Uno speciale dedicato a Maria di Rohan di Gaetano Donizetti in occasione del suo ritorno sulle scene del Teatro Donizetti di Bergamo e dell'imminente pubblicazione in cd dell'opera per l'etichetta inglese OPERA RARA.
E fu pura la mia fé
(Maria di Rohan – Atto III – Scena XI)
Che la vera Maria di Rohan, ovvero Marie de Rohan-Montbazon Duchessa di Chevreuse (1600 – 1679) possa davvero aver creduto di avere una “pura fé” è alquanto improbabile, dato che si trattò di una delle dame di corte più intriganti e influenti della sua epoca, protagonista di avventure erotiche piccanti nonché di numerose congiure volte a mettere in discussione il potere del re Luigi XIII e dei cardinali Richelieu e Mazzarino. Come spesso avviene, però, un conto è la realtà storica dei fatti mentre un altro è l'immagine della Duchessa che ci viene consegnata dal melodramma in tre atti di Salvatore Cammarano messo in musica da Gaetano Donizetti nel 1843 per il Kärntnertortheater di Vienna. Il melodramma di Cammarano e Donizetti venne tratto da Un duel sous Richelieu, “drame melé de couplets” di Locroy e Edmond Badon, all’epoca soggetto in gran voga dopo il trionfale debutto del 1832 al Théâtre National de Vaudeville: Gaetano Donizetti aveva dimostrato interesse per la vicenda già nel 1837, dal momento che propose il soggetto a Cammarano per la nuova opera da programmare a Venezia (che sarà poi la sfortunata Maria de Rudenz). “Ho scelto Un duel sous Richelieu” scrive “È dramma d’effetto, e specialmente ci vedo buffo e tragico, cosa che m’importa moltissimo per Ronconi e per la Ungher”. Il drame di Locroy e Badon si inseriva nello stesso filone reso celebre dai Tre Moschettieri di Alexandre Dumas, che ambientava fitte reti di intrighi e di misteri nell’atmosfera ombrosa della corte di Luigi XIII, all’epoca del Cardinale Richelieu.
In effetti la trama della Maria di Rohan riprende un evento storico realmente accaduto, ovvero la congiura ordita dalla Duchessa di Chevreuse con il suo amante Henri de Talleyrand-Périgord, conte di Chalais, nel tentativo di assassinare Richelieu, detronizzare Luigi XIII e far ascendere al soglio francese il fratello del re, Gastone d’Orléans. La congiura, ovviamente, fallì e il Conte di Chalais venne giustiziato, mentre la Duchessa di Chevreuse se la cavò e avrebbe ancora avuto molte opportunità di far valere le sue arti intriganti e seduttive, partecipando in seguito anche alla Fronda. Oltre a Chalais (che nel libretto di Cammarano assumerà il nome di Riccardo) anche il Duca di Chevreuse è, ovviamente, un personaggio realmente esistito: nell’opera di Donizetti si chiama Enrico ma nella realtà fu Claudio di Guisa, duca di Chevreuse e principe di Joinville.
Maria di Rohan, duchessa di Chevreuse, è anche un personaggio inserito da Dumas nella sua trilogia dedicata ai tre moschettieri (I tre moschettieri, Vent’anni dopo e Il Visconte di Bragelonne), in cui la disinvolta e disinibita nobildonna è amante sia di Aramis che di Athos (che evidentemente, dopo Milady, doveva nutrire un’insana passione per queste femmine intraprendenti e avventurose), con cui peraltro ha un figlio (Raoul).
Inutile, quindi, ricercare nel melodramma donizettiano attendibili fondamenti storici: gli stessi personaggi, che nella realtà dovettero essere intriganti e calcolatori, vengono presentati nella luce malinconica delle anime oppresse da un destino avverso, come canone romantico voleva ma bisognerà notare che ad almeno uno di loro, Chalais, le cose vanno meglio di come finirono nella realtà dei fatti. Mentre nel melodramma l’uomo viene ucciso da Chevreuse fuori scena con un secco colpo di pistola, leggenda narra che la sua esecuzione, dopo il fallimento della congiura, dovette essere di inaudita atrocità, dato che la sentenza venne portata a compimento da un condannato a morte graziato che, però, impiegò più di venti colpi per decollare il conte.
