Nota introduttiva: Radio Spada considera tutto il vertice della gerarchia ecclesiastica degli ultimi decenni come gravemente compromesso con il neomodernismo. Ratzinger non è escluso da questo novero e ne rappresenta uno dei motori più nefasti. Ciò che è seguito al suo abbandono del soglio non allevia (anzi per certi aspetti peggiora) la valutazione che si può dare della sua carriera. Chiarito questo, volentieri riceviamo dall’Avv. Guido Ferro Canale (studioso di diritto canonico, saggista) e offriamo ai lettori, un contributo su alcuni aspetti largamente dibattuti in relazione al tema della rinuncia al Papato di Benedetto XVI. Buona lettura!


di Guido Ferro Canale

Debbo al lettore una piccola premessa, se non altro per spiegare perché nel testo compaiano riferimenti a colloqui pregressi e si parli di Ratzinger come di persona ancora in vita.

Nel corso di questi anni, mi sono sempre tenuto a distanza dalle discussioni pubbliche sulla validità della rinuncia di Benedetto XVI, dato che mi sembrava che, nel migliore dei casi, i dubbi (per alcuni versi “comprensibili”) dessero per certi fatti e intenzioni che andrebbero invece accertati; non ho tuttavia mancato né di formarmi una mia idea né di esternarla, all’occorrenza, quando il discorso capitava in privato. Infine, un amico, assai sensibile al fascino di varie suggestioni e specialmente a quella della cosiddetta “Sede impedita”, dopo che ne avevamo parlato a più riprese mi ha chiesto di dare alla discussione una veste più sistematica: egli mi avrebbe spedito un elenco di domande, io avrei risposto in calce a ciascuna, dopodiché si sarebbe potuto pensare ad una pubblicazione, purché gli assicurassi l’anonimato.

Così è stato fatto; il lavoro mi ha richiesto più tempo del previsto – in particolare per la necessità di verificare in modo puntuale tutti i pretesi errori di latino della Declaratio – e gli ho potuto mandare il file solo nel pieno delle feste natalizie. Prima che egli avesse modo di comunicarmi per iscritto eventuali dubbi o richieste di integrazioni, è sopraggiunta la morte di Benedetto XVI. A quel punto, appurato che egli poteva considerarsi soddisfatto, mi sono chiesto se avesse senso pubblicare egualmente l’elaborato; visto però che si va parlando nientemeno che di elezioni popolari del Papa, forse dopotutto è proprio il momento giusto. 


– Veniamo subito agli aspetti più “pratici”. Gli errori in latino della declaratio. Tu affermi che in realtà non sarebbero veri e propri errori, ma espressioni “dialettali” in latinorum. Ciò può essere valido per tutti gli errori presenti? È questa l’unica spiegazione?

Chiarisco per prima cosa che, a mio parere, la Declaratio è scritta in un tipo particolare di latino, quello dei cristiani, dei Padri della Chiesa, della Vulgata; il che comporta sia la presenza di vocaboli e costrutti ignoti al latino classico, sia una precisa impostazione stilistica. S. Agostino, infatti, nel libro IV del De doctrina Christiana, illustrando come scrittori e predicatori cristiani potessero sfruttare il patrimonio di tecniche comunicative codificato nella retorica classica, riprende da Cicerone la teoria dei tre stili e afferma che quello semplice, molto vicino alla parlata quotidiana, si raccomanda per la massima chiarezza e va usato nelle spiegazioni dottrinali imperniate sul ragionamento, quando si discute con poche persone; lo stile elevato è destinato alle grandi occasioni, quando l’uditore va indotto o richiamato a scelte radicali (abbracciare la vocazione religiosa, lottare contro l’idolatria…); ma lo strumento più versatile, che di fatto si raccomanda in tutti gli altri casi e specialmente per la predicazione ordinaria, è lo stile mediano o temperato, nient’affatto privo di elaborazione letteraria o retorica, ma piuttosto vicino alla lingua di tutti i giorni. Sulla scorta di alcuni studi di Erich Auerbach, che hanno riproposto il tema all’attenzione degli studiosi, il corrispondente registro linguistico è definito “sermo humilis”: non, dunque, il sermo vulgaris di tutti i giorni, ma neanche un linguaggio ricercato, poetico o inusuale. Tuttavia, in nome della comprensibilità lo stile semplice può ammettere anche gli errori, il temperato invece no. Quindi, premesso che il parametro della correttezza non può essere il latino classico o almeno non esso soltanto,[1] senza dubbio la presenza di errori sarebbe un difetto.

Cominciamo allora dall’inizio, cioè dai rilievi a caldo di Luciano Canfora, che sono stati ripresi qui: gli errori indicati sono tre, un “hora 29” al posto di “hora 20” che mi sembra un evidente errore di battitura da parte di chi ha inserito il testo sul sito del Vaticano, un “pro Ecclesiae vitae” anziché “pro Ecclesiae vita”, dove però il testo pronunziato dal Papa l’11 febbraio risulta corretto, e “ministerio… commissum” anziché “ministerio… commisso”. Quest’ultimo è un vero e proprio errore grammaticale e anche l’unico che compare sia nel documento scritto e pubblicato sia nelle registrazioni della lettura della Declaratio in Concistoro.

In seguito, ne sono stati rilevati molti altri, tanto che ho voluto esaminarli uno per uno in un articolo a parte. Rimandando ad esso per i dettagli, qui mi limito a dire che due scelte lessicali mi sono sembrate alquanto azzardate[2] e ho avuto difficoltà, infine risolte, con una terza,[3] ma nel complesso mi trovo a condividere in pieno la conclusione “a caldo” di Canfora: “Il testo originale del comunicato con cui Benedetto XVI ha annunciato le sue dimissioni è scritto, come è ovvio, in un latino costruito con prestiti ricavati da autori delle più diverse epoche. È una specie di mosaico che abbraccia quasi due millenni di latinità: dal ciceroniano «ingravescente aetate» al disinvolto «ultimis mensibus» che figura in scritti ottocenteschi (addirittura del calvinista Bachofen), fino al «portare pondus» che ricorre in Flavio Vegezio, Epitoma rei militaris”. Il che ne fa, come dice il titolo dell’intervento dell’insigne filologo, “Un esempio di latino moderno”.

Alcuni dei rilievi in parola, poi, non sono semplicemente linguistici ma di contenuto. Non parlerò già adesso della differenza tra munus e ministerium, ma penso p.es. all’idea che Consistorium sia il nome del luogo ove i Cardinali si riuniscono e non della riunione stessa.[4] In particolare, sembra che a molti sfuggano i tratti essenziali dell’istituto della rinuncia in diritto canonico: come atto giuridico, essa non nasce nel momento della deliberazione interiore, ma proprio e solo quando viene esternata, ed esternata in un modo ben preciso: deve essere diretta, per iscritto o a voce, all’autorità che ha il compito di designare un nuovo titolare dell’ufficio cui si sta rinunciando (cfr. can. 189 §1).[5]

In conclusione, quindi, c’è un solo errore grammaticale che compaia sia nel testo scritto sia nel parlato: la concordanza “ministerio… commissum”.[6]

Vorrei sgombrare immediatamente il campo dall’ipotesi più estrema, cioè che l’errore di grammatica invalidi l’atto di per sé, come già il 13 febbraio 2013 sosteneva un personaggio a me altrimenti sconosciuto, ma non sprovvisto di erudizione in materia ecclesiastica, che citava a sostegno precedenti di Gregorio VII e di Lucio III. Non ho avuto modo di controllare il primo, ma il secondo (X.1.3.11, Ad audientiam) riguarda chiaramente un caso di sospetta falsità del documento: un ecclesiastico si era presentato al suo Vescovo con quello che sembrava un documento di assoluzione proveniente dalla S. Sede, per qualche censura non specificata; al Vescovo l’atto sembra sospetto e lo inoltra a Roma, chiedendo se debba considerarlo valido. La risposta è “Non vogliamo che tu presti fede a questa lettera, dal momento che contiene un evidente difetto nella costruzione [grammaticale o sintattica, non è specificato]”. In altri termini: nel momento in cui qualcuno diceva di aver scritto a Roma e aver ottenuto una grazia, bisognava verificare che il documento esibito fosse autentico, ma a Roma il sistema di archivio non permetteva di essere sicuri che tutti i documenti autentici fossero rintracciabili e che, quindi, tutti quelli non registrati fossero falsi; siccome però la Cancelleria Apostolica sa scrivere in latino, ecco che qui il Papa istituisce una presunzione di falsità dell’atto che contenga errori linguistici, difetto visto come indice sicuro dell’imperizia di un falsario (anche perché a Roma avevano i formulari già pronti, per le pratiche di routine). Il problema, però, in questo caso non si può porre minimamente: chiunque sia l’estensore materiale del documento, non vi è dubbio alcuno che esso sia stato letto da Ratzinger l’11 febbraio 2013; con ciò egli ne è diventato l’autore almeno in senso giuridico. Quindi il riferimento è suggestivo, ma infondato.

Per altri, invece, quella concordanza è stata messa lì apposta come un gigantesco cartello indicatore di qualcosa che non torna: una specie di segnale perché le grida scandalizzate dei latinisti inducessero tutti a controllar meglio il testo latino, in specie il termine ministerium. La tesi sta o cade con quel che si ha da dire sulla distinzione tra “munus” e “ministerium”, ovviamente, quindi rimando a quel che dirò al riguardo.

Infine, c’è chi dice che tali e tanti difetti di forma paleserebbero un difetto di deliberazione, una fretta quantomeno sospetta, forse dovuta a pressioni esterne. Ho già anticipato in larga misura la mia risposta: la quasi totalità dei pretesi difetti si spiega con una scelta stilistica ben precisa.

Mi spiego meglio: se ne apprezzino o meno le scelte formali – e c’è chi apprezza il latino della Declaratio – non vi è però alcun dubbio che il testo manchi di quel tono solenne che, istintivamente, si sarebbe portati ad attendersi dalla prima rinuncia papale dopo quasi sei secoli. Non ho particolari difficoltà a sottoscrivere il giudizio di “abbastanza modesto e colloquiale”, espresso da stimati latinisti. Per me, tuttavia, non si tratta di un difetto, bensì di una scelta consapevole per il sermo humilis.

