Romanov, la morte della famiglia resta un giallo dopo 105 anni - La Stampa

Centocinque anni fa, a Ekaterinburg, l’intera famiglia imperiale russa – lo Zar Nicola II, la Zarina Alessandra, i cinque figli (le granduchesse Ol’ga, Tat’jana, Marija, Anastasija e l’ultimogenito erede al trono Aleksej) - fu sterminata dopo la mezzanotte del 16 luglio 1918. Il massacro dei Romanov avvenne tra le due e le tre di notte del 17 luglio 1918. Con loro furono assassinati anche il medico, il dottor Botkin, tre persone di servizio, il cuoco Kharitonov, il valletto Trupp e la cameriera Demidova, due cani, il bulldog della granduchessa Tat’jana e il cagnolino Jemmy, mentre l’adorato King Charles spaniel di Aleksej, Joy, scappò durante la strage e finì i suoi giorni al castello di Windsor.

Nel 2000 lo Zar Nicola II e la sua famiglia sono stati canonizzati. I resti dello Zar e della Zarina e le loro tre figlie, Ol’ga, Tat’jana e Anastasija, ma senza Marija e il figlio Alessio, ricevettero un funerale di stato prima di essere sepolti nella Fortezza di Pietro e Paolo a San Pietroburgo il 17 luglio 1998, ottantesimo anniversario della strage.

La cerimonia del 1998 fu fortemente voluta da Boris Nemtsov, che era alla guida della commissione che si occupò della valutazione dei pareri degli esperti. Eltsin, che era diventato il primo presidente della Russia democratica, alla fine accettò di essere presente alle esequie, anche per ricucire con il passato. Ci fu la benedizione della Chiesa, ma non la partecipazione del patriarca.

Gli ultimi riconoscimenti sono stati fatti nel 2007, ma il mistero sui Romanov continua ancora oggi: i presunti resti parziali degli scheletri di Aleksej e Marija non hanno convinto la Chiesa.

I resti dello Zar Nicola II, inoltre, sono poi stati riesumati nel 2015 per prelevare campioni di DNA nell’ambito dell’indagine riaperta. Nel 2015, infatti, la Commissione d’inchiesta del ministero degli Interni ha riaperto il fascicolo per consentire alla Chiesa un’ultima verifica sull’identità della famiglia, verifica che è stata effettuata grazie al DNA di Nicola e Alessandra (temporaneamente riesumati), di Ella (sepolta a Gerusalemme), di Alessandro II (del quale è stata utilizzata la giacca macchiata di sangue custodita all’Ermitage) e di Alessandro III.

La conclusione alla quale è arrivato il Comitato investigativo nel 2018, «dopo esaustivi test genetici e molecolari» (Agenzia Interfax, Mosca, 16 luglio 2018), lascia poco adito a dubbi: i resti ritrovati nella foresta alle porte di Ekaterinburg sono quelli dello zar assassinato dai bolscevichi e della sua famiglia.

Il patriarca Kirill, succeduto al defunto Aleksij II, ha continuato, tuttavia, a muoversi con grandissima cautela, pure dopo queste dichiarazioni. Nella notte tra il 16 e il 17 luglio 2018, anniversario del massacro, ha guidato centomila fedeli in processione da Ekaterinburg alla foresta dove i corpi furono sepolti. Una marcia di molte ore iniziata alle dieci di sera per onorare le vittime. Sull’identificazione, però, niente. Una dichiarazione è stata rilasciata dal metropolita Tikhon il quale si è limitato a dire che «l’indagine in quanto tale non è ancora terminata e, in aggiunta ai test generici, numerosi altri studi ancora aspettano di essere completati». Per la Chiesa, il mistero non è ancora completamente risolto: «Senza dubbio, quando formuleremo una decisione, terremo conto delle ricerche degli esperti in tutti i campi» (Agenzia Tass, Mosca, 17 luglio 2018). L’indagine del Comitato investigativo ha identificato anche i due figli di Nicola, Marija e Aleksej, i cui corpi furono ritrovati in un secondo momento. Finora, tuttavia, i resti del principe ereditario e di sua sorella Marija non sono sepolti: sono conservati nell’archivio statale russo. Attendono ancora il loro destino.

