Maurizio | Luciano Ganci |
Il Principe di Bouillon | Romano Dal Zovo |
L'Abate di Chazeuil | Gianluca Sorrentino |
Michonnet | Sergio Vitale |
Adriana Lecouvreur | Kristine Opolais |
La Principessa di Bouillon | Veronica Simeoni |
Mad.lla Jouvenot | Elena Borin |
Mad.lla Dangeville | Aloisa Aisemberg |
Quinault | Luca Gallo |
Poisson | Stefano Consolini |
Ballerina | Luisa Baldinetti |
Acrobata | Davide Riminucci |
Direttore | Asher Fisch |
Regia | Rosetta Cucchi |
Scene | Tiziano Santi |
Costumi | Claudia Pernigotti |
Luci | Daniele Naldi |
Coreografie | Luisa Baldinetti |
Video | Roberto Recchia |
Maestro del Coro | Gea Garatti Ansini |
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna |
Dopo la scelta del Teatro Comunale di Bologna di presentare, a causa della pandemia, Adriana Lecouvreur in versione filmica, la più celebre opera di Francesco Cilea arrivava la sera del 14 novembre nella sala del Bibiena in presenza del pubblico, in pratica nella stessa edizione del febbraio scorso (vedi recensione). Diversi erano, naturalmente, alcuni aggiustamenti della parte scenica per il palcoscenico e nella compagnia di canto l’unica variazione consisteva nel subentro di Sergio Vitale nel ruolo di Michonnet in luogo di Nicola Alaimo.
L’opera è nata per il teatro e ho sempre trovato i tentativi di renderla qualcosa di diverso dalla sua destinazione originaria dei surrogati quasi sempre deludenti. Le stesse riprese televisive di rappresentazioni teatrali o le dirette cinematografiche dai teatri non possono rendere appieno l’atmosfera, il calore, il suono di uno spettacolo dal vivo. Per non parlare della parte visiva per forza di cose mediata da un regista televisivo o cinematografico.
Anche la versione di Rosetta Cucchi (insieme a Piero Santi, scene, Claudia Pernigotti, costumi, Daniele Naldi, luci e Roberto Recchia,video), pur con i pregi di cui scrissi nell’articolo già citato sopra, non sfuggiva a questi limiti e nel passaggio al palco ha guadagnato in naturalezza, pur dovendo rinunciare a qualche indovinato espediente, come lo sfruttamento di spazi del Comunale inediti, soprattutto nel secondo atto. Immutata rimaneva l’impostazione dello spettacolo che partiva dal 1730, anno della morte della vera Lecouvreur, per passare al 1860 del secondo atto, in pieno romanticismo, al 1930 del terzo con l’esplosione del cinema, e al 1968 del quarto, tra Esistenzialismo e Nouvelle Vague, con quella scritta (“Le temps est une invention des gens incapables d’aimer”) che dava l’input al dipanarsi delle immagini e degli avvenimenti.
Ma la marcia in più della fruizione dal vivo è soprattutto la possibilità di poter valutare nella loro effettiva essenza le caratteristiche sonore di voci e strumenti, senza intermediazioni elettroniche, specialmente in una sala dalla buona acustica come il Teatro Comunale di Bologna.
Così, come avevo già ipotizzato nella precedente recensione, rispetto alla ripresa filmica la voce di Luciano Ganci (Maurizio di Sassonia) rivelava l’effettiva brillantezza del timbro, la capacità di espandersi. Inoltre alcune frasi venivano affrontate con uno slancio invidiabile. Peccato che a fronte di tanta grazia di Dio come doni naturali non corrispondesse sempre un’altrettanta disciplina nell’uso degli stessi, motivo per cui alcuni passaggi insidiosi (soprattutto ne “La dolcissima effige”) non risultavano ben oliati, ma in ogni caso ben più gradevoli di quanto potesse risultare dall’ascolto “elettronico”. Vanno riconosciuti comunque al tenore romano progressi nella ricerca coloristica, nella varietà dinamica, nell’omogeneità dei registri, tanto da porlo tra gli elementi tenorili più interessanti dell’attuale panorama operistico. E soprattutto rispetto al film, in cui per simulare l’apparizione dell’amante come un delirio della protagonista, la voce del tenore appariva alonata, innaturale, si può apprezzare il suo quarto atto, se non dal punto di vista scenico (Adriana si aggrappa a Michonnet che crede il suo Maurizio), almeno da quello vocale.
Riguardo a Kristine Opolais ho poco da aggiungere a quello che avevo già scritto nel marzo scorso: “…tende a puntare su fraseggi asciutti, diretti, e non ama le alchimie coloristiche (per temperamento non meno che per caratteristiche tecniche). Dà vita a una protagonista sempre più credibile man mano che il dramma prende corpo; meno efficace all’inizio, del tutto convincente al quarto atto. Ha fascino, è bella, recita bene. La sua Adriana ha carattere, è attrice di successo e non manca di far valere il suo carisma anche nella vita privata, non al modo della diva liberty di cui abbiamo avuto in passato illustri esempi, ma in maniera più diretta, moderna...Non bisogna attendersi spettacolari pianissimi, anzi le gradazioni dinamiche sono limitate; Il soprano lettone punta piuttosto sull’accento, talvolta con esiti gratificanti. Insomma decisamente più una cantante attrice che una vocalista” (cosa che in un’opera come questa non è detto che sia un difetto).
Dal vivo Veronica Simeoni (La Principessa di Bouillon) era quella più penalizzata dai volumi orchestrali tenuti da Asher Fisch, in particolare nel momento solistico all’inizio del secondo atto, ma il personaggio, risoluto, passionale ma al tempo stesso aristocratico, ne usciva con tutti i crismi, anche grazie a un portamento scenico autorevole.
Sergio Vitale, l’unico elemento nuovo del cast, era un Michonnet dall’emissione morbida e dall’espressività misurata ma efficacissima, tanto da non far rimpiangere l’ottimo Nicola Alaimo del film.
Romano Dal Zovo, elegante come figura e come portamento ma rigido dal punto di vista vocale, e Gianluca Sorrentino, caratterista di lungo corso ed esperienza, erano, rispettivamente Il Principe di Bouillon e L’Abate di Chazeuil.
Decorosi i quattro commedianti (Elena Borin, M.lla Jouvenot, Aloisa Aisemberg, M.lla Dangeville, Luca Gallo, Quinault e Stefano Consolini, Poisson).
Da lodare l’ottimo Davide Riminucci (Paride-Acrobata) e Luisa Baldinetti (la Ballerina e Coreografa), di grande effetto come Loïe Fuller/Melpomene, che danza sullo sfondo durante il Monologo di Fedra e accoglierà la Lecouvreur nella sua ampia veste al momento del congedo.
Asher Fisch, alla guida di un’Orchestra del Teatro Comunale in buona forma, tendeva a imporre tempi spediti, prediligeva un’asciuttezza espressiva che depurava la partitura dagli effetti languidi e floreali di certa tradizione, ma con sonorità talvolta capaci di affogare le voci dei solisti.
Il Coro del Teatro Comunale, qui poco impegnato, dava buona prova di sé sotto la guida della nuova Maestra Gea Garatti Ansini.
Teatro con diversi posti vuoti, ma successo piuttosto caloroso che premiava tutti i responsabili dello spettacolo. Un isolato tentativo di dissenso nei confronti della regia veniva subito sommerso dagli applausi.
La recensione si riferisce alla recita del 14 novembre 2021.
Silvano Capecchi