Ottavio Bianchi: “Il mio Napoli tra Maradona e il jazz. Con Spalletti è cresciuta la squadra” - La Stampa

Una chiacchierata ogni tanto, tra vecchi conoscenti diventati amici. Un’intervista ogni tanto tanto, l’ultima su queste colonne giusto tre anni fa. Ai tempi più duri del Covid, quando Ottavio Bianchi dalla casa di Bergamo alta raccontò la spaventosa sfilata di bare sui camion militari: e rimbalzò sui giornali di mezzo mondo. Oggi, che almeno chilla nuttata è passata, e ci sforziamo di convivere con le altre che nel frattempo si sono succedute, è un giorno di festa. Primo, perché è il 25 aprile, e con l’acqua sporca che sta passando sotto i ponti ci è venuta una gran voglia di celebrarlo come si deve. «Difatti, vale anche per me. E messa in questa maniera è perfetta». Secondo, perché anche per don Ottavio il tempo della scaramanzia è scaduto: ed è arrivato il momento di battezzare lo scudetto del Napoli. «Diceva Eduardo che essere superstiziosi è da ignoranti: ma non esserlo porta male. Con 17 punti di vantaggio la scaramanzia è alle spalle».

Chi l’avrebbe mai detto. Non uno, a cominciare da chi scrive, che avesse previsto alla vigilia il Napoli tra le prime quattro.
«Mi ci metto anch’io. Quelle cessioni eccellenti ci avevano portato fuori strada. E poi chi lo conosceva Kvara? Osimhen sì, ma come è lievitato quest’anno. E Kim? Sai che sentire la gente intonare Kim-Kim-Kim distingue subito Napoli da altre realtà di oggi, per competenza intendo. Dopodiché aveva ragione il tuo maestro Brera, il calcio è mistero senza fine, bello perché lo scudetto non l’hanno vinto, l’hanno stravinto. Anche grazie al fatto che nessuna delle concorrenti ha toccato la sufficienza».

Come si spiega?
«Per le altre non so. Io penso al Napoli, perché ci ho giocato con Sivori e ho allenato Maradona: alla mia non verdissima età sono ricordi incancellabili. È stato bravissimo Spalletti: così come la società, lo staff, la squadra, l’ambiente che tutti insieme hanno creato. Fai caso a come escono senza una smorfia i giocatori sostituiti: e all’entusiasmo con cui entrano gli altri, anche a 5 minuti dalla fine. Ma prima ancora bada a come il collettivo esalta il singolo, e il singolo è sempre al servizio del collettivo. È il traguardo più alto che ti insegnano al corso allenatori di Coverciano: quest’anno il Napoli ne ha fatto uno spot».

È un grande complimento. Che prima o poi, immagino, Spalletti ricambierà confessando di essersi ispirato a te nella gestione ambientale. Più il suo Napoli vinceva e più il suo atteggiamento era dimesso.
«Per forza, quando la squadra è andata in fuga è incominciato il Carnevale di Rio: e lui in panchina aveva l’aria sempre più scura e in sala stampa un fil di voce sempre più sottile. Se non vuoi correre il rischio di saltare per aria, devi sapere che alla guida del Napoli sei seduto sopra un vulcano».

Guarda un po’, il titolo della biografia scritta da tua figlia Camilla, tra l’altro nata a Napoli.
«Sì, ma il titolo glielo suggerì il nostro amico Mura, scrivendo la prefazione. Poi lei è stata brava a pubblicare anche cose nostre che io non avrei divulgato. Tipo il mio commento quando mi annunciò che avrebbe fatto la giornalista: adesso manca soltanto – le dissi scherzando ma non troppo – che tuo fratello faccia l’arbitro».

Oppure ricordare, a distanza di decenni che quel giorno, quel famoso 10 maggio dell’87, mentre tutti cantavano e ballavano seminudi in spogliatoio, a Giampiero Galeazzi che torreggiava su di te col microfono del dì di festa aspettando la frase da scolpire nella storia, dicesti con un mezzo sorriso di circostanza: “Sì, sono soddisfatto. Abbiamo fatto un buon lavoro”. Vogliamo azzardare un paragone? Oppure prenderne tre di oggi da mettere nel Napoli di allora e due più Maradona di quel Napoli da regalare a Spalletti?
«No, questo no. Sono passati 36 anni, sono mondi diversi ormai. È cambiato tutto, dall’alimentazione alla preparazione, dalle rose agli staff al numero di sostituzioni. Anche nella maturità del pubblico e dell’ambiente che è superiore dopo tante stagioni ad alto livello: se allenassi oggi non avrei più bisogno di tenere la tensione alta come allora, perché c’è più maturità in tutte le componenti».

Abbiamo negli occhi il calcio di questo Napoli, parliamo del tuo. Leggo nella biografia che l’ispirazione è nata dal jazz. E mi metto sull’attenti perché il solo ad averlo detto prima di te si chiamava Enzo Bearzot.
«Il jazz è interpretazione individuale e momentanea su di un filo conduttore di riferimento. Penso a Miles Davis, a Gerry Mulligan, ma anche ad altri mostri meno sacri. C’è il virtuosismo, la capacità di godere dello strumento, e il talento di non ripetere mai alla stessissima maniera la stessa esecuzione. Che è frutto solo del provare e riprovare, del variare seguendo un talento superiore, cercando sempre di andare oltre. E come fa a non venirmi in mente Maradona? Il modo in cui lui coltivava il suo talento. Chi dice, o ha scritto a suo tempo, che Maradona non si allenava dovrebbe una volta per tutte cambiare mestiere».

Quanto ti è rimasto dentro Diego?
«Lo nomini e mi viene la pelle d’oca. L’allenamento, prima ancora della partita: l’attimo fuggente per godere in anteprima di tutti i suoi virtuosismi. E lui in quei momenti era il bambino più felice del mondo. L’ho amato molto, arrivando a farmi odiare per provare a salvarlo nel momento più difficile. Non dimenticherò mai il suo sguardo spavaldo e insieme rassegnato quando mi rispose: ma io voglio vivere solo col piede sempre sull’acceleratore».

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