Aleksej Romanov (non aveva ancora compiuto 14 anni). Unico superstite del massacro il suo cane Joy. Foto di Roberto Coaloa

 

Perché accadde la strage a Ekaterinburg? Perché nella misera cantina della casa-gabbia Ipat’ev? Dal castello di Windsor, dove giacciono negli archivi le corrispondenze tuttora inedite tra la famiglia imperiale russa e quella inglese, emergono alcune verità. Ai Romanov fu più fatale l’amicizia con la corona di San Giacomo che la Rivoluzione russa. I bolscevichi ebbero il ruolo di esecutori materiali dell’eccidio.

Nel 1917, infatti, Nicola II richiese l’aiuto di suo cugino Giorgio V, ma il re inglese, che in un primo momento era sembrato disponibile con i suoi uomini di fiducia a soccorrere il cugino, non fece poi nulla e l’intera famiglia imperiale russa fu sterminata nel giro di un anno, non solo a Ekaterinburg (a parte la strage della famiglia imperiale, seguirono gli assassini nella notte tra il 17 e il 18 luglio 1918, nella località di Alapaevsk, dove furono passati per le armi la granduchessa Elizaveta Fedorovna, sorella della zarina, il granduca Konstantin Konstantinovič, il granduca Igor' Konstantinovič, il granduca Ivan Konstantinovič, il granduca Sergej Michajlovič, suor Varvara Jakovleva e infine il principe Vladimir Pavlovič Palej; poi all’inizio del 1919, furono uccisi i granduchi Dmitrij Konstantinovič, Nikolaj Michajlovič e Georgij Michajlovič Romanov).

La colpa di questa enorme strage sembra essere stata del primo ministro britannico, David Lloyd George, assolutamente contrario a qualsiasi aiuto allo Zar. Solo l’Imperatore Carlo d’Asburgo si preoccupò quando seppe delle condizioni di Nicky e della sua famiglia. L’Imperatore cercò di liberarli dalla prigionia costituendo un commando di triestini. In Russia, Pavel Nikolaevič Miljukov, ministro degli esteri del governo provvisorio, aveva inutilmente supplicato il governo inglese di offrire un aiuto alla famiglia imperiale russa, un asilo politico: «C’est la dernière chance – scrisse Miljukov – de sauver la liberté et peut-être la vie de ces malheureux». Il governo britannico attese, Giorgio V, benché preoccupato per le sorti del povero Nicky, sottovalutò il problema, mentre uno scarno comunicato del Foreign Office domandava al governo provvisorio russo «de choisir une autre résidence pour Leur Majestés impériales».

Dopo il clamoroso rifiuto di Giorgio V di accogliere il cugino Romanov (tra l’altro alleato della Gran Bretagna contro il Reich del Kaiser Guglielmo II), Lenin e Trockij diedero «carta bianca» al Soviet degli Urali per sistemare la questione della famiglia imperiale, che, “imprigionata” dai bolscevichi in un primo tempo nella sfarzosa reggia di Carskoe Selo, fu trasferita a Tobolsk in Siberia e poi a Ekaterinburg, di là degli Urali, il 26 aprile 1918, e segregata nella casa Ipat’ev.

Il 16 luglio 1918, dopo mezzanotte, l’intera famiglia imperiale fu massacrata. Giorgio V, dopo questa atrocità, nel 1921 non esitò a salvare la vita all’ex “nemico”, l’imperatore d’Austria Carlo d’Asburgo, anche lui minacciato dai venti rivoluzionari, mentre cercava di recuperare il trono di Re d’Ungheria. Re Giorgio V aveva chiesto, subito dopo la fine della Prima guerra mondiale, a un uomo fidato, il Lieutenant-Colonel Edward Lisle Strutt (1874-1948), di occuparsi di una missione speciale: salvare la coppia imperiale austriaca, Carlo e Zita, per non replicare la brutta storia dei Romanov.

Qualcuno chiese all’Arciduca Otto, primogenito di Carlo e Zita, se odiasse gli inglesi. Rispose, sorridendo: «Well, I could - but then, there was Strutt».

L’Arciduca Rodolfo d’Austria, morto il 15 maggio 2010 a Bruxelles, era il sesto figlio di Carlo e Zita.

Negli incontri che feci con lui nel 2009 a Bruxelles, l’Arciduca mi citò spesso il libro dell’inglese Gordon Brook-Shepherd, The last Habsburg.

L’Arciduca mi spiegò: «Fu la famiglia reale inglese a chiedere a Otto (suo fratello maggiore, il primogenito della coppia imperiale) di accogliere lo studioso britannico in modo da ristabilire la verità su mio padre Carlo».

I commenti dei lettori