Il potere del cane: recensione del film Netflix
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    Il potere del cane: recensione del film di Jane Campion

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    Dopo il successo di Bright Star del 2009, Jane Campion, prima regista a vincere la Palma d’oro per Lezioni di piano al Festival di Cannes del 1993, e una delle sole sette donne al mondo candidate agli Oscar come miglior regista, torna ai lungometraggi con Il potere del cane, presentato in concorso durante la 78a edizione della Mostra del Cinema di Venezia

    Tratto dal libro di Thomas Savage, Il potere del cane è interpretato da Benedict Cumberbatch (Phil Burbank), Kirsten Dunst (Rose Gordon), Jesse Plemons (George Burbank) e Kodi Smit-McPhee (Peter Gordon). 

    1925. I fratelli Burbank sono ricchi allevatori del Montana. Phil Burbank ha un fascino crudele, lo sguardo severo, gli occhi diafani. Durante una tappa al ristorante Red Mill lui e suo fratello incontrano la proprietaria vedova Rose con il figlio Peter. Mentre Phil si comporta in modo così crudele da spingere madre e figlio alle lacrime, il fratello George consola Rose e poi decide di sposarla. Quando il fratello porta la nuova moglie e il figlio di lei a vivere al ranch di famiglia, Phil li tormenta e continua a prendersi gioco di Rose nella penombra. Eppure a un certo punto Phil sembra voler prendere il ragazzo sotto la sua ala. 

    Il potere del cane: il film di Jane Campion con Benedict Cumberbatch

    Il potere del cane

    Il potere del cane è un’opera di perdita e di cambiamenti; cambiamenti evidenti e strutturali in quegli anni come le automobili che cominciano a sostituire i cavalli, come l’industria che ha sempre più margine all’interno della società, la meccanizzazione del lavoro, l’elettricità e non solo; esistono cambiamenti percepibili anche nel territorio, diviso tra due mondi, uno fatto di pianure deserte, agricoltura, un altro circondato dal filo spinato, dalle ferrovie, in cui coesistono nativi americani, pregiudizi, pionierismo e ingiustizia sociale. 

    Il potere del cane, che come ogni film che guarda o si proietta nel gusto e nell’immaginario western, affonda il suo sguardo sul confine, sul travalicamento di un limite, di un’estremità, di un luogo. Phil Burbank vive una contraddizione quotidiana in ogni contesto e ogni luogo, e abitare la casa significa subire gli spazi degli altri, le convenzioni sociali a cui non sa sottomettersi – come quella di doversi lavare per essere presentabile – abitare il ranch significa dover costruire un’immagine di sé che possa essere ben spesa e ben definita, un’immagine da uomo fiero, virile. Sembra non esistere un posto che possa accogliere la sua complessità, se esiste è un luogo abitato dai fantasmi. 

    Se c’è una cosa che il film esamina e scompone perfettamente è la costruzione sociale della mascolinità. E per tutto il film è impossibile non porsi determinate domande. Cos’è la mascolinità? Come si esprime? Perché spesso viene resa nella sua peggiore declinazione ovvero quella tossica? Esiste una mascolinità indulgente? Che conosce i propri limiti e sceglie di esprimersi attraverso di essi?

    Il potere del cane è un’opera di perdita e di cambiamenti

    Il potere del cane

    Il potere del cane è composto di versi feroci, violenti, di personaggi che non temono di praticare la propria brutalità, di innescare il proprio istinto animalesco e viscerale e di spenderlo nel mondo. Il personaggio sicuramente più complesso, più irrisolto, brillante e spaventoso allo stesso tempo è quello di Phil Burbank, un uomo che vive la contraddizione, vive il paradosso di essere da un lato meschino, ostile, un maschio alfa super omofobo, e dall’altro sensibile, creativo, tormentato, solo e omosessuale. La sua creatività si innesta attraverso la manualità artigiana dell’intaglio del cuoio, come anche il suo incredibile istinto musicale e la padronanza della sella. 

    Il potere del cane non guarda da vicino solo la contemporaneità, ma la modernità di tutto ciò che stava sopraggiungendo nell’America degli anni ’20, un momento di grandi rivoluzioni, di strade che si intrecciano, vite che vengono spese all’interno di limiti assoluti e prestabiliti, e misteri che sorgono tra i silenzi e le espressioni del reale. 