Collochiamo, intanto, la Declaratio nel contesto in cui ha voluto inserirla il dichiarante stesso, cioè un Concistoro per alcune canonizzazioni. L’apposito rituale rivisto, approvato da Benedetto XVI solo pochi mesi prima (e pubblicato in Notitiae 2012, pagg. 611-4), prevede che il Papa parli costantemente in latino e al plurale. Venendo subito dopo questi atti di canonizzazione, la Declaratio segnala già al suo esordio un abbassamento formale, perché egli parla al singolare; ma, obiettivamente e per quanto ci possa sembrare il contrario, il suo contenuto è meno importante. I Martiri di Otranto saranno venerati nei secoli a venire; la rinuncia di Benedetto, tra cento o duecento anni, sarà divenuta una curiosità storica come quelle che l’hanno preceduta. Essa comporta solo che un altro debba assumere l’ufficio di Papa, non ha conseguenze dirette destinate a durare fino alla fine del mondo, o anche solo tendenzialmente perpetue come una nuova Costituzione Apostolica. Ciò consiglia una forma più dimessa.

Nello stesso senso depongono le circostanze esterne: Gregorio XII si trovava in una situazione del tutto eccezionale e doveva tentare in ogni modo, anche con un gesto estremo, di ricomporre il Grande Scisma; Benedetto invece, a quanto dice la Declaratio, rinuncia per ragioni che riguardano unicamente la sua persona e, oltretutto, non hanno nulla di drammatico, risolvendosi in una semplice diminuzione delle forze legata all’avanzare dell’età (e la debilitas corporis, piaccia o meno, da Innocenzo III in poi è una delle cause canoniche di rinuncia all’ufficio episcopale, che i canonisti hanno sempre richiamato per analogia, quando si è trattato di individuare le giuste cause che rendono moralmente lecita – se non doverosa – la rinuncia del Papa). Si può credere o no che sia il motivo vero, i dubbi sono venuti a tutti, me compreso; tuttavia, l’uso del singolare invece del plurale maiestatico, la forma dimessa e la stessa esternazione a voce sono scelte coerenti con l’enunciazione del motivo stesso. Nonché con il presumibile, correlato intento di “sdrammatizzare” un gesto destinato ad essere percepito e presentato da molti come rivoluzionario o addirittura eversivo mentre, per il suo autore, nulla di drammatico dovrebbe avere, soprattutto perché in definitiva – lo rammenta la parte finale della Declaratio – il Sommo Pastore della Chiesa è Cristo. Nell’ottica di Benedetto, a torto o a ragione poco importa, la rinuncia non è rivoluzionaria, desacralizzante ecc., quindi nemmeno dovrebbe essere percepita come tale.[7]

Infine ma non da ultimo, la scelta del sermo humilis è coerente anche con due caratteristiche specifiche dell’atto: l’aspetto esortativo, evidente soprattutto nel finale e che lo avvicina ad una predica, e l’esternazione orale. Siamo davanti ad un testo preparato per essere recitato in pubblico e acquisire efficacia giuridica proprio nel momento in cui viene esternato a voce. La comprensibilità immediata, a beneficio degli astanti, si imponeva dunque anche sotto questo profilo (e in effetti ha consentito alla cronista dell’Ansa, Giovanna Chirri, un lancio di agenzia quasi istantaneo, alle 11:46).

Resta, però, l’errore di concordanza e resta l’interrogativo su come possa essere sfuggito. Posto che quanto ai contenuti il testo è stato sicuramente elaborato con cura e che anche la forma, a parte i difetti in discorso, è modesta ma non sciatta, è possibile escludere l’errore volontario?

A sostegno della volontarietà si adduce la testimonianza dello stesso Benedetto XVI in “Ultime conversazioni”: “Il testo della rinuncia l’ho scritto io. Non posso dire con precisione quando, ma al massimo due settimane prima. L’ho scritto in latino perché una cosa così importante si fa in latino. Inoltre il latino è una lingua che conosco così bene da poter scrivere in modo decoroso. Avrei potuto scriverlo anche in italiano, naturalmente, ma c’era il pericolo che facessi qualche errore. Non si è trattato di una ritirata sotto la pressione degli eventi o di una fuga per l’incapacità di farvi fronte. Nessuno ha cercato di ricattarmi. Non l’avrei nemmeno permesso. Se avessero provato a farlo non me ne sarei andato perché non bisogna lasciare quando si è sotto pressione. E non è nemmeno vero che ero deluso o cose simili. Anzi, grazie a Dio, ero nello stato d’animo pacifico di chi ha superato la difficoltà. Lo stato d’animo in cui si può passare tranquillamente il timone a chi viene dopo.”. A ciò si aggiunge quanto scrive Seewald nella sua biografia di Ratzinger: “Sotto il sigillo del segreto pontificio, venne informato anche un dipendente della Segreteria di Stato, che avrebbe dovuto verificare la correttezza della dichiarazione in termini di contenuto, forma e lingua (in effetti, ne modificò poi leggermente lo stile in alcuni punti).” . Insomma, se Benedetto dice di non aver fatto errori, ancora a distanza di tempo e dopo che questi sono stati segnalati, allora l’errore è volontario. E qui va ammesso, per onestà, che è difficile immaginare che un errore del genere, proprio perché rientra nella tipologia più comune, sfugga ad un controllo di media diligenza.

Va però ancora notato che, sempre secondo Seewald, l’attenzione non andava allo stile, ma al diritto: il testo “non doveva essere troppo lungo, né troppo complicato. Doveva però essere preciso e prestare attenzione ai dettagli, al fine di prevenire controversie in riferimento al diritto canonico.”. A mio avviso, perciò, quando Benedetto XVI fa riferimento alla propria capacità di evitare errori, allude proprio a questo, alla padronanza della terminologia teologica e canonica nella lingua ufficiale della Chiesa, quale non sarebbe sicuro di possedere anche in italiano; l’errore rilevante è quello che potrebbe creare problemi di carattere giuridico-interpretativo, non quello semplicemente linguistico. Non credo, quindi, che egli abbia voluto suggerire cripticamente che l’errore di concordanza sia stato volontario. Certo, è impossibile escluderlo a priori, solo Benedetto stesso si potrebbe esprimere in proposito (e ci sarebbe sempre il dubbio “può parlare liberamente?”).[8] Tuttavia, se si prendono in considerazione elementi ulteriori, si può quantomeno ipotizzare un’alternativa valida.

Innanzitutto, una serie di circostanze porta a concludere che, sebbene il pensiero della rinuncia occupasse Benedetto già da qualche tempo (secondo quel che egli stesso ci dice), il momento dell’annuncio sia stato deciso piuttosto in fretta: pensiamo semplicemente al fatto che, per finire di “sgombrare la scrivania” del Papa (e promulgare la mini-riforma del Conclave), si sia scelto di differire al 28 febbraio l’efficacia della rinuncia stessa, o che quello stesso 11 febbraio Benedetto abbia concesso facoltà speciali al Decano della Rota, quando le facoltà speciali decadono in automatico con la vacanza della Sede. In effetti, il lasso di tempo da lui stesso indicato, per la stesura dell’atto, come “al massimo due settimane prima” dell’annuncio (e quindi probabilmente meno) trova una corrispondenza precisa: la notizia del Concistoro compare per la prima volta nel Bollettino della Sala Stampa del 29 gennaio, all’interno del calendario delle celebrazioni presiedute dal Pontefice, mentre è ancora assente in quello di due giorni prima. Possiamo, quindi, affermare con una certa sicurezza che questo è il momento in cui Benedetto ha deciso non solo di rinunciare, ma anche che la forma più indicata non era un semplice documento scritto, bensì un documento da esternarsi a voce davanti ai Cardinali riuniti (cfr. can. 189 §1). Ecco che si mette in moto la stesura vera e propria.[9]

Se vogliamo pensare a qualcosa di più di una semplice distrazione, mi sembra possibile che l’errore sia nato proprio in sede di revisione (fase in cui par di capire che il dipendente della Segreteria di Stato si sia concentrato soprattutto su quegli aspetti di stile che avrebbero potuto creare difficoltà interpretative). Renuntio, infatti, nel senso di “rinunciare” può costruirsi sia con l’accusativo sia con il meno comune dativo; quindi si poteva dire tanto renuntiare ministerium… commissum quanto renuntiare ministerio… commisso. Per un tedesco, a mio avviso, dovrebbe venir più naturale l’accusativo,[10] ma lo scrupoloso revisore potrebbe aver suggerito di passare al dativo, a scanso di ogni ombra di equivoco, perché renuntio + dativo significa solo “rinunciare”, ma renuntio + accusativo anche, e più spesso, “annunciare”; avrà allora segnato la correzione da apportarsi a ministerium, dando per scontato che l’aggettivo seguisse a ruota. Il Papa però, pur accogliendo la proposta e scrivendo ministerio, essendo l’estensore della bozza iniziale aveva ancora in testa quella e, leggendo poi nel seguito “commissum renuntiare”, non percepiva l’errore (tanto più che a lui veniva naturale costruire renuntio con l’accusativo).

Beninteso, questa è solo un’ipotesi: magari si tratta di una svista che è sfuggita. Mi è sembrato però doveroso cercar di formulare una spiegazione tenendo conto di tutte le informazioni disponibili.[11]

– “La declaratio in realtà per essere valida avrebbe dovuto chiamarsi ‘renuntiatio’ per essere una vera e propria abdicazione?

No. Assolutamente no.

Intanto, declaratio è un termine generico, renuntiatio specifico, ma il genere include la specie, non la esclude affatto. E questo già basterebbe a risolvere il dubbio.

Ci sono effetti giuridici che dipendono da una manifestazione di volontà del soggetto, che dev’essere volta a produrli: l’atto giuridico che esterna questa volontà prende appunto il nome di “dichiarazione”. Ora, se parlassimo di un contratto, anche il profano capisce che, per formarlo, serve un accordo, quindi debbono “incrociarsi” due dichiarazioni di volontà identiche, diciamo proposta e accettazione; ma la rinuncia del Papa è un atto unilaterale, non deve essere accettata da nessuno; per produrne gli effetti basta, dunque, che egli esterni la volontà di rinunciare. In altre parole, se vogliamo, declaratio è il contenente ossia il testo come insieme di significanti, renuntiatio il contenuto ossia il significato. Questo, probabilmente, è il motivo per cui il documento si intitola così.