UN’OPERA AL CHIUSO – A colpire immediatamente l’ascoltatore della Maria di Rohan sono due aspetti essenziali: l’opera si caratterizza per una drammaturgia via via più stringata man mano che prosegue nella vicenda e appare evidente la claustrofobia di una trama interamente svolta in ambienti chiusi. Dopo un I Atto in cui i vari personaggi sono tutti presentati con delle composite cavatine è dal II Atto che la tragedia comincia a compiersi con l’originale duetto tra tenore e baritono che, discutendo mentre la moglie del secondo è chiusa nell’armeria, vira in atmosfere drammatiche una situazione potenzialmente comica, in grado di rispecchiare quell’unione di aspetti brillanti e tragedia che Donizetti aveva già iniziato a sperimentare nella Lucrezia Borgia composta esattamente dieci anni prima (tratta da un testo, guarda caso, di un altro francese: Victor Hugo). Nell’originale versione dell’opera, quella approntata per il Kärntnertortheater di Vienna, è peraltro assente il curioso personaggio en travesti di Gondì (che per l’occasione è un tenore comprimario), il che da al lavoro un clima cupo e funereo, dato che mancano tanto la brillante Ballata “Per non istare in ozio” che la Romanza “Son leggero, è ver, d’amore”, composti a Parigi per la vocalità di Marietta Brambilla: il risultato è curioso, perché proprio quell’unione di buffo e tragico che tanto aveva affascinato Donizetti nel 1837 risulta molto ridimensionata rispetto all’originale mélodrame di Locroy e Badon e, in fondo, ridotta solo al duetto sopra citato.
È probabile che il tentativo (riuscitissimo, peraltro) di dare alla sua composizione atmosfere severe adatte al raffinato pubblico viennese abbia spinto il compositore a privilegiare la sottile costruzione psicologica dei protagonisti piuttosto che l’adesioni a forti contrasti scenici ed espressivi. Le critiche che seguirono il debutto viennese del furono, in effetti, entusiaste e apprezzarono in particolare la notevole capacità del bergamasco nel costruire un lavoro davvero cosmopolita: la splendida Ouverture dell’opera contiene sorprendenti echi schubertiani e si pone come una delle più raffinate e intense composizioni strumentali realizzate in Italia nel corso del XIX secolo. Il clima funereo di una reggia dominata dalla presenza invisibile di Richelieu, sempre evocato dai protagonisti ma mai presente in scena (Luca Zoppelli, curatore dell’edizione critica dell’opera, parla di lui come di un burattinaio sempre attivo con le sue marionette, che sarebbero poi i protagonisti) appare sorprendentemente coeso e coerente, trascinando l’ascoltatore verso l’inevitabile tragedia finale.
A Parigi parte di questa atmosfera muta: la presenza nel cast del Théâtre Italien, in cui l’opera avrebbe dovuto debuttare, del contralto Marietta Brambilla convinse Donizetti a inserire nel corpo dell’opera una parte più ampia per Gondì, recuperando nel caso della Romanza del II Atto (cantata da Gondì a Chalais) una situazione presente nel mélodrame originale ma cassata nella versione di Vienna. Oltre alla definizione della parte di Gondì le recite parigine videro l’aggiunta di una nuova cabaletta per il tenore al I Atto (ma venne tagliata quella del II), l’inserimento di un Larghetto nel Finale II (già composto, tuttavia, dopo le recite viennesi), un nuovo duettino tra Maria e Chalais per il III Atto e una cabaletta per Maria da eseguirsi dopo l’intensa romanza del III Atto “Havvi un Dio che in sua clemenza”. La Maria “ingravidata” (la definizione è dello stesso Donizetti) ritornò a Vienna nel 1844, ma i critici in questo caso stigmatizzarono l’aggiunta di brani che interpretarono come fatue concessioni al gusto italiano che avevano rovinato la compattezza del capolavoro tanto ammirato l’anno prima (anche se, in questo caso, appariva più evidente la contemporanea presenza di elementi brillanti e tragici). Ulteriori varianti vennero approntate per le recite di Napoli del 1844, ma si trattò di modifiche di minore entità.