    Come nel capolavoro di John Ford, Sentieri selvaggi, in cui la soglia diventa un limite invalicabile, anche qui Phil Burbank, come Ethan Edwards, abita la soglia tra ciò che deve essere e ciò che non può più essere, e questo più che mai rende Il potere del cane una storia di fantasmi, una storia di un uomo crudele eppure fragile, che proietta la sua felicità nell’unica direzione in cui è esistita, nel passato, chiudendola nei ricordi dell’unica persona che è onnipresente eppure assente dalla scena: Bronco Henry. Un uomo che vive unicamente attraverso i sentimenti e i pensieri di Phil. 

    Jane Campion dirige una storia rude, ispida e disadorna come il cuoio

    Benedict Cumberbatch è perfetto nel rendere reale un personaggio così denso di sfumature, di ombre e di voragini, che colpisce per la sua personalità capovolgente, iraconda, ostile, dando un’impronta feroce a questo ruolo, un uomo degli anni ’20 del Novecento che si affaccia alla vita e alla modernità con gli strumenti che possiede, con le mani sporche di terra e di sangue, che ora si impegnano a castrare il bestiame, ora intrecciano il cuoio, ora suonano il banjo. Phil fin dall’inizio si palesa in tutta la sua carica virile da ranchero con una tensione erotica che verrà ampiamente indagata all’interno della narrazione.

    Il potere del cane è capace di condividere ed esternare il desiderio maschile, l’erotismo, all’interno di una cornice espressamente americana e ranchera, come accade in Brokeback Mountain (non a caso Campion ha incontrato la scrittrice Annie Proulx, autrice del racconto da cui è tratto I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee), che tratteggia la storia del rapporto sentimentale fra due cowboy. Jane Campion dirige una storia rude, ispida e disadorna come il cuoio, intrappolata, paradossale e sporca come il desiderio ostile e inenarrabile di Phil, una storia fragile e potente come il Montana. 

    Il potere del cane esordisce al cinema a novembre e sarà disponibile su Netflix dall’1 dicembre 2021. 

    Overall
    6.5/10

    Verdetto

    Jane Campion dirige una storia rude, ispida e disadorna come il cuoio, intrappolata, paradossale e sporca come il desiderio ostile e inenarrabile di Phil, una storia fragile e potente come il Montana.

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    Scoop: recensione del film Netflix con Gillian Anderson

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    Scoop

    L’intervista concessa dal duca di York Andrea alla BBC, incentrata sulla sua amicizia con il famigerato Jeffrey Epstein e sul suo possibile coinvolgimento in reati sessuali, è stata indubbiamente uno spartiacque per la famiglia reale britannica. Non tanto per le conseguenze sullo stesso Andrea (a cui la madre Elisabetta ha revocato il titolo di Altezza Reale e i gradi militari), ma perché ha evidenziato lo scollamento totale fra la percezione della corona e l’opinione pubblica, già messa a dura prova dai ripetuti scandali. Una vicenda brillantemente messa in scena in Scoop, film Netflix di Philip Martin con Gillian Anderson, Billie Piper, Keeley Hawes e Rufus Sewell.

    Un duello dalle sfumature western (come esplicitamente detto durante il film) fra due istituzioni britanniche, accomunate dagli stessi problemi nella comunicazione. Da una parte la BBC, legata a un giornalismo tradizionale e in difficoltà a mantenere il passo della concorrenza sui vari media; dall’altra la famiglia reale e nello specifico Andrea, intenzionato a riprendere il controllo della narrazione nel maldestro tentativo di ripulirsi l’immagine. Sulla base di Scoops: The BBC’s Most Shocking Interviews from Prince Andrew to Steven Seagal di Sam McAlister, viviamo così la genesi di questa storica intervista, fortemente cercata da lei stessa in qualità di produttrice (impersonata da Billie Piper) e sagacemente condotta da Emily Maitlis (Gillian Anderson, strepitosa come sempre).

    Con il passare dei minuti, assistiamo allo sgretolamento delle certezze di Andrea (un mimetico Rufus Sewell) e della sua segretaria personale Amanda Thirsk (Keeley Hawes), incapaci di cogliere l’inefficacia della loro strategia comunicativa su una vicenda a dir poco sinistra, che coinvolge diverse ragazze minorenni all’epoca dei fatti.

