Il dipinto nel 1644 si trovava a Roma nel Palazzo Farnese con l’attribuzione a Tiziano (n. 4379, Jestaz 1994, p. 175) e nel 1708 con la stessa attribuzione lo ritroviamo a Parma fra i beni del duca Francesco (Bertini 1987, p. 99). Con Carlo di Borbone passò a Napoli e poi a Caserta, fino a che nel 1943 non fu trasferito, per disposizione del Ministero dell’Educazione, nella R. Galleria di Parma.

In quell’occasione Quintavalle mutò l’antica attribuzione, non ritrovando nel dipinto i caratteri pittorici del Vecellio e suggerì il nome di Sebastiano del Piombo, per i riferimenti a un ambito romano, che la critica successiva – con qualche incertezza – riconfermò fino a che Zeri non lo ritenne di Bartolomeo Cancellieri, riferendosi a un documento datato 1555, in cui si fa cenno a un ritratto di Madama, che necessariamente non ha attinenze con questo, dato che Margherita d’Austria nel quadro in esame appare raffigurata in apparente attesa di un erede, a una età ben più giovane dei trentatré anni che doveva avere nel 1555. Il matrimonio con Ottavio Farnese era stato per lei una pesante imposizione paterna e per vari anni sperò di ottenerne l’annullamento, finché dovette accettarlo: nell’agosto del 1545 ebbe due gemelli, Alessandro e Carlo, suoi unici figli e solo Alessandro (Carlo morì nel 1549) seppe assicurare la discendenza dell’illustre casato.

L’abito rosso che indossa è di foggia ben diversa da quello consueto nelle tante versioni derivanti dal ritratto del Mor, ora a Dresda, eseguito durante il suo soggiorno nelle Fiandre, dove si trasferì nel 1556 per assumerne il governo; già nella medaglia coniata nel 1557 sfoggia un costume più austero, il cui modello richiama l’abito nel ritratto di anonimo artista di Madrid (Traversi 1993, p. 388, 407).

Giustamente Praz considerò questo ritratto una “scena di conversazione” nella tradizione umanistica, dato che non si avverte alcun interesse di verisomiglianza nella raffigurazione del volto di Margherita, mentre sono i suoi gesti e l’organizzazione spaziale che dialogano, con un linguaggio silenzioso, alla presenza muta del busto di Carlo V. L’imperatore impone la sua immagine in sembianze di statua all’antica e sebbene i suoi occhi siano vuoti, la piega delle labbra è mesta, a simboleggiare forse la tristezza per il lungo rifiuto della figlia naturale a voler accettare la sua volontà. Lei, rigida sul sedile, esibisce il gonfio ventre e con la positura delle mani sembra comunicare la sottomissione, il guanto alla sinistra è ormai sfilato e quello alla destra, la mano che simboleggia il potere, è per metà tolto. Anche la figura intagliata nel bracciolo della poltrona, forse Prometeo, soccombe sotto la testa del leone, simbolo di forza, e ha le mani legate dietro alla schiena, mentre ai suoi piedi trionfa la testa di Medusa.

Un ritratto con così tanti sottintesi doveva sicuramente essere stato eseguito per una committenza farnesiana, per celebrare il successo di Paolo III e della sua politica con l’imperatore. I caratteri pittorici e tecnici della tela sono piuttosto deboli e non si può sostenere l’antica attribuzione a Tiziano, anche se proprio nel 1545 il maestro veneto aveva accettato di servire i Farnese a Roma. È possibile che questa tela sia copia di un dipinto disperso.

Il disegno delle pieghe della rossa veste ha la stessa monumentalità delle figure ritagliate sul fondo e l’unico brano di vivacità inventiva rimane l’ornamentazione del sedile di carattere manierista, riconducibile a maestranze romane vicine a Sebastiano del Piombo.

Scheda di Mariangela Giusto tratta da Fornari Schianchi L. (a cura di), Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere Il Cinquecento, Franco Maria Ricci, Milano, 1998.