La domanda da porsi è la seguente: in che misura è possibile considerare le modifiche autografe di un’opera (il discorso non è peraltro valido solo per la Maria di Rohan) come miglioramenti e in che misura debbono essere interpretate come concessioni ai gusti del tempo? La risposta non è semplice: Donizetti aveva iniziato a rimettere mano alla sua opera già da prima delle recite parigine, un aspetto che convaliderebbe l’idea (figlia anche di certa estetica novecentesca) di una ricerca continua di miglioramento, ma poi lo stesso autore accettò di inserire nelle partiture a stampa le varianti destinate alla Brambilla, evidentemente frutto d’occasione. La risposta migliore è probabilmente quella di intendere l’opera del XIX secolo come un organismo sperimentale estremamente dinamico e mutevole, in cui gli autori non ricercavano “una” variante definitiva, ma approntavano “varie” varianti che erano “definitive” per un determinato luogo e una determinata occasione: una sorta di laboratorio progettuale e di work in progress, che appare tanto più evidente in un autore prolifico come Donizetti.
IL PROBLEMA DEL FINALE – È nota la celebre lettera in cui Donizetti afferma di aver scritto la Maria di Rohan in pochissimi giorni: “sai tu che in 24 ore ho fatto due atti? Quando il soggetto piace, il core parla, la testa vola, la mano scrive.” In realtà, anche ammettendo che Donizetti da tempo ronzava attorno alla Maria di Rohan desiderando mettere in musica una vicenda ritenuta particolarmente adatta al suo temperamento, in 24 ore avrà semmai steso l’ossatura di questi due atti, la cosiddetta “partitura scheletro” con la linea vocale e la linea del basso, ancora priva dell’orchestrazione e bisognosa di eventuali ritocchi. Il lavoro vero e proprio sulla Maria di Rohan fu invece molto lungo e complesso, in particolare per quel che riguarda il finale, su cui le continue varianti fanno capire come l’autore sentisse urgente il problema di dare un’adeguata conclusione all’opera in tempi, come gli anni ’40 dell’800, in cui le tipologie del finale tragico venivano pesantemente messe in discussione: lo status di opera sperimentale e “work in progress” della Maria è anche nella stesura di queste continue modifiche che, partendo dalla probabile composizione di un’ampia aria finale che seguiva il composito terzetto (che, in realtà, nasce come duetto tra soprano e baritono e si allarga con l’ingresso di Chalais dalla porta segreta), si riducono fino a una scena di pantomima. In origine, difatti, Donizetti dovrebbe aver pensato ad una scena conclusiva da destinare a Maria, poi cassata in larga parte fino a far sopravvivere una breve e furente invettiva (“Onta eterna? Io non t’amai!” da cui è tratto il verso in epigrafe a questo speciale) che, però, venne tagliata a ridosso del debutto viennese: la certezza di questo ce la danno i libretti del 1843, in cui l’invettiva è presente, e le recensioni d’epoca, che lodano la scelta di averla eliminata in favore della conclusione più frequentemente eseguita, ovvero la tremenda frase di Chevreuse alla donna “La vita con l’infamia, a te donna infedel!”. A Napoli nel 1844, tuttavia, Donizetti si spinge ancora più oltre, cassando anche la frase del baritono in favore di un’azione interamente mimata: “Odonsi ripetuti colpi alla porta in fondo. Chevreuse, respingendo Maria, che cerca di interpolarsi, tragge seco Chalais per l’uscio laterale; dopo breve momento odonsi due colpi di pistola, e quasi subito rimpare Chevreuse, le di cui sembianze sono difformate; ha i capelli ritti sulla fronte, e l’occhio sfavillante. Maria cade al suolo tramortita.” Non c’è più spazio per il canto: gli attori diventano i protagonisti.