Non vale obiettare che la Declaratio manifesterebbe l’intento di rinunciare senza però portarlo ancora ad effetto: ciò è vero solo nel senso che l’effetto stesso è stato differito al 28 febbraio. Dopotutto, se io sono il presidente della società X, mi alzo al termine di una riunione e dico “Dichiaro di rinunciare alla carica di Presidente”, tutti capiscono che in quel momento io non sto dicendo “voglio rinunciare”, ma “rinunzio”, con effetto immediato. Le cose non cambiano se la mia frase è “Dichiaro di rinunciare e che la carica di Presidente resterà vacante dal giorno 28”. Sarebbe diverso se dicessi, che ne so, “Dichiaro di aver maturato l’intenzione di rinunciare”, o qualcosa del genere: qui sì, verrebbe il dubbio se io stia rinunziando hic et nunc. Credo che la differenza sia chiara.[12]

Più in generale, il diritto canonico – ma non solo – non richiede mai l’impiego di certi determinati vocaboli a pena di invalidità dell’atto. A meno che non parliamo di un Sacramento, ma non è davvero il nostro caso. Una dichiarazione, di qualunque tipo essa sia, va sempre interpretata secondo il senso delle parole usate e anche il giudizio di validità/invalidità si riferisce al contenuto, non alla forma espressiva. Ad esempio, Gregorio XII ha usato l’espressione “dimittere Papatum”, un altro verbo allora molto usato era cedere, ma tutti intendevano la stessa cosa e nessuno muoveva eccezioni sulla terminologia.[13]

– C’è chi dice che Ratzinger si riferisce alla sede di Roma (o qualcosa di simile non ricordo…) non vacabile. Inoltre usa il verbo vacet a sproposito. Cosa hai da dirmi su questo?

A quel che ho capito, solo la S. Sede potrebbe restare vacante in senso giuridico, perché essa sola è una persona giuridica, la sede episcopale di Roma no. Questo non è vero, perché lo sono tutte le Diocesi inclusa quella di Roma, ma comunque la vacanza non si riferisce alle persone giuridiche, bensì agli uffici ecclesiastici. Il rappresentante di una persona giuridica canonica è sempre titolare di un ufficio ecclesiastico, ma non viceversa: per es. il cerimoniere del Vescovo è titolare di un ufficio che però non costituisce persona giuridica; e così pure, soprattutto in passato, le singole dignità dei Capitoli di canonici. Vacare significa, semplicemente, essere privo di un titolare.

Si sostiene inoltre che, nella Declaratio, Ratzinger avrebbe usato il verbo “vacet” nel senso di “lasciare libera di fatto” cioè materialmente non occupata (per via della rinuncia al ministerium) la carica di Papa. Ma se io, titolare dell’ufficio, scelgo di non esercitarlo – e bada bene, secondo la tesi ora in discorso questa di Ratzinger è stata una scelta, non un’imposizione ma un piano tutto suo – commetto un delitto canonico; anzi, per il Gaetano, il Papa che rifiuta di sottostare al proprio dovere di Papa configura l’ipotesi orrenda del Papa scismatico. L’abbandono di fatto dell’ufficio, oltre a non lasciarlo “libero” in nessun senso, non esime certo il titolare dal dovere di esercitarlo, tantomeno poi crea una situazione giuridica di Sede impedita, che si avrebbe invece, ex can. 412 (che gli autori concordi applicano per analogia alla Sede Apostolica), in caso di impossibilità materiale di comunicare, anche per lettera.[14]

Per giunta, più di un autore ritiene intrinsecamente contraddittoria una “autodichiarazione di sede impedita”, giacché l’oggetto dovrebbe consistere proprio nell’impossibilità di comunicare.[15] Io credo che si possano ammettere pro futuro: p.es. Pio XII, anziché una rinuncia preventiva e condizionata, avrebbe potuto scrivere “Dal momento in cui i tedeschi dovessero invadere lo Stato della Città del Vaticano, la Sede Apostolica dovrà considerarsi impedita per prigionia e qualunque atto o detto a Noi attribuito, perfino se effettivamente sottoscritto o proferito da Noi con le massime proteste di piena libertà morale, dovrà considerarsi nullo e privo di ogni effetto, a meno che e finché non consti pubblicamente che la Nostra persona si trovi in Paese neutrale”. Negli Stati Uniti, dove il Venticinquesimo Emendamento regola anche i casi di incapacità temporanea del Presidente, questi comunica in anticipo se, ad es., dovrà sottoporsi ad un intervento che lo lascerà in anestesia totale dalle ore X alle ore Y e trasferisce i poteri per quel lasso di tempo. Un’ipotetica legge sulla Sede Apostolica impedita potrebbe regolarsi in modo analogo, anche se difficilmente gli affari di Chiesa sono così urgenti da non ammettere una dilazione di poche ore. Credo, però, che sia chiarissima la differenza tra queste ipotesi e l’idea che il Papa, ostacolato, abbia scelto di farsi da parte facendo sembrare la Sede vacante, ma siccome non lo è il trionfo dei suoi nemici sarebbe solo apparente. Senonché, un Papa ostacolato non è un Papa impedito: al contrario, è un Papa che esercita l’ufficio, pone atti di governo e proprio per questo incontra opposizioni. In effetti si dovrebbe precisare che il Papa impedito non ha la possibilità materiale di operare, mentre nel caso del Papa minacciato, che viene spesso mescolato con questo, si avrebbe al massimo un difetto di libertà morale nel suo operato, però gli atti posti per timore sono comunque validi (cfr. can. 125 §2), tranne la rinuncia ad un ufficio (can. 188).[16] Data questa premessa, sarebbe evidentemente assurdo che si potesse “impedire da solo”! In più, la regola del can. 335, secondo cui in caso di Sede impedita nulla dovrebbe essere mutato nel governo della Chiesa universale, opera solo se la Sede Apostolica è (vacante o) totalmente impedita; ma un Papa che riesce a comunicare con una certa regolarità – anche in “codice”, per ipotesi – non può dirsi “totalmente” impedito.

– Come si spiega la seguente affermazione ratzingeriana: ‘Non è così semplice, naturalmente. Nessun papa si è dimesso per mille anni e anche nel primo millennio ciò ha costituito un’eccezione: perciò una decisione simile la si deve ponderare a lungo. Per me, tuttavia, è apparsa talmente evidente che non c’è stato un doloroso conflitto interiore”? Dalla non verità di questa affermazione si può dedurre che quella di Ratzinger non sia stata una vera abdicazione?

Partiamo da una ricognizione dei dati storici; e qui mi rifaccio ad una delle fonti più aggiornate, l’“Enciclopedia dei Papi”, che ha il vantaggio di essere liberamente consultabile on-line. Il primo Papa rinunciatario sarebbe stato Ponziano; ma è bene usare il condizionale, perché l’epitaffio, ritrovato, lo qualifica semplicemente “Vescovo e martire”. La Prinzivalli, autrice della voce, ipotizza sia un atto di “realismo” cioè la previsione di una morte comunque imminente, sia un gesto di riconciliazione con il suo compagno di martirio, Ippolito, se veramente si trattava dell’antipapa omonimo. Nei secoli successivi, il caso di Marcellino è spurio, Silverio è stato deposto manu militari ma nessuna fonte gli attribuisce una rinuncia… e con questo si chiude il primo millennio.[17]

Secondo me c’è un errore di Seewald, o un lapsus di inversione, e anziché “nel primo millennio è stata un’eccezione” (il che comunque è corretto in termini fattuali) bisognerebbe leggere “nel secondo”. Si può ammettere, infatti, che Ratzinger non conosca il caso di Ponziano o non creda che egli abbia rinunciato, pensando perciò che non vi siano state rinunce nel primo millennio; ma per Celestino V il fatto è notissimo e indiscusso.

In ogni caso, non mi sembra affatto che si possa dedurre che non vi sia stata una vera rinuncia. Egli non sta dicendo e nemmeno implicando “Ho fatto come il mio predecessore Tizio” (magari proprio come Ponziano, che molto probabilmente si trovava in una situazione che oggi chiameremmo di Sede impedita); al contrario, dice che la sua situazione personale è diversa e gli ha reso subito chiaro il da farsi. Quest’affermazione può lasciare scettici, ma sarei molto più scettico se mi si dicesse che gli è apparsa subito evidente la necessità di attuare il piano machiavellico ipotizzato.

È vero che dal 1983 è stata introdotta nel codice di diritto canonico la distinzione tra munus e ministerium?

Risposta breve: no, perché 1) i due termini comparivano già nel Codice del 1917; 2) nessuno dei due Codici li definisce; 3) anche per questo, non esiste “la” distinzione tra “munus” e “ministerium”, quasi che entrambi avessero uno ed un solo significato. Al contrario, 4) “Ministerium, munus e officium sono vocaboli in non piccola parte sinonimi”, come scriveva nel 1989 il futuro Card. Erdö aprendo il suo studio sull’evoluzione del loro impiego dal vecchio al nuovo Codice.[18] Semmai, ministerium include sia l’ufficio sia il suo esercizio, ma ha un senso più ampio.[19]

Va da sé che la risposta lunga è un tantino più articolata.

Sia munus sia ministerium sono termini già ben noti al latino classico, che passano in quello ecclesiastico e per certi versi vi subiscono un’evoluzione che ne allarga il campo semantico, però mantengono la loro identità; officium, invece, che per Cicerone indicava il dovere morale[20] (il suo “De officiis” è un trattato di etica), ha acquisito il significato tecnico di “ufficio ecclesiastico”, che però è stato formalizzato in una definizione legislativa soltanto con il Codice del 1917.

La tesi dell’invalidità (intenzionale oppure per c.d. “errore sostanziale”), per avere senso, richiede che il campo semantico di ministerium sia o totalmente diverso, oppure un sottoinsieme di munus; di fatto ministerium sarebbe l’esercizio dell’ufficio. Inoltre, nel momento in cui insiste che il can. 332 prevede una rinuncia al munus, postula una rigidità nell’impiego dei termini che il diritto canonico non conosce[21] e che non gli sarebbe forse nemmeno possibile, perché in definitiva ha sempre a che fare con realtà soprannaturali, rispetto a cui nessuna terminologia sarà mai adeguata. A mio avviso, proprio la polisemia di officium, munus e ministerium costituisce un ottimo esempio della difficoltà di tracciare linee di demarcazione nette. A rischio di anticipare le conclusioni: in ambito ecclesiastico ogni potestà legittima è ministerium cioè servizio, perché deve sempre essere esercitata per giovare agli altri, non al suo titolare; ogni incombenza, anche transeunte, è un officium inteso come dovere morale; e perfino, o forse soprattutto l’incarico più ingrato va vissuto come un munus, cioè come un dono di Dio e un’occasione di grazia.

Il Codice non definisce né ministeriummunus, però definisce officium inteso come “ufficio ecclesiastico”, quindi mi sembra bene partire di lì.

