“Il genere è il meccanismo attraverso cui vengono prodotte e naturalizzate le nozioni di maschile e femminile, ma potrebbe anche rappresentare lo strumento tramite il quale decostruire e denaturalizzare tali termini”. La riflessione di Judith Butler, tra le figure più contestate e fraintese nel contesto filosofico odierno, pone al suo centro le tematiche nodali del genere, dell’identità, della sessualità e del linguaggio. È il 1990 quando tale riflessione confluisce in Gender Trouble, il testo ove la Butler discute per la prima volta in termini accademici le categorie di uomo e di donna. L’opera, divenuta un cult della teoria femminista e di genere, le guadagna un posto d’onore nello star system delle filosofie post-strutturaliste. La sua teoria queer e anti identitaria va precisandosi opera dopo opera, mentre lei stessa si definisce queer e femminista – ma avverte che nessuna qualificazione la identifica veramente. Piuttosto, afferma la Butler, il suo corpo si muove e attraversa liberamente diverse identità.

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Nata a Cleveland, nell’Ohio, da una famiglia ebraica russo-ungherese vittima dell’olocausto per parte materna, Judith Butler sviluppa fin da giovane una forte vocazione politica. Dopo il dottorato a Yale, perfeziona i propri studi di teoria critica in Germania grazie ad una borsa di ricerca. Il percorso intellettuale della Butler è il frutto di una curiosità intellettuale che spazia dalla teoria politica di Hannah Arendt a quella di Michel Foucault, dal positivismo giuridico di John Austin all’ermeneutica tedesca. L’eclettismo delle fonti e dei riferimenti di Butler sarebbe indice, secondo l’opinione dei suoi detrattori, di uno sguardo confuso e di un pensiero non chiaro, piuttosto che di una ricchezza intellettuale con pochi eguali.

Un episodio che lei stessa racconta nel documentario Judith Butler: Philosophical Encounters of the Third Kind (2019) ne chiarisce la vocazione alla comprensione e alla conoscenza senza limiti. Poiché saltava spesso le lezioni, quando aveva quattordici anni i genitori si accordarono con la scuola affinché prendesse insegnamenti privati da un rabbino. Quando quest’ultimo le chiese quali fossero i temi che intendeva approfondire, la Butler rispose “il motivo per cui Spinoza era stato scomunicato dalla sinagoga di Amsterdam, se la filosofia idealista tedesca avesse contribuito in qualche misura all’ascesa del fascismo e la teologia esistenziale”. Dunque, già nella Butler adolescente, vi erano in nuce una serie di interrogativi che la accompagneranno nel corso della sua ricerca.

In Judith Butler la teoria non è mai fine a sé stessa. Tra le maggiori esponenti della tutela dei diritti della comunità LGBTQ+, la sua valutazione filosofica è sostenuta da un essenziale impegno sociale. Solo attraverso gli strumenti dell’attivismo è infatti possibile contestare le norme e i paradigmi esistenti per riformularne di nuovi. Inoltre, solo in tal modo è possibile dare visibilità ai soggetti “invisibili”, ai colori delle minoranze di genere rappresentate nella bandiera dell’orgoglio LGBTQ+. In ogni suo scritto o azione la Butler ci pone di fronte alla necessità di rompere con la tradizione che fa dell’individuo autonomo e indipendente di ascendenza neoliberale il perno della riflessione politica: ogni soggettività necessita di essere riconosciuta nei diritti fondamentali.

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Manifestazione per i diritti civili alla Democratic National Convention, New York, 1976

Benché i testi della Butler non siano alla portata di tutti per la complessità dello stile e del vocabolario utilizzato, il suo discorso ha introdotto in modo radicale una nuova concezione del gender. Alla domanda “Come definire la propria identità?” la Butler risponde che è necessario trovare un “posto tutto per sé” al di là delle rigide classificazioni della biologia e della linguistica. Non esistono allora due soli generi, ma tante possibilità quante ciascuno di noi se ne dà. Come spiegato dalla scrittrice Sylviane Agacinski, per la Butler ogni cosa “diventa effetto della parola, compresi i corpi stessi, come se la parola potesse avvolgere la vita e, in una certa misura, anticiparla”. E così anche il genere non è un fatto anatomico, ma un prodotto della lingua.

Tra i diversi e spesso distanti ambiti di ricerca della Butler è infine possibile tracciare alcuni fili rossi che restituiscono la complessità del suo itinerario di ricerca. Uno di questi è la corporeità. Al corpo la Butler si riferisce in particolare quando in Gender Trouble parla di performatività del genere, l’idea cioè che il genere esiste solo nella misura in cui viene ripetuto attraverso atti e gesti rituali. Un classico della questione di genere dal 1990, la riflessione della Butler ha offerto e offre ancora oggi ai suoi lettori un modo di intendere il femminile e il maschile in modo critico, come categorie da contestare piuttosto che preservare.