UN’OPERA NUOVA, ANZI NO – Il tempo è un elemento fondamentale nella Maria di Rohan: i rintocchi dell’orologio punteggiano il dialogo tra Maria e Chalais, facendo arrivare costui in ritardo al duello in cui verrà ferito l’amico Chevreuse e, nel III Atto, il suono della pendola tradisce Maria durante il teso colloquio con il marito. Eppure non è mancato chi ha sollevato delle perplessità su questo aspetto del capolavoro donizettiano, come lo studioso Anselm Gerhard: “anche se la letteratura donizettiana ha sempre insistito sul dato di fatto che nella Maria di Rohan <<the passage of time is a function of the plot>>, non si può parlare di una soluzione innovativa del problema del tempo in quest’opera, […]. Donizetti plasma la sua opera secondo lo spirito delle convenzioni del melodramma italiano e ignora – di certo in piena coscienza – le conquiste di quella drammaturgia musicale del grandioso effetto scenico, che non solo un Meyerbeer, ma anche uno Spontini e un Rossini avevano già sperimentato. Da questo punto di vista la sua Maria di Rohan […] è retrospettiva al punto da riuscire irritante”. Il giudizio apparentemente negativo di Gerhard è invece il preludio ad un’interessantissima disamina dell’opera, in cui lo studioso individua una continua pianificazione delle tonalità da parte di Donizetti all’interno del lavoro, in cui il re maggiore starebbe a indicare le convenzioni sociali, il re bemolle maggiore i sogni dei due amanti che si incontrano fisicamente nella tonalità di si bemolle maggiore che, citando ancora Gerhard “nell’armonia mediantica rappresenta per così dire il tertium comparationis dei due estremi re maggiore e re bemolle maggiore”.
Impossibile pensare a una scelta casuale in questa definizione delle tonalità (peraltro una cura simile si avverte nel Prologo della Caterina Cornaro – come è noto in origine destinata a Vienna – ma non nei restanti atti) e allora bisognerà convincersi di un Donizetti estremamente consapevole della raffinatezza del pubblico che aveva davanti, il quale avrebbe saputo cogliere il passaggio della tonalità verso la mediante in tutta la sua estrema valenza espressiva e, del resto, i critici viennesi si accorsero della cura “nell’interna costruzione di questo edificio operistico” in cui ravvisarono “l’unitario legame delle singole parti al tutto”. Il successivo e immediato progresso armonico dei compositori europei porterà alla formazione di un pubblico più abituato a una dissoluzione armonica e meno pronto, di quello viennese, a cogliere le implicazioni espressive di questa opera affascinante: “Nonostante le prime apparenze” conclude Gerhard “Donizetti non ha per nulla affatto ignorato la suspense mozzafiato del suo modello parigino; l’ha invece tradotta in strutture drammaturgico-musicali a lui più congeniali.”
DISCOGRAFIA
(Maria di Rohan – Riccardo, Conte di Chalais – Enrico, Duca di Chevreuse – Armando di Gondì)
Virginia Zeani - Enzo Tei - Mario Zanasi - Anna Maria Rota | Teatro San Carlo di Napoli, Fernando Previtali, Live 1962 Melodram CD 37017
La discografia della Maria di Rohan è fin troppo scarna, considerando il carattere sperimentale dell’opera, e in ognuna delle edizioni citate viene eseguita la versione di Parigi, ovvero con l’aggiunta delle due arie per Gondì – contralto nonché della cabaletta di Chalais al Primo Atto, del Larghetto nel Finale II, del duettino del III Atto e della cabaletta di Maria, ancora al III Atto. Spiccano in particolare le eccellenti prove della Zeani e di Zanasi nel live napoletano, a cui fanno eco una superba Scotto e un grande Bruson a Venezia (in cui Grilli è un ottimo Chalais), con la tesa direzione di Gavazzeni. Morino e Coni sono invece i punti di forza del cofanetto Nuova Era (ben diretta da De Bernart), entrambi in ottima forma vocale ed espressiva, mentre più in ombra risulta la Maria temperamentosa ma disordinata della Nicolesco. Nel caso della Nightingale, come spesso avviene con le emissioni di questa etichetta, a dominare è solo la Gruberova, Maria di rango, mentre il resto del cast appare decisamente inferiore. L’edizione di prossima uscita per Opera Rara (che aveva rappresentato l’opera a Londra nel 1976 con Lois McDonall, Anthony Roden, Jonathan Summers e Della Jones diretti da Leslie Head, recite di cui comunque esiste la registrazione) presenterà invece l’opera nella sua versione viennese, relegando in appendice l’esecuzione delle varianti parigine. Chi volesse ascoltare la versione di Vienna deve comunque ricercare i broadcast radiofonici delle recite veneziane del 1999 con Giusy Devinu, Fernando Portari e Carlo Guelfi diretti da Gianluigi Gelmetti (si trattò della prima ripresa in epoca moderna della versione originale dell’opera) o di quelle ginevrine con Annick Massis, Octavio Arévalo e Stephan Salters diretti da Evelino Pidò.
Gabriele Cesaretti