Can. 145 – §1. L’ufficio ecclesiastico è qualunque incarico (munus), costituito stabilmente (stabiliter constitutum) per disposizione sia divina sia ecclesiastica, da esercitarsi per un fine spirituale.

§2. Gli obblighi e i diritti (Obligationes et iura) propri dei singoli uffici ecclesiastici sono definiti sia dallo stesso diritto con cui l’ufficio viene costituito, sia dal decreto dell’autorità competente con cui viene insieme costituito e conferito.”.

La prima cosa da notare, qui, è l’assenza di qualunque riferimento ad una potestà, di ordine, di giurisdizione o di altro genere: l’ufficio comporta diritti ed obblighi, ma non è detto che comporti un potere. Il vecchio Codice distingueva tra ufficio in senso stretto, che comportava una partecipazione alla potestà, e in senso lato; oggi quello in senso lato è ufficio a tutti gli effetti.

Il secondo aspetto di rilievo, che conferma quando ho già detto circa la pretesa autodichiarazione di Sede impedita, è che l’ufficio “deve essere esercitato”: pur presentandosi come un insieme di diritti e di obblighi, esso è appunto officium, dovere morale (e di conseguenza anche legale). L’esercizio dell’ufficio non è mai un comportamento facoltativo e anche la scelta di non esercitare qualche sua prerogativa in un caso concreto rientra nella responsabilità ad esso connessa e deve giustificarsi alla luce del fine spirituale che è la ragion d’essere dell’ufficio stesso.

Veniamo adesso al fatto che nella definizione si incontra il termine munus. Esso non viene mai definito dal CIC, quindi dobbiamo ricorrere alla gamma di significati offerta dal latino e, in primo luogo dal latino giuridico. Troviamo quindi, in diritto romano: «La parola “munus” può essere intesa in tre differenti accezioni: nella prima significa dono, da cui si dice che i munera sono dati o inviati; nella seconda onere, per cui quando uno è dispensato si parla di immunità; nella terza accezione significa ufficio (officium), da cui si dice munera militari e militi munifici: sono detti civili poiché prendono uffici civili».[22] Siccome è evidente che il primo significato non si addice affatto al nostro caso, mentre il secondo è smentito dal can. 145 §2 perché questo munus non comporta solo obligationes ma anche iura, qui non ci resta che il terzo. Ovviamente l’officium del giurista romano è un “compito”, un “incarico”, non l’officium ecclesiasticum, ma già contiene in sé l’idea di doverosità; la nostra definizione vi aggiunge le note distintive del fine spirituale e della stabilità.[23]

Un’opportuna conferma di questa lettura ci viene dal can. 230, che distingue espressamente il munus conferito in modo stabile da quello soltanto occasionale. Ma, sembra il caso di notare, chiama il primo “ministerium”.  

Can. 230 – §1. I laici che abbiano l’età e le doti determinate con decreto dalla Conferenza Episcopale, possono essere assunti stabilmente (stabiliter), mediante il rito liturgico stabilito, ai ministeri (ministeria) di lettori e di accoliti; tuttavia tale conferimento non attribuisce loro il diritto al sostentamento o alla rimunerazione da parte della Chiesa.

§2. I laici possono assolvere per incarico temporaneo la funzione (munus) di lettore nelle azioni liturgiche; così pure tutti i laici possono esercitare le funzioni (muneribus) di commentatore, cantore o altre ancora a norma del diritto.

§3. Ove lo suggerisca la necessità della Chiesa, in mancanza di ministri, anche i laici, pur senza essere lettori o accoliti, possono supplire alcuni dei loro uffici (quaedam eorundem officia), cioè esercitare il ministero della parola (ministerium verbi), presiedere alle preghiere liturgiche, amministrare il battesimo e distribuire la sacra Comunione, secondo le disposizioni del diritto.”.

Il ministerium del lettore e dell’accolito istituito è un ufficio ecclesiastico: lo dimostra la previsione espressa della stabilità, di cui al §1;[24] lo conferma l’uso di munus al §2; chi poi avesse ancora a dubitarne troverà ulteriori conferme nella legge istitutiva, il m.p. “Ministeria quaedam” di Paolo VI.[25]

Ma al §3 i ministri che mancano non sono questi: sarebbe altrimenti superflua la precisazione che i laici possono supplire pur senza essere né lettori né accoliti. Come chiarisce l’elenco delle mansioni per cui la supplenza è ammessa, si tratta di assenza di chierici (il cui nome proprio è appunto sacri ministri: cfr. cann. 207 e 1008), in specie diaconi. All’evidenza, qui officia non indica affatto l’ufficio ecclesiastico (forse si è evitato munus perché nessuno potesse pensare alla sostituibilità del chierico nei compiti che richiedono necessariamente l’Ordine). In particolare, il ministerium verbi non corrisponde ad un ufficio con titolari specifici, né tantomeno alla sua esecuzione – altrimenti non si direbbe che viene “esercitato” – bensì ad un dovere generale di tutta la Chiesa, annunciare il Vangelo, soprattutto nelle due forme della predicazione e della catechesi (cfr. cann. 756-80; l’azione missionaria in senso stretto è disciplinata a parte). Insomma, ce n’è abbastanza perché l’attenzione debba spostarsi sul terzo termine del trilemma, senza dubbio il più complesso: ministerium. E qui mi rifaccio al Thesaurus linguae Latinae, il più completo tra tutti i dizionari di latino, perché parte da un censimento di tutte le occorrenze di ogni singolo vocabolo nella letteratura o nelle iscrizioni, dall’età arcaica fino a S. Isidoro di Siviglia: per questo è in corso di pubblicazione dal 1894 e ancora ben lungi dall’essere completato, però ministerium figura nella parte già edita.

Come ho già anticipato, il significato fondamentale è senz’altro “servizio”; ma le accezioni possibili sono molteplici, perché già nel latino classico lo si applica ad ogni genere di attività, o quasi: ministerium è quel servizio che, pur non essendo propria degli schiavi in senso stretto (per cui si usava appunto servitium),[26] comporta comunque l’essere soggetti alla direzione altrui: c’è un minister perché c’è un magister.[27] Ma si tratta di coordinate molto ampie, adatte sia all’ambito profano – dove minister è, in particolare, colui che serve a tavola gli ospiti nei banchetti – sia a quello sacro, giacché ministerium può indicare gli atti di culto, i sacrifici, i riti in genere.[28] Non solo: a volte il ministerium è un “servizio” prestato dagli animali o perfino dalle cose,[29] p.es. ci si può lavare le mani “ad un flusso d’acqua”, amne ministro.[30] Meno di frequente, ma in maniera non sporadica, si parla di un ufficio pubblico come di un ministerium: può trattarsi di un compito ingrato come quello del boia,[31] di sovrintendere alle operazioni di censimento[32] o di fare l’esattore,[33] o anche di un’incombenza occasionale come il trasporto di tributi a Roma;[34] ma anche di uffici importanti come il governo della ricchissima Provincia d’Asia,[35] la legazione di un proconsole,[36] la prefettura dell’annona.[37]

Nel latino cristiano, il campo semantico si allarga e si arricchisce ancora: dall’accezione “alimentare” si passa facilmente a “Sacramenta ministrare” e all’espressione tecnica “ministro dei Sacramenti”; inoltre, ministri per antonomasia, o sacri ministri, sono i chierici e specialmente i sacerdoti. Nella Vulgata, ministerium indica l’attività materiale di Marta che serve gli ospiti (Lc 10,40), l’attività che Saulo e Barnaba sono inviati a compiere in favore dei fratelli che vivono in Giudea (At 11,29-30), la missione o l’incarico di testimoniare il Vangelo della grazia di Dio, che Paolo ha ricevuto direttamente da Cristo (At 20,24), l’insieme dell’attività evangelizzatrice dell’Apostolo presso i pagani (At 21,19; Rm 11,13), la Liturgia (Eb 8,6) etc. Analoga vastità di significati si riscontra nella Patristica, ovviamente, e se dovessi cercare una sintesi direi che un po’ tutte le attività proprie degli Ordini sacri vengono, di volta in volta, definite ministerium (anzi, il termine si applica anche a Cristo, agli angeli e ai diavoli). Nei primi secoli, quando le ordinazioni avvenivano sempre al servizio di una chiesa specifica e non c’erano chierici privi di incarico, è più difficile trovare esempi in cui esso designa sicuramente l’ufficio ecclesiastico come tale,[38] ma ve n’è almeno uno – una lettera di S. Gregorio Magno – in cui indica proprio il Papato.[39]

Ovviamente, la situazione cambia se passiamo a quella grande raccolta di fonti canoniche che è il Decretum di Graziano: pur senza pretesa di esaustività, troviamo il Maestro stesso che prescrive la rimozione di un Vescovo dal ministerium per disobbedienza alla Sede Apostolica;[40] la rubrica a D. XXIV c. 3 asserisce che al ministerium di una chiesa debbono essere promossi i chierici della stessa (Papa Gelasio, nella specie, autorizza l’ordinazione del diacono che già prestava servizio presso la tal parrocchia, perché subentri al sacerdote venuto a mancare);[41] D. XXV c. 1, §12, elenca i compiti che rientrano in modo specifico nel ministerium dell’arciprete;[42] D. XCII c. 7 parla di costringere un Vescovo ad adempiere gli obblighi del ministerium;[43] C. VII qu. 1 c. 14 dell’esigenza di sostituirne uno infermo di mente;[44] C. XI qu. III c. 10 proibisce a due Vescovi deposti di esercitare in alcun modo il ministerium episopale;[45] etc.

A questo punto, mi permetto un salto in avanti di mille anni circa: andiamo dritti al Vaticano II.[46] Ministerium, nei documenti conciliari, si trova usato in tutta la varietà e ricchezza di accezioni che conosce nel latino cristiano; ma se vogliamo indagare più da vicino i suoi rapporti con il potere e il suo esercizio, concentriamoci sulla sede principale di tali temi, su quel cap. III della “Lumen Gentium” cui Ratzinger ha collaborato direttamente e che costituisce un punto centrale della sua ecclesiologia (perché, ricordiamolo, egli è teologo ben più che giurista).