    Scoop: l’intervista al principe Andrea fra grande giornalismo e pessima comunicazione

    Billie Piper in un'immagine di Scoop, nuovo film originale Netflix sulla celebre intervista della BBC al Principe Andrea

    Anche se l’intervista è ricostruita con dovizia di particolari (le parole ovviamente, ma anche le luci, la scenografia, la postura dei corpi), il cuore di Scoop è rappresentato dal giornalismo. Un giornalismo messo sempre più in crisi dai social, che portano i lettori a diventare parte attiva dell’inchiesta e del dibattito (come sottolinea la stessa Sam McAlister), ma anche e soprattutto dall’aderenza a dinamiche dell’informazione ormai irrimediabilmente superate, responsabili di un progressivo allontanamento da ciò che oggi percepiamo come notizia o utile spunto di approfondimento. Una dinamica che si riflette sulle persone responsabili delle comunicazioni istituzionali, a loro volta legate a protocolli troppo rigidi e a una percezione distorta dei cittadini e del loro spirito critico.

    Anche se in prima linea ci sono Andrea ed Emily Maitlis, lo scontro alla base di Scoop è soprattutto fra chi osserva i duellanti da dietro le quinte, ovvero Sam McAlister e Amanda Thirsk. Due donne che non mancano di sottolineare la loro stima reciproca, ma che per la loro diversa sensibilità sulla gestione di questo straordinario evento mediatico finiscono per trovarsi ai lati opposti della storia. Nell’ombra c’è poi una terza figura, cioè la Regina Elisabetta, sempre presente nonostante non sia mai in scena. Una presenza che aleggia sia sulla BBC, che teme una sua ingerenza sull’intervista, sia su Andrea, che al contrario si muove con disinvoltura eccessiva e fatale per il suo percorso all’interno della famiglia reale.

    L’autogol della corona britannica

    Gillian Anderson in un'immagine di Scoop, nuovo film originale Netflix sulla celebre intervista della BBC al Principe Andrea

    Anche se ormai siamo abituati alle catastrofi comunicative, grazie soprattutto al notevole contributo alla causa delle istituzioni italiane, non si può che restare esterrefatti davanti a Scoop. Come è possibile che nessuno fra Andrea e il suo staff abbia compreso l’insostenibilità di una strategia basata sulla totale negazione di fatti ampiamente documentati da foto e testimonianze dirette? Perché durante le varie sessioni di prova per l”intervista (anch’esse mostrate nel film) non si è intervenuto sulla postura del duca di York, sul suo evidente imbarazzo e sulla sua mimica facciale, già da sola in grado di comunicare colpevolezza e disagio? Perché anche davanti all’evidenza nessuno dello staff della più celebre casa reale del pianeta è stato in grado di riconoscere un plateale boomerang a livello comunicativo?

    Domande che al di là degli inevitabili capri espiatori sono destinate a rimanere senza risposta, ma testimoniano la differenza di velocità fra un’informazione in rapidissima evoluzione e un apparato politico, diplomatico e istituzionale semplicemente incapace di reggere il passo. Philip Martin, non a caso già alla regia di alcuni episodi di The Crown, riesce a trasformare in pregevole racconto questa dinamica, avvalendosi della sceneggiatura calibrata alla perfezione di Samantha McAlister, Peter Moffat e Geoff Bussetil e di interpreti formidabili, capaci di rendere elementi narrativi e comunicativi i silenzi, le esitazioni, gli sguardi e i più piccoli movimenti del corpo. Il risultato è una sorta di incidente stradale al rallentatore della famiglia reale, ancora più sconcertante perché avvenuto nella più totale trasparenza giornalistica e senza rilevanti scorrettezze da parte della BBC.

    Scoop: l’essenza della notizia

    Scoop si inserisce nella scia di opere come Tutti gli uomini del presidente, Quinto potere, Frost/Nixon e Il caso Spotlight, ricordandoci il ruolo del giornalismo come da cane da guardia del potere e l’essenza della notizia, cioè tutto ciò che per qualcuno non deve essere raccontato. Lo fa con un racconto compatto e inappuntabile dal punto di vista tecnico, che per una volta non ha bisogno di atti coraggiosi o di artifici retorici, ma si limita a mostrare con lucidità e chiarezza la mediocrità di certi uomini di potere, talmente sicuri di se stessi da non accorgersi neanche dei loro atti più autodistruttivi.

