel campo di chi cerca di fare del bene ci sono più fazioni e più divisioni di chi vuol far del male, e poi si parla troppo. Noi vogliamo fare».

L’ostacolo più grande è superare il silenzio. «Le donne pensano che sia colpa loro e non parlano. Per gli uomini è ancora più difficile perché si vergognano. Stessa cosa per le coppie omosessuali: per denunciare devono rivelare a tutti la propria omosessualità. Le persone religiose, invece, sono legate al concetto dell’amore suggellato da Dio. Ma Dio non picchia e quello non è amore», dice Scotland. Un piccolo consiglio per far funzionare il “metodo” in Italia? «La prossima volta che chiedete a una donna “Come stai?” aspettate di ricevere la risposta».  

Twitter: @lidiabaratta

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