Ebbene, ivi proprio in esordio, al n. 18, leggiamo che “Cristo Signore, per pascere e sempre più accrescere il popolo di Dio, ha stabilito nella sua Chiesa vari ministeri (ministeria), che tendono al bene di tutto il corpo. I ministri infatti che sono rivestiti di sacra potestà (qui sacra potestate pollent), servono i loro fratelli, perché tutti coloro che appartengono al popolo di Dio, e perciò hanno una vera dignità cristiana, tendano liberamente e ordinatamente allo stesso fine e arrivino alla salvezza.”. Già di qui si vede che il ministro non è chi sta esercitando la sacra potestà, ma chi ne è titolare. Se poi si vuole una conferma dell’uso di munus e ministerium come sinonimi,[47] basta andare al n. 20: “Fra i vari ministeri (ministeria) che fin dai primi tempi si esercitano nella Chiesa, secondo la testimonianza della tradizione, tiene il primo posto l’ufficio (munus) di quelli che costituiti nell’episcopato, per successione che decorre ininterrotta fin dalle origini sono i sacramenti attraverso i quali si trasmette il seme apostolico”.[48]

Nel Magistero posteriore, si può aggiungere almeno CCC 1369, dove del Papa si dice che è “Investito del ministero di Pietro nella Chiesa” (“qui Petri ministerium in Ecclesia sustinet”).

Bada bene: io non sto affatto sostenendo che ministerium significhi sempre e comunque “ufficio”. Rilevo semplicemente – sulla scorta del Thesaurus linguae Latinae e del citato studio di Erdö – che in latino il termine ha tre significati principali e designa 1) il servizio inteso come azione di chi serve (actio ministrandi), di qualunque servizio si tratti; 2) un compito specifico affidato da altri (quod agendum imperatur); 3) una carica o ufficio che dir si voglia. Nell’ambito ecclesiastico, la prima accezione si fa ancor più ampia e si può ben dire che includa le altre due; in ogni caso si attaglia a qualunque azione compiuta in nome della Chiesa, sia o meno espressione di un ufficio. Così, in diritto canonico,  i tre significati principali sono condivisi tra altrettanti vocaboli: ministerium si usa soprattutto per la actio ministrandi, munus per un compito specifico e officium per l’ufficio ecclesiastico; ma tutto ciò sempre in maniera non esclusiva (lo abbiamo già visto esaminando il can. 230).[49] Beninteso, come sempre quando si tratta di accezioni e sfumature, spesso non si può escludere categoricamente che ricorra l’una oppure l’altra, il testo può convenire a più di una e, talvolta, potrebbero anche essere state intese congiuntamente; tuttavia, l’interscambiabilità almeno relativa fra i tre vocaboli è sicura. Lo dimostra benissimo il testo originario del can. 1331, che vieta allo scomunicato l’esercizio dell’officium, del ministerium o del munus, usando la disgiunzione inclusiva vel, non l’esclusiva aut.

Esiste senza dubbio una parte di verità nella tesi secondo cui ministerium sarebbe l’esercizio attivo di un ufficio ecclesiastico: il termine tende sempre a sottolineare l’aspetto dinamico di un compito, di una carica o di tutta un’attività; e non potrebbe essere altrimenti, perché il “servizio” evoca di per sé l’idea che il quid cui si riferisce esista in funzione e a vantaggio di qualcun altro, e che occorra appunto fare qualcosa affinché tale fine sia conseguito. Sicuramente, qualche volta ministerium è proprio l’esercizio concreto di un ufficio, ad es. al can. 1740, ove si stabilisce che, se il ministerium di un parroco, anche senza sua grave colpa, diventa inefficace o nocivo il Vescovo lo può rimuovere; ma ad es. abbiamo già visto che ministerium verbi non è l’esercizio dell’ufficio di predicatore, semmai un compito specifico (munus) comune a più uffici (officium) e che può anche prescindere dalla titolarità di qualunque incarico (cfr. can. 766). Del resto, a norma del can. 1008, sacri ministri sono i chierici in quanto tali, non i chierici in quanto titolari di uffici ecclesiastici o idonei a ricoprirli; analogamente, ministerium sacrum, che nel Codice ricorre quindici volte, designa tutta l’attività propria di chi ha ricevuto gli Ordini sacri, anche a prescindere dalla titolarità di un ufficio, e lo si vede bene al can. 232, che, enunciando il diritto della Chiesa di formare “coloro che sono destinati ai ministeri sacri”, intende semplicemente i futuri chierici, né più né meno, così come al can. 1036 tutti coloro che intendono ricevere un Ordine sacro debbono chiederlo promettendo per iscritto di dedicarsi “per sempre al ministero ecclesiastico”. Altre volte, ad es. nel testo originario del can. 1375, ministerium indica sia gli aspetti di potestà di Ordine sia l’ufficio che non comporta giurisdizione, perché la legge incrimina la condotta che impedisce in modo illegittimo il libero esercizio di questo e di quelli. Ma al can. 674, dove si vieta di chiamare i membri degli Istituti di vita contemplativa a collaborare nei vari ministeri pastorali, si sta chiaramente formulando un divieto di conferire uffici (e forse anche incarichi occasionali); al can. 545, il “ministero pastorale” in cui il vicario parrocchiale è chiamato a cooperare altro non è che l’insieme dei compiti del parroco, come dire il suo ufficio; e cos’è il certum ministerium che può essergli affidato in più parrocchie, se non un ufficio di vicario che il decreto di nomina determinerà in modo “trasversale” tra esse (cioè come una compartecipazione a più uffici parrocchiali)? E ai cann. 1446 sgg., sotto il titolo “L’ufficio del giudice e dei ministri nel Tribunale”, cosa sono questi “ministri”, se non gli altri soggetti, come i notai, che ricoprono un ufficio nell’ambito dell’organizzazione giudiziaria?[50]

Appurata, quindi, la polisemia dei vocaboli in gioco, cade la tesi che l’impiego del termine ministerium impedisca in sé alla rinuncia di esser tale.

– È vero che Benedetto ha rinunciato solo al ministerium?

Abbiamo visto che ministerium può avere significati diversi; si tratta ora, quindi, di capire quale sia quello giusto nel contesto della Declaratio.

Faccio una precisazione: Benedetto XVI ha senz’altro usato il termine ministerium in un senso che corrisponde bene all’esercizio attivo dell’ufficio papale almeno in due circostanze, quando ha approvato, proprio il giorno dopo l’elezione, il nuovo assetto dei riti inaugurali del Pontificato, che si chiama infatti Ordo Rituum pro Ministerii Petrini Initio Romae Episcopi, e in uno degli ultimi atti ufficiali, l’approvazione delle modifiche a questo stesso Ordo. Si può intravedere una distinzione del genere anche al Cap. VII della “Universi Dominici Gregis”, la legge che disciplina la Sede vacante, dato che parla di “inizio del ministero” del nuovo Papa e, oltre alla previsione di riti inaugurali, in sostanza si limita a dire che, quantomeno se è già Vescovo, egli detiene e può esercitare la potestà suprema fin dal momento in cui accetta l’elezione (n. 89).[51] Non sto dicendo, quindi, che l’interpretazione proposta sia sbagliata a priori; sostengo, però, che non trova conferma nel testo della Declaratio, ma piuttosto una netta smentita.

Per secondare l’ipotesi “sedeimpeditista” si dovrebbe tradurre: “Dichiaro di rinunciare all’esercizio attivo dell’ufficio affidatomi…, in modo tale che la Sede di Roma, la Sede di S. Pietro, resti libera di fatto a partire dalle ore venti del 28 febbraio e [parimenti dichiaro] che, in futuro, dovrà essere convocato il Conclave, per l’elezione del nuovo Papa da parte di coloro cui compete.”.[52] Per l’ipotesi dell’errore sostanziale è sufficiente, però anche necessario, tradurre ministerium con “esercizio attivo”.

Ma, una volta ammesso che ministerium significhi anche “ufficio”, non mi pare che restino particolari dubbi interpretativi: Benedetto, dopotutto, secondo le sue stesse parole sta rinunciando – proprio e solo – ad un ministerium ben preciso, quello affidatogli “per le mani dei Cardinali” il 19 aprile 2005. Senonché, ciò che i Cardinali fanno è eleggere il nuovo titolare di un ufficio. Anzi, per la precisione, dei due uffici di Papa e di Vescovo di Roma, sottoposti ad unione personale e quindi conferiti ad una stessa persona con un solo e medesimo atto. Ciò che essi passano di mano, per così dire, senza tuttavia esserne titolari è la potestà pontificia: come dice la “Universi Dominici Gregis”, “Se, invero, è dottrina di fede che la potestà del Sommo Pontefice deriva direttamente da Cristo, di Cui egli è Vicario in terra, è pure fuori dubbio che tale supremo potere nella Chiesa gli viene attribuito ‘con l’elezione legittima, da lui accettata, insieme con la consacrazione episcopale’”. All’eletto non viene affidato un “esercizio attivo”, ma un ufficio che, come e più di ogni ufficio ecclesiastico, è ministerium, giacché il Papa, “segno e minister dell’unità della Chiesa” (CCC 1369), è il Servo dei Servi di Dio.[53]

Con questa premessa, mi sembra fuor di dubbio che “Dichiaro di rinunciare al ministerium di Vescovo di Roma e Successore di S. Pietro affidatomi per le mani dei Cardinali” equivale a “Dichiaro di rinunciare ai due uffici di Vescovo di Roma e Papa”.[54] Ma comunque, credo proprio a scanso di equivoci derivanti dalla latitudine semantica di ministerium, il testo prosegue specificando: “… rinunciare in modo tale che la Sede di Roma, la Sede di S. Pietro” (sempre i due uffici in unione personale) “sia vacante”. Qui la portata limitativa, a mio avviso, non si riferisce solo al differimento temporale dell’efficacia della rinuncia, ma ha il pregio di delimitarne esattamente l’oggetto: ciò da un lato evita possibili confusioni con gli altri sensi di ministerium, p. es. quelli legati alla potestà di Ordine, e dall’altro chiarisce un punto che per Benedetto XVI doveva essere molto importante, cioè che egli non sta certo imitando il Diavolo nel dire “Non serviam”, non si sta sottraendo al dovere di servire la Chiesa, anzi – come dice nella conclusione – vuole farlo anche in futuro;[55] sta rinunciando ad un ufficio, che è soltanto uno dei modi in cui un sacro ministro può assolvere al dovere di servizio che in lui è ontologico, in forza del carattere sacramentale, e sta a monte delle determinazioni giuridiche. Insomma, è proprio il contesto stesso della Declaratio a precisare in che senso vada e non vada inteso ministerium.