    Scoop è disponibile dal 5 aprile su Netflix.

    Overall
    8/10

    Valutazione

    La storica intervista al principe Andrea rivive in un film Netflix dalla scrittura intelligente e dal formidabile comparto attoriale, in un inno al buon giornalismo e alla comunicazione efficace.

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    Ripley: recensione della serie Netflix con Andrew Scott

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    Ripley

    Fin dalla sua nascita letteraria dalla penna di Patricia Highsmith nel 1955, il personaggio di Tom Ripley ha tracimato nel cinema e nella televisione. Lo ha fatto già nel 1956, con un episodio della serie Westinghouse Studio One, poi nel 1960 in Delitto in pieno sole di René Clément (in cui il celebre assassino è interpretato da Alain Delon) e soprattutto ne Il talento di Mr. Ripley di Anthony Minghella, film del 1999 con Matt Damon nel ruolo di Ripley e Jude Law in quello di Dickie Greenleaf, capace di trarre il massimo beneficio dalle location italiane e dalle sfumature più torbide del racconto. Un successo tale da stimolare anche l’adattamento di altri libri della serie di Patricia Highsmith ne Il gioco di Ripley di Liliana Cavani e Il ritorno di Mr. Ripley di Roger Spottiswoode, non altrettanto validi.

    Arriviamo dunque al presente e nello specifico a Ripley, nuova miniserie Netflix in 8 episodi ideata da Steven Zaillian (sceneggiatore vincitore dell’Oscar per Schindler’s List – La lista di Schindler e autore degli script di altre opere come Gangs of New York, American Gangster e The Irishman) e con protagonista Andrew Scott nella parte dell’iconico assassino. Un progetto che arriva sulla scia di un rinnovato interesse per il crime (vero e fittizio) e del successo di Saltburn di Emerald Fennell, che in molti hanno associato alla parabola delittuosa di Ripley. Uno show dal notevole impatto visivo, girato in un elegante bianco e nero e in una riuscita commistione fra dialoghi in inglese e in italiano (apprezzabile da chi fruisce della serie in lingua originale), con il contributo di interpreti nostrani del calibro di Margherita Buy e Maurizio Lombardi.

    Ripley: l’assassino nato dalla penna di Patricia Highsmith rivive nella nuova serie Netflix

    Ripley
    Cr. Courtesy of Netflix © 2024

    Ci troviamo negli anni ’60, quando il truffaldino newyorkese Tom Ripley viene ingaggiato col compito di riportare a casa Dickie Greenleaf (Johnny Flynn), giovane rampollo che sta sfogando le sue velleità artistiche in una lussuosa villa sulla costiera amalfitana, in compagnia di Marge Sherwood (Dakota Fanning). Una volta giunto sul posto, Ripley scopre la bellezza di vivere nella comodità e nello sfarzo, per giunta a spese di altri. Nel tentativo di prolungare questo stato di grazia, l’uomo stringe un rapporto sempre più malsano e ossessivo con Dickie, che sfocia nel sangue. Ha così inizio una lunga serie di imbrogli, inganni e delitti, disseminati in diverse località italiane.

    Steven Zaillian aderisce al romanzo di Patricia Highsmith, limitandosi a poche variazioni e ad alcune scelte di cast in ottica maggiormente inclusiva, prendendosi tempo per sviscerare ogni passaggio del racconto originale e compiendo un notevole lavoro sulla forma, che non si limita all’esaltazione degli scenari italiani, ma abbraccia la musica nostrana e la scenografia degli interni, fondamentale per alcuni snodi narrativi. Il risultato è spiazzante, soprattutto se paragonato alla fluidità e alla compattezza dell’adattamento di Minghella. La macchiettistica Italia da cartolina del film del 1999 (evidente in scene come l’esecuzione di Tu vuò fà l’americano in compagnia di Fiorello) lascia spazio a una rappresentazione altrettanto artificiosa, che spazia fra il neorealismo e le atmosfere felliniane. Questo all’interno di una cornice narrativa ipertrofica, che dilata a dismisura scene e dialoghi alla ricerca della suspense hitchcockiana, con risultati non sempre all’altezza delle ambizioni.

