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28 ottobre 1922: Facta non riesce a opporsi alla marcia su Roma

Cinque del mattino del 28 ottobre 1922. Il presidente del Consiglio, il pinerolese Luigi Facta, propone al re Vittorio Emanuele III di firmare lo stato d’assedio. Nelle ore precedenti diverse Prefetture erano state occupate dai fascisti, mentre il grosso degli squadristi stava tentando di raggiungere Roma, dopo aver requisito dei treni oppure a piedi, ostacolati dagli arditi del popolo e dall’esercito.
La maggior parte degli storici concorda sul fatto che Facta, un gentiluomo che da trent’anni sedeva in parlamento, fedelissimo a Giovanni Giolitti, non avesse le qualità per opporsi al colpo di Stato mussoliniano. La richiesta dello stato d’assedio è tardiva (anche se già da un paio di giorni Facta aveva inviato ai prefetti telegrammi allarmati, disponendo, in caso di «moto rivoluzionario fascista», che si facesse «uso delle armi»).
Il problema è che la posizione di Luigi Facta è debole. Il suo nume tutelare Giolitti – che in quel momento non ha incarichi nel Governo ma lo controlla attraverso uomini di sua fiducia – è su posizioni attendiste. Sollecitato il 23 ottobre dal ministro delle Finanze, Giovanni Battista Bertone, su un possibile intervento della polizia per disperdere il raduno delle camicie nere programmato per il giorno successivo a Napoli, Giolitti risponde cauto: “Ma no, ma no. Vediamo cosa succede, poi se ne parla”.
Diversi storici, tuttavia, sottolineano come Facta abbia cercato, in un momento tanto delicato per le sorti del Paese, di giocare la sua partita. Per fronteggiare i fascisti avrebbe addirittura abbozzato un accordo con Gabriele D’Annunzio, il vate che godeva di grande seguito tra gli ex combattenti, per organizzare in proprio una marcia su Roma per il 4 novembre. Quando però gli eventi precipitano, Facta si dice disposto a farsi da parte per agevolare un Governo forte a guida Giolitti.
Ma ormai – nella notte tra il 27 e il 28 ottobre – i minuti sono contati. I ministri dell’esecutivo guidato da Facta approvano all’unanimità lo stato d’assedio e la decisione inizia a trapelare. Il provvedimento, però, deve essere controfirmato dal re. E Vittorio Emanuele III rifiuta di farlo.
Sono stati scritti fiumi di parole su questa decisione del monarca, che di fatto ha dato ai fascisti le chiavi dell’Italia. Fino a quel momento le camicie nere erano solo un gruppo eversivo di irregolari (cui si era tentato di dare un’organizzazione attraverso un regolamento stilato proprio in Val Pellice, a Villa Olanda, durante un incontro tra De Vecchi, De Bono e altri futuri gerarchi). Alle elezioni del 15 maggio 1921 i fascisti avevano fatto eleggere alla Camera 35 deputati: un numero risibile per imporre democraticamente la propria visione.
Vittorio Emanuele III, tuttavia, considera Mussolini uno strumento per ristabilire l’ordine nel Paese. E – di fatto – scarica Facta, consegnandolo alla storia con un ruolo tutt’altro che piacevole.
Il presidente del Consiglio non può che dimettersi. E il re, due giorni dopo, affida a Benito Mussolini l’incarico di formare il nuovo esecutivo. Il regime è ancora lontano (nella prima fase il Pnf dovrà governare insieme ad altre forze politiche), ma la strada è segnata.

Fonti: Giuseppe Sircana, voce su Luigi Facta, Dizionario biografico degli italiani, Treccani, 1994; Dizionario di storia, Treccani, 2010; Gian Franco Venè, La lunga notte del 28 ottobre, Palazzi, 1972; Aldo A. Mola, Mussolini a pieni voti? Da Facta al Duce, Capricorno, 2012;

Immagine: Fascisti in marcia sul ponte Salario, alle porte di Roma, il 28 ottobre 1922.

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