La traduzione di vacet come “lasciare libera di fatto” consegue alla ritenuta impossibilità di intendere ministerium nel senso di “ufficio”; ma, caduta la preclusione aprioristica, l’uso di questo verbo, che ha un significato giuridico preciso, ben può concorrere a dirimere eventuali incertezze residue sul vocabolo incriminato. Anche perché, qui, soccorrono due canoni interpretativi canonici (che non si trovano nel Codice, ma fanno parte dei principi generali elaborati dalla dottrina): nel dubbio, un atto deve sempre interpretarsi in modo tale che a) sia provvisto di effetti giuridici anziché nullo, b) sia lecito anziché illecito. Ma siccome rinunciare di fatto ad esercitare l’ufficio sarebbe illecito e pretendere con ciò di creare uno stato di Sede impedita equivarrebbe a porre un atto nullo,[56] allora – anche ammesso che sussista un dubbio – la Declaratio va interpretata in quello che comunque è il senso più naturale ed immediato: la rinuncia all’ufficio.[57]

Solo un appunto sull’argomento secondo cui Benedetto non avrebbe mai detto che il vero Papa è Francesco (né confermato la rinuncia, se tale voleva essere)[58] e quando ha parlato di lui come “Papa Francesco” si è riferito all’uso di fatto del titolo, che è portato anche dal patriarca copto. Si possono seriamente paragonare un non cattolico che porta il titolo di “papa” e qualcuno che resta nel possesso indisturbato della Sede di Pietro? Non credo davvero. I Papi, soprattutto negli ultimi decenni, hanno usato a titolo di cortesia i titoli che gli esponenti di comunità ecclesiali acattoliche portano nelle loro realtà di appartenenza – p.es. “Vescovo” per gli anglicani, che non hanno ordini validi – senza che ciò implicasse un riconoscimento di legittimità… ma nessuno di questi personaggi pretendeva di avere il diritto, né aveva di fatto il possesso, sulla Sede di Roma. Chi invece si comporta come se non avesse più né diritto né possesso è proprio Benedetto XVI.[59] Sarebbe il primissimo esempio nella storia di un antipapa che non viene contrastato in alcun modo dal Papa legittimo, il quale anzi vede “come mio unico e ultimo compito sostenere il suo Pontificato nella preghiera”.[60] E francamente mi sembra un po’ troppo. 

– Che senso può avere la strategia di Benedetto XVI? Non sarebbe stato più sensato “scomunicare a destra e a manca” e magari morire martire? Non è un atto di viltà lasciare il gregge ad un antipapa?

Non è sempre chiaro se si pensi che il Card. Romeo avesse lanciato un avvertimento o fatto trapelare la minaccia di un attentato, o a pressioni volte ad ottener la rinuncia.[61]

Supposto che Ratzinger, comunque, fosse ben consapevole dell’opposizione e che abbia rinunciato perché si sentiva incapace di sconfiggerla, questo sarebbe un atto forse censurabile ma non invalido. Può anche darsi che non sapesse chi colpire di preciso, oltretutto. Ma diciamocelo, Joseph Ratzinger non è mai stato un tipo da scontri e battaglie: quante scomuniche ci sono state, nel suo quarto di secolo alla Congregazione per la Dottrina della Fede? Il Card. Prefetto che, a Fontgombault nel 2001, affermava che la quasi totalità dei liturgisti è giunta a concludere che si deve dare ragione a Lutero e torto al Concilio di Trento diceva il vero… ma quanti processi per eresia ha avviato?

In ogni caso, sempre in ipotesi, Ratzinger auspicherebbe una separazione della Chiesa dei credenti da quella dei non credenti. Ma per credere che questo piano, ipotetico, sia in qualche modo attuabile, occorre quantomeno che a) egli manifesti in modo inequivocabile la verità almeno nel testamento spirituale o in uno scritto analogo da pubblicarsi post mortem, oppure b) esista la possibilità di darsi un Papa legittimo senza, anzi, contro l’azione dei Cardinali. Chi segue questa linea, infatti, mostra di credere nella fanfaluca dell’elezione popolare del Papa; a mio avviso commette almeno tre errori. 1) Le creazioni cardinalizie di Bergoglio dovrebbero essere valide comunque, perché l’errore comune supplisce la potestà amministrativa, ai sensi del can. 144; quindi, anche colui che non è vero Papa ma viene comunemente creduto tale pone validi atti amministrativi, tra cui le nomine, incluse quelle al Cardinalato;[62] 2) l’antica procedura non affidava l’elezione al popolo, ma ai Vescovi della provincia romana e al clero, con il popolo chiamato a prestare il proprio consenso; oggi i Vescovi fanno parte del Collegio cardinalizio e il clero romano si sa già a chi obbedisca; ergo…; 3) comunque, finché esiste un Collegio dei Cardinali vigono e urgono le leggi che ad esso soltanto riservano l’elezione del Papa, quindi, a voler tutto concedere, il ritorno all’antica disciplina si potrebbe invocare solo al compimento degli ottant’anni da parte dell’ultimo elettore creato da Benedetto XVI.

Suppongo che l’esito logico di codesto movimento sia l’elezione dell’ennesimo antipapa, che come tutti gli altri ignorerà la disciplina giuridica dei casi di Papa dubbio. Mi sa tanto di film già visto.

[1]    Ovviamente, se in una lingua viva il criterio supremo è l’uso, coloro che vogliono usare una lingua morta debbono sostituirlo con un canone convenzionale, che per forza di cose consisterà in un canone letterario. La tradizione umanistica raccomandava (e tuttora raccomanda), in prosa, di non discostarsi dall’uso di Cesare e Cicerone; considerazioni classicistiche si sono fatte sentire più di una volta anche in seno alla Chiesa, provocando ad es. la revisione degli inni del Breviario da parte di Urbano VIII o la nuova traduzione del Salterio da parte di Bea; ma nel complesso il latino cristiano ha mantenuto la specificità di un canone letterario-stilistico proprio, che fa riferimento ai Padri della Chiesa, alla Vulgata, all’uso liturgico, cioè a quella latinità che in concreto, fino a pochi decenni fa, nutriva le anime; per il linguaggio tecnico, possono ben aggiungersi i trattati di settore o, in campo giuridico, atti notarili e documenti di prassi. Nel mio esame della Declaratio, mi sono ritenuto soddisfatto quando per un costrutto, un’accezione o un termine non classici ho trovato attestazioni nella Vulgata, in autori di prima grandezza e anche di provata qualità letteraria come Ambrogio, Gerolamo e Agostino, o anche in S. Tommaso d’Aquino (il solo dei grandi Scolastici per cui disponessi delle concordanze). Questo criterio mi ha consentito di risolvere quasi tutte le difficoltà, tranne quelle di cui farò espressa menzione infra nel testo. Il che mi sembra la prova migliore del fatto che il latino della Declaratio è proprio il latino dei cristiani, d’altronde il più naturale sia per un Sacerdote che per anni ha letto i testi liturgici e biblici nel latino pre-riforma, sia per un teologo esperto di autori patristici.

[2]    “Ultimis mensibus” per dire “negli ultimi mesi” – in latino classico ultimus è il più lontano nel tempo, non il più vicino; ho bensì trovato traccia di un’evoluzione semantica nel senso dell’italiano odierno, ma quasi solo in documenti medioevali e moderni di non grande importanza (forse per mia incapacità) – e “confidimus” nel significato di “affidiamo”, che si è sviluppato in uno specifico contesto del diritto comune, in pieno Medioevo, e non mi è dato ritrovare, almeno a prima vista, in autori di rilievo.

[3]    L’uso di exsequi come passivo (“hoc munus… exsequi debere”: nella trad. uff., “questo ministero… deve essere eseguito”) quando in realtà il verbo exsequor è deponente, ossia di forma passiva ma significato attivo. Cercando meglio, però, ho trovato traccia anche di un suo uso come passivo, raro, ma attestato specialmente in testi giuridici e/o rispetto all’esecuzione di incarichi e comandi. Credo che questo consenta di ritenerlo legittimo.

[4]    Il vocabolo deriva da consistere = “stare in piedi” e designava effettivamente un luogo di riunione nel latino di età imperiale, ma in diritto canonico il Concistoro è la riunione stessa (cfr. can. 353, che infatti distingue il Concistoro ordinario da quello straordinario secondo i partecipanti).

[5]    Altro caso di errore significativo: quando si critica l’uso di decisionem anziché consilium, si può aver ragione rispetto al latino classico, però si dimentica che la rinuncia è un atto giuridico e che, in diritto canonico, consilium indica un atto istruttorio, precisamente il parere che si dà al Superiore in vista di un suo provvedimento (cfr. can. 127), mentre decisio è un atto di volontà, la scelta della più giusta tra diverse alternative (cfr. cann. 48 e 51).

[6]    Gli errori di concordanza si verificano soprattutto quando il sostantivo dista parecchio dall’aggettivo, come nel nostro caso, e in sé sono un’evenienza comune; ma un atto ufficiale non dovrebbe contenerne mai.

[7]    Va notato che il possessivo, in latino, si usa molto meno che in italiano ed ha, perciò, un valore enfatico forte. Merita quindi di essere segnalata l’insistenza con cui Benedetto usa meus: “Conscientia mea”, oltretutto seguita da “iterum atque iterum” che appartiene al registro poetico; “vires meas”; “incapacitatem meam”; “ministerii mei”; “defectibus meis”. Il tutto, a mio avviso, in coerenza con l’ipotesi che abbia voluto accentuare il carattere prettamente personale della decisione assunta e delle ragioni sottese.

[8]    Si è tentato anche un richiamo all’Udienza generale del 20 febbraio 2008, dove Benedetto, illustrando la figura di S. Agostino e i suoi scritti, parla del suo Psalmus contra partem Donati, confutazione poetica del donatismo: “Contro questo scisma il grande Vescovo ha lottato per tutta la sua vita, cercando di convincere i donatisti che solo nell’unità anche l’africanità può essere vera. E per farsi capire dai semplici, che non potevano comprendere il grande latino del retore, ha detto: devo scrivere anche con errori grammaticali, in un latino molto semplificato. E lo ha fatto soprattutto in questo Psalmus, una specie di poesia semplice contro i donatisti, per aiutare tutta la gente a capire che solo nell’unità della Chiesa si realizza per tutti realmente la nostra relazione con Dio e cresce la pace nel mondo.”. Io non credo che si possano accostare una scelta stilistica volta a farsi capire e l’ipotizzata elaborazione di un codice, che sarebbe quasi l’opposto; tanto più che, in ipotesi, l’errore non sarebbe giustificato dalla necessità di farsi capire, ma semmai dall’impossibilità di parlare liberamente.

[9]    Trovo verosimile che egli avesse, in realtà, già redatto una “traccia”, frutto magari delle sue meditazioni personali, e chiarito, anzitutto a sé stesso, quel che avrebbe voluto dire in un testo del genere; ma questo poteva solo fornire la base per un lavoro il cui termine ultimo è il 10 febbraio, data apposta al documento e in cui, quindi, esso dovrebbe essere stato firmato.