    L’estetica di Ripley

    Cr. Courtesy of Netflix © 2024

    Allo stesso tempo, l’ampio minutaggio (siamo intorno alle 8 ore totali) consente a Steven Zaillian e Andrew Scott di scavare nella psiche contorta e inquietante di Tom Ripley, che con il passare dei minuti e con il progredire degli eventi sprofonda sempre più nell’abisso. Un ritratto umano ancora più disturbante in quanto in marcato contrasto con la bellezza che lo circonda, impreziosita dalla suadente voce di Mina e dalla bellezza e genuinità dell’Italia degli anni ’60, fermata nel tempo dalla fotografia in bianco e nero di Robert Elswit, fedele collaboratore di Paul Thomas Anderson e premiato con l’Oscar per il suo lavoro ne Il petroliere.

    Nonostante gli sforzi e il pregevole lavoro sull’oggettistica e sulle opere d’arte (evidente il parallelo fra Tom e il Caravaggio da lui amato), Ripley cade nello stesso problema comune a gran parte della serialità recente, ovvero la mancanza di sintesi e di coesione, resa possibile dallo spazio illimitato garantito dallo streaming. La diluizione della discesa agli inferi del protagonista non porta a un maggiore spessore ma anzi ne limita l’efficacia, appesantendo inutilmente il racconto. In questo senso è ancora una volta impietoso il paragone con Il talento di Mr. Ripley di Anthony Minghella, capace di racchiudere l’intero arco narrativo in 139 minuti e con l’aggiunta dell’apporto di Jude Law, molto più carismatico di Johnny Flynn nella parte di Dickie Greenleaf.

    L’importanza della sintesi

    Ripley
    Cr. Courtesy of Netflix © 2024

    «Non leggi un romanzo in due ore. Ci vogliono otto ore, dieci ore, dodici ore – e ho sentito che avrei cercato di creare il ritmo e la bellezza della narrazione di quel libro in questa forma», ha dichiarato Steven Zaillian a margine di una proiezione di Ripley a New York. Parole rispettabili e figlie di un maestro della scrittura, che entrano però in contrasto con l’arte del racconto audiovisivo, capace di condensare in immagini decine di pagine. Pur apprezzando la cura e la ricerca estetica di questo nuovo adattamento, decisamente superiore alla media della serialità moderna, resta la sensazione che un maggiore controllo in fase di scrittura avrebbe probabilmente giovato a un racconto comunque suggestivo e avvolgente, ma non sempre avvincente.

    Ripley è disponibile su Netflix dal 4 aprile.

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    The Beautiful Game: recensione del film con Bill Nighy e Valeria Golino

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    The Beautiful Game

    Il cinema ha più volte affrontato il potere salvifico dello sport e in particolare del calcio, capace di dare a chiunque una seconda possibilità e di trasformare nel giro di poco tempo un gruppo di sconosciuti in una famiglia, in cui ogni elemento è disposto a sacrificarsi per il bene della squadra. Fuga per la vittoria, Sognando Beckham, i progetti italiani di Matti per il calcio e il recentissimo Chi segna vince hanno saputo raccontare tutto questo, con storie e registri diversi, facendo del calcio un’appassionante metafora del riscatto e della rivincita. Una dinamica in cui si inserisce perfettamente The Beautiful Game, nuovo film originale Netflix liberamente ispirato al progetto Homeless World Cup, che da oltre 20 anni organizza un vero e proprio mondiale fra nazionali composte interamente da calciatori senzatetto.

    La cineasta britannica Thea Sharrock (Io prima di te, L’unico e insuperabile Ivan) dirige un’opera tutt’altro che perfetta ma comunque importante, che evidenzia come lo sport possa aiutare a superare barriere sociali, culturali ed economiche. Al centro della vicenda c’è la nazionale senzatetto inglese, impegnata nei preparativi per la nuova edizione della Homeless World Cup ospitata da Roma. Per rinforzare la squadra, il carismatico e abilissimo osservatore Mal (Bill Nighy) mette gli occhi su Vinny (Micheal Ward), talento cristallino e irrequieto. Pur riluttante, quest’ultimo accetta di prendere parte alla manifestazione e vola a Roma (che in realtà non ha mai ospitato l’evento) insieme al resto della squadra, composta da un’umanità variegata e tormentata. Seguiamo così la fase finale di un torneo tanto bizzarro quanto combattuto, condotto con sicurezza e comprensione da Gabriella (Valeria Golino), fra imprevisti e colpi di scena.