[10]  Perché verzichten, l’equivalente che incontriamo nella versione tedesca della Declaratio (e del CIC), si costruisce con auf e l’accusativo (qui, auf das Amt)

[11]  Un ultimo rilievo: di per sé non è molto importante se il testo latino sia di mano del Papa o no, dato che egli lo ha fatto proprio e reso ufficiale nel momento in cui lo ha letto; c’è tuttavia chi dice che la sua conoscenza della lingua di Roma non gli avrebbe permesso di commettere simili errori. All’uopo, è opportuno un controllo con altri testi. Ovviamente è difficile trovare esempi del latino di Ratzinger che siano certamente di mano sua, a parte gli interventi al tempo del Concilio, che tuttavia risalgono davvero a troppo tempo fa e, oltretutto, sono scritti in un linguaggio prettamente tecnico; è però nota una sentenza di Segnatura che – per specifico obbligo di legge – dovrebbe aver scritto in prima persona, la coram Ratzinger del 1984. Quantunque vi si osservi una cura maggiore, specialmente nel collocare il verbo in fondo alla frase, lo stile è sostanzialmente lo stesso della Declaratio, con passi che sembrano una traduzione letterale e quasi stridente dall’italiano; e sebbene la sentenza sia stata senz’altro scritta con tutta calma, a mio avviso non si può dire impeccabile, se non altro perché il munisque nella prima pagina dovrebbe essere muniisque. Questo rende, se non altro, un po’ meno inverosimile che l’errore di concordanza sia potuto semplicemente sfuggire.

[12]  Per alcuni, l’efficacia della rinuncia non potrebbe essere differita, perché “per la Chiesa, è Dio stesso che concede o ritira il titolo papale. A Dio non si può certo dare un ‘incarico a scadenza’, come se fosse un maggiordomo.”. Veramente, Dio non ha nessun compito speciale o “incarico” da portare a termine, non dobbiamo immaginarci una colomba invisibile che unga l’eletto con l’olio della Santa Ampolla; molto semplicemente, il Papa entra in carica nel momento in cui accetta l’elezione legittima e, con ciò, acquista subito la titolarità del potere, che è supremo perché non derivato da alcun’autorità terrena (nemmeno quella degli elettori), ma annesso all’ufficio papale da Cristo stesso, una volta per tutte, quando lo ha istituito. Il Papato, quindi, si acquista in modo puramente umano, sol che concorrano due volontà, quella degli elettori e quella dell’eletto. I primi, dopo l’accettazione, diventano sudditi del secondo e non possono più cambiare idea; ma egli lo può sempre e non gli serve il consenso di nessuno. Se poi decide che non vuol essere più Papa dalle ore 20 del 28 febbraio, può conseguire l’effetto tanto dicendo “Rinuncio” nel momento in cui risuona il primo tocco dell’ora, quanto annunciando prima “Non sarò più Papa dalle 20 del 28 febbraio”: né la natura della rinuncia né quella del Papato vi ostano in alcun modo (è vero che prima di quel momento potrebbe cambiare idea, ma questo non significa che serva una “ratifica” o conferma del fatto che non l’ha cambiata, semmai il contrario!). Per giunta, è notizia recente che ben tre Papi – Paolo VI, Giovanni Paolo II e adesso Bergoglio – hanno preparato dichiarazioni preventive di rinuncia la cui efficacia è ben altrimenti differita, perché dipende da eventi futuri del tutto incerti che dovrebbero essere appurati da altri soggetti.

[13]  Non è comunque corretto parlare di “abdicazione” in questo ambito: l’unico termine tecnico che il diritto canonico impiega è “rinuncia”. Certo, abdico in latino significa “considero non più mio”, quindi non è linguisticamente sbagliato parlare di abdicatio muneris come ha fatto la redazione di AAS, ma in diritto canonico non si usa – soprattutto perché l’ufficio non è più visto come qualcosa su cui si vanti un diritto corrispondente alla proprietà – e l’omologo “abdicazione” sollecita accostamenti impropri con le monarchie secolari.

[14]  Dirò di più, il can. 188 n. 8 del vecchio Codice prevedeva l’abbandono della residenza obbligatoria (in parrocchia, in Diocesi…) come un caso di rinuncia tacita all’ufficio, ritenendo il comportamento equivalente ad una dichiarazione espressa. Oggi la rinuncia tacita non è più prevista, ma credo che la differenza rispetto alla Sede impedita sia chiara.

[15]  Bisogna allora supporre che, quando si parla della Declaratio come dichiarazione di Sede impedita, non si intenda l’ufficializzazione di uno stato di fatto preesistente (sarebbe appunto una contraddizione in termini), ma un atto di volontà che crea l’impedimento mediante “auto-esilio”. Solo che l’ipotesi, giuridicamente, non ha senso: la Sede impedita non è affatto un’altra possibilità canonica, oltre alla rinuncia, a disposizione del titolare, almeno non se stiamo parlando di un abbandono volontario.

[16]  Va tuttavia precisato che, in ipotesi, nessuno ha costretto Benedetto XVI ad agire proprio in questo modo, semmai esso è il modo in cui egli si è tratto d’impaccio e, nello stesso tempo, avrebbe incastrato i propri nemici; quindi per lui, a rigore, non ha senso parlare di invalidità dell’atto per timore.

[17]  In relazione a ipotizzati riferimenti a Benedetto VIII – che però non ha rinunciato né si è trovato in Sede impedita, al massimo si è allontanato per un certo tempo da Roma per sottrarsi ad una minaccia militare – escluderei una confusione con Benedetto IX, cacciato da Roma da una rivolta della città, perché le vicende sono troppo diverse: non è affatto certo che in quell’occasione egli avesse rinunciato, comunque in sua vece fu eletto Silvestro III (considerato antipapa), poi egli recuperò il possesso di Roma manu militari, mentre Silvestro tonava a fare il Vescovo di Sabina, e poi vendette il Pontificato al proprio successore, Gregorio VI; il concilio di Sutri del 1046 rimise ordine nella questione ottenendo da Gregorio il riconoscimento dell’invalidità della propria elezione e dichiarò la Sede vacante, ma Benedetto riprese il possesso del pontificato – e continuò a datare i propri atti dall’elezione originaria – alla morte di Clemente II, salvo poi esserne scacciato in via definitiva e, infine, scomunicato da S. Leone IX nel 1049. Pare che sia morto continuando a considerarsi Papa, però senza dare vita ad una linea antipapale.

[18]  Cfr. P. Erdö, Ministerium, munus et officium in Codice Iuris Canonici, in Periodica 78 (1989), pagg. 411-36, qui 411: “Ministerium, munus et officium sunt vocabula non parva ex parte synonyma”.

[19]  “Le azioni svolte nel nome della Chiesa, cioè le attività pubbliche della medesima possono chiamarsi ministeri. Tra questi ministeri alcuni appartengono alla missione speciale dei ministri sacri e si chiamano opportunamente sacri ministeri. Altri sono i ministeri semplici. Qualora l’esercizio di qualche ministero si effettui nel quadro di un istituto giuridico che comporta l’affidamento di un complesso di diritti e doveri riguardanti tale attività pubblica a una
persona, si può parlare di una
carica, ossia di un ‘munus’ pubblico in senso speciale. Sia i sacri ministeri che quelli semplici possono essere esercitati occasionalmente o nel quadro di una carica. /Quelle cariche pubbliche stabilmente costituite che rispondono ai criteri elencati nel canone 145, si chiamano uffici ecclesiastici. Tra questi alcuni si qualificano ‘uffici sacri’, altri invece uffici semplici che non comportano l’esercizio del sacro ministero .”. P. Erdö, “Sacra ministeria” e uffici ecclesiastici per eccellenza, in Pontificium Consilium de Legum Textibus Interpretandis (cur.), Ius in vita et in missione Ecclesiae, Città del Vaticano 1994, pagg. 862-3, cit. in G. Boni,  Due papi a Roma?, articolo 2 novembre 2015 sulla rivista telematica Stato, Chiese e pluralismo confessionale, §9.

[20]  Cfr. Cicerone, De inventione 1,6 “id, quod facere debet, officium esse dicimus”.

[21]  In realtà è perlomeno dubbio che la violazione di una legge puramente umana del Codice comporti la nullità dell’atto papale e, comunque, nessun giudice la potrebbe dichiarare; ma soprattutto, eccettuati i Sacramenti, nessun atto canonico è mai invalido perché si è usata una parola invece di un’altra; la questione è di significati, non di significanti.

[22]  «“Munus“ tribus modis dicitur: uno donum, et inde munera dici dari mittive; altero onus, quod cum remittatur, vacationem militiae munerisque praestat inde immunitatem appellari; tertio officium, unde munera militaria et quosdam milites munificos vocari: igitur municipes dici, quod munera civilia capiant» (D.50.16.18). Va peraltro precisato che il munus è il dono fatto cum causa, cioè in relazione ad una circostanza che lo rende in qualche modo socialmente doveroso, cfr. Ulpiano, D.50.16.194: “Inter ‘donum’ et ‘munus’ hoc interest, quod inter genus et speciem: nam genus esse donum Labeo a donando dictum, munus speciem: nam munus esse donum cum causa, ut puta natalicium, nuptalicium.”.

[23]  Qualche precisazione aggiuntiva. Nel senso di cui al can. 145, un munus è “stabile” se si prevede che in esso il titolare avrà successori, che avranno gli stessi diritti e gli stessi obblighi. Esistono uffici transitori per loro natura, come l’Amministratore diocesano o parrocchiale sede vacante; ma questo non è dirimente, sia perché la successione può darsi anche a distanza di tempo od ogniqualvolta si presenti la necessità, sia soprattutto perché il tratto caratterizzante comune a tutti gli uffici sta nella loro “oggettivazione”: i diritti e doveri che essi comportano non sono affatto diritti personali del titolare, che sarebbe allora libero di esercitarli o meno, né doveri relativi ad un rapporto bilaterale, quasi un contratto, con chi l’ha nominato; tutte le attribuzioni dell’ufficio sono, appunto, officium, dovere morale anzitutto verso Dio, quindi verso tutta la Chiesa e, più direttamente, verso l’autorità da cui si dipende e coloro in cui particolare favore si è tenuti ad operare.