    The Beautiful Game: rivincita e riscatto nella Homeless World Cup

    The Beautiful Game

    La Homeless World Cup era già stata raccontata nel film sudcoreano Dream, anch’esso disponibile su Netflix, ma in questo caso la regista e lo sceneggiatore Frank Cottrell Boyce hanno la valida intuizione di allargare lo spettro del racconto a elementi delle altre nazionali della competizione, pur mettendo sempre al centro dei riflettori la squadra inglese. Scelta che permette a The Beautiful Game di toccare diverse tematiche (le molestie, i conflitti bellici) e di raccontare tante storie incastonate nella storia principale del torneo, come del resto avviene nella realtà durante i veri mondiali di calcio, ineguagliabili incroci di culture diverse e delle più disparate parabole esistenziali e sportive.

    Siamo nel campo del cinema sportivo più popolare possibile, in un progetto nato anche e soprattutto per porre l’attenzione su questa lodevole competizione sportiva, che nel corso degli anni ha aiutato centinaia di atleti o aspiranti tali a credere di nuovo in se stessi e a rilanciare le loro vite. Questo porta inevitabilmente ad alcune semplificazioni narrative, nonché a messaggi importanti e condivisibili affrontati in modo eccessivamente didascalico. Il dolore dei calciatori è solo sfiorato e assistiamo a un prevedibile trionfo dei buoni sentimenti, dell’inclusività e del fair play, nella cornice della solita Roma da cartolina, con tanto di gita alla Fontana di Trevi.

    L’importante non è vincere ma partecipare

    L’importante non è vincere ma partecipare, e The Beautiful Game coglie pienamente questo spirito, creando empatia nei confronti dei tanti piccoli traguardi da raggiungere per le varie nazionali e dando vita a una storia di sport tutt’altro che scontata nello svolgimento e nella conclusione, grazie anche alla possibilità del “prestito” di un giocatore eliminato per le squadra che avanzano nel torneo. Il livello amatoriale della competizione e il campo di dimensioni ridotte consentono inoltre a The Beautiful Game di essere abbastanza credibile dal punto di vista tecnico e agonistico, pur con qualche comprensibile forzatura e con l’inevitabile enfasi su alcuni virtuosismi dei protagonisti.

    A fare la differenza, fuori dal campo, è il solito strepitoso Bill Nighy, che come ha dimostrato in I Love Radio Rock è semplicemente perfetto nella parte dello strambo leader di un gruppo di strambi, capace di mantenere sempre eleganza e aplomb. Il suo Mal è in delicato equilibrio fra commedia e dramma, fra grinta e rimpianto, ma è purtroppo appesantito da una sottotrama vagamente sentimentale con il personaggio di Valeria Golino, che nulla aggiunge al potere edificante di questa storia di vita e sport.

    The Beautiful Game: il potere salvifico del calcio

    The Beautiful Game

    The Beautiful Game scivola comunque senza intoppi o particolari guizzi verso un epilogo non scontato, che ha il merito di trasformare un intero torneo di perdenti in un gruppo di persone vincenti e protagoniste, almeno per un giorno. Mentre sui titoli di coda scorrono immagini e risultati della vera Homeless World Cup, risuona così il qualunquista e ipocrita adagio «Ma sono solo 22 scemi che corrono dietro a un pallone», mai come in questo caso falso e irrispettoso nei confronti di chi, anche solo per una volta, ha cercato di dimenticare sfortuna e problemi attraverso il calcio.

    The Beautiful Game è disponibile dal 29 marzo su Netflix.

    Overall
    6.5/10

    Valutazione

    Thea Sharrock firma un film sportivo non esente da difetti e ingenuità, sorretto dal solito spumeggiante Bill Nighy e dallo spirito della vera Homeless World Cup, che nel corso degli anni ha dato sollievo e conforto a centinaia di atleti provenienti da tutto il mondo.

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