[24]  Certo, qui si parla della stabilità del conferimento, c.d. “stabilità collativa”, diversa da quella dell’istituzione, che è richiesta dal can. 145. Ma i compiti di lettore e accolito sono definiti nel dettaglio dalle leggi liturgiche e l’istituzione avviene a tempo indeterminato, mediante un rito che appartiene al genere delle “benedizioni costitutive”, quindi sotto quest’aspetto non si possono dare dubbi.

[25]  Cfr. già all’inizio: “Il conferimento di tali uffici (munera) spesso avveniva mediante un particolare rito, col quale il fedele, ottenuta la benedizione di Dio, era costituito in una speciale classe o grado per adempiere una determinata funzione ecclesiastica (officium ecclesiasticum).”.

[26]  Va tenuta presente la distinzione riferita in Seneca, De beneficiis III 18,1, confutata però dal filosofo stesso, che ritiene che anche lo schiavo possa rendere un beneficium, purché eserciti una virtù: “Sunt enim qui ita distinguunt, quaedam beneficia esse, quaedam officia, quaedam ministeria; beneficium esse, quod alienus det: alienus est, qui potuit sine reprehensione cessare; officium esse filii, uxoris, et earum personarum, quas necessitudo suscitat, et ferre opem iubet; ministerium esse servi, quem conditio sua eo loco posuit, ut nihil eorum qui praestat, imputet superiori.”. Esempi di ministerium prestato da uomini liberi in Ovidio, Metamorfosi II 750; Livio, Historiae ab Urbe condita XXXIV 61; Valerio Massimo, Factorum et Dictorum Memorabilium IV 7,7; etc. Va inoltre notato che ministerium può indicare anche l’amministrazione del proprio patrimonio e, in senso eufemistico, la prostituzione, due attività molto diverse ma non tipiche degli schiavi. Il Thesaurus linguae Latinae riporta, come esempio di ministerium prestato da uomini liberi, anche Virgilio, Eneide VI 223, ma il trasporto del feretro presenta i tratti del dovere morale e quindi mi sembra un caso a parte.

[27]  Cfr. ancora S. Isidoro di Siviglia, Etymologiae X 170: “Magister, maior in statione, nam steron Graece statio dicitur. Minister, minor in statione, sive quia officium debitum manibus exequitur.”. V. anche Frontino, De aquis I 2 (parlando dei subordinati): “quorum etsi necessariae partes sunt ad ministerium, tamen ut manus quaedam et instrumentum agentis.

[28]  Cfr. Livio, Historiae ab Urbe condita I 7,12: “sacrum Herculi adhibitis ad ministerium”;  Valerio Massimo, Factorum et Dictorum Memorabilium VIII 15,3, “haec ministeria Matri deum… praestarentur”; Apuleio, Metamorfosi XI 21,1 “sedulum colendi frequentabam ministerium”.

[29]  O l’utilità di una disciplina: cfr. Seneca, Ad Lucilium XI 88, “Aliquid nobis praestat geometria ministerium”.

[30]  Cfr. S. Paolino di Nola, Epistulae XXXII 15: “Sancta nitens famulis interluit atria lymphis Cantharus, intrantumque manus lavat amne ministro”.

[31]  “Detestabile carnificis ministerium occupaverat rex, verborum licentiam, quae vino poterat imputari, nefanda caede ultus.”. Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni, VIII 2. Cfr. anche Livio, Historiae ab Urbe condita II 5: “poenae capiendae ministerium patri de liberis consulatus imposuit” (dove però tradurrei “obbligo, dovere”).

[32]  “Mentio inlata apud senatum est rem operosam ac minime consularem suo proprio magistratu egere, cui scribarum ministerium custodiaeque tabularum cura, cui arbitrium formulae censendi subiceretur.”. Livio, Historiae ab Urbe condita IV 8 (ma la censura, sebbene istituita come una carica di poco conto, divenne una delle più importanti).

[33]  Carisio, D.50.4.18.23: “decaproti et icosaproti tributa exigentes et corporale ministerium gerunt et pro omnibus defunctorum fiscalia detrimenta resarciunt”.

[34]  Cfr. Valerio Massimo, Factorum et Dictorum Memorabilium IV 3,2: “cum pecuniae deportandae ministerium sustineret”; stessa incombenza in IV 1,14.

[35]  Cfr. Velleio Patercolo, Historiae Romanae II 93: “Post cuius obitum Agrippa, qui sub specie ministeriorum principalium profectus in Asiam, ut fama loquitur…”; stessa provincia in Valerio Massimo, Factorum et Dictorum Memorabilium V 5,1; una provincia in genere in VI 3,3 “sine ullo provinciali ministerio”. Invece, in Tacito, Annales III 18, “impiger militiae et acribus ministeriis”, il termine designa le cariche pubbliche anteriori al consolato, ma almeno per estensione anche il successivo proconsolato.

[36]  Cfr. Valerio Massimo, Factorum et Dictorum Memorabilium III 7,5.

[37]  Cfr. Seneca, De brevitate vitae 18,4.

[38]  Come pure resta vivo, nel Medioevo, il suo uso per indicare la carica civile. Anzi, nel Lexicon latinitatis Medii Aevi di Albert Blaise (specifico per l’area francese, ma unico dizionario moderno on-line) il primo significato è proprio “charge, office, fonction (à la cour)”. Del resto, se i Ministeri statali si chiamano così ci sarà pure un motivo…

[39]  S. Gregorio Magno, Registrum Epistolarum I 35: “Si professionem ordinis nostri et locum, cuius ministerium gerimus, attendamus…”. Ma si può aggiungere anche Sacramentarium Gregorianum 2,5, dove summi sacerdotii ministerium compare bensì in un rito di consacrazione episcopale, però quello usato per il Vescovo di Roma.

[40]  Dict. post D. XIX, c. 5, Nulli: “nec locum deinceps inter sacerdotes habeat, sed extorris fiat a sancto ministerio”; nel testo di Gregorio IV che precede, “nostrae dispositionis ministerium” è invece l’osservanza dell’ordine impartito o della regola concretamente in gioco.

[41]  Il termine “parrocchia” conosce una marcata oscillazione semantica, ma in questo caso indica sicuramente una chiesa diversa dalla cattedrale, affidata in pianta stabile alla cura di un sacerdote ed è stabilmente frequentata, quindi la traduzione attualizzante mi sembra corretta.

[42]  “Archipresbiter vero se esse sub archidiacono, eiusque preceptis, sicut episcopi sui, obedire sciat, et (quod ad eius specialiter ministerium pertinet), supra omnes presbyteros in ordine positos curam agere, et assidue in ecclesia stare, et, quando episcopi sui absentia contigerit, ipse eius vice missarum sollempnia celebret et collectas dicat, vel cui ipse iniunxerit

[43]  “Si quis episcopus per manus inpositionem episcopatum acceperit, et sibi commissum ministerium subire neglexerit, nec acquieverit ire ad ecclesiam sibi commissam, hunc oportet communione privari, donec susceperit coactus offitium, aut certe de eo aliquid integre decreverit eiusdem provinciae sinodus sacerdotum.

[44]  “…si intervalla egritudinis habere est solitus, ipse data petitione non se ulterius ad hoc ministerium subvertente infirmitate posse fateatur assurgere, et alium loco suo expetat ordinandum.

[45]  “Quantum autem ad episcopale ministerium specialiter pertinet, nulla eis sit licentia contingendi, sicut nos cum sancta sinodo decrevisse iam constat.”.

[46]  Tra il Decretum e il Vaticano II stanno due grandi corpi legislativi, le collezioni di Decretali e il Codice del 1917. Ma un’indagine sul secondo mi pare superflua, mentre per il Liber Extra – siccome basta il Decretum a dimostrare l’esistenza di un uso linguistico ben radicato nella tradizione canonica latina – mi limito ad un esempio soltanto, X.1.6.7, §2: “Inferiora etiam ministeria, ut puta decanatum, archidiaconatum, et alia, quae curam animarum habent annexam, nullus omnino suscipiat, sed nec parochialis ecclesiae regimen, nisi qui iam vigesimum quintum annum aetatis attigerit, et scientia et moribus commendandus exsistat. Quum autem assumptus fuerit, si archidiaconus in diaconum, et decanus et reliqui admoniti non fuerint praefixo a canonibus tempore in presbyteros ordinati, et ab illo removeantur officio, et aliis conferatur, qui et velint et possint illud convenienter implere.”.

[47]  Va peraltro precisato che, nel contesto di LG, munus ha anche un’altra accezione, detta solitamente “sacramentale-ontologica”: indica, cioè, quella partecipazione ai tre munera di Cristo Sacerdote, Re e Profeta che viene trasmessa inseme con il Sacramento dell’Ordine nel grado episcopale, ma che non si traduce direttamente in potestà nel senso giuridico, che richiede che si abbiano sudditi legittimi. Questa dottrina del Vaticano II è un corollario della natura sacramentale dell’Episcopato, ma non ha una relazione diretta con l’ufficio papale, che di sicuro non è un Sacramento; quindi non me ne preoccuperei particolarmente.

[48]  Contro l’idea che ministerium debba essere per forza un sottoinsieme di munus milita anche LG 28, dove il rapporto è invertito: “i vescovi hanno legittimamente affidato a vari membri della Chiesa, in vario grado, l’ufficio del loro ministero (munus ministerii)”.

[49]  Per maggiori dettagli e dati statistici sulle occorrenze, rimando al già citato studio di Erdö.

[50]  Il Codice non definisce la categoria, ma cfr. M.J. Arroba Conde, Diritto processuale canonico, Roma 2012, pag. 191: “Tali figure hanno funzioni di ausiliari dell’organo giudiziale, anche se le loro funzioni non hanno categoria di potestà. Tra queste spiccano il notaio o cancelliere e altri ausiliari o ministri del tribunale.”.

[51]  Essendo oggi controverso tra i teologi se sia strettamente necessario che il Papa già possieda il carattere episcopale per avere la potestà (problema che il vecchio Codice risolveva in senso negativo), la Costituzione non disciplina il caso e si limita a prescrivere che l’eletto riceva l’episcopato quanto prima.

[52]  Per la seconda parte, eccettuato quel che si è già detto e ancor si dirà sul verbo vacet, le varianti proposte non sono rilevanti e si possono ammettere. In particolare, esiste di sicuro uno “stacco” temporale tra Declaratio e convocazione del Conclave, perché legalmente quest’ultima può avvenire solo a Sede vacante, quindi (almeno) dopo le ore 20 del 28 febbraio; nella perifrastica passiva, l’infinito presente sostituisce anche l’infinito futuro, che non si usa; poco cambia se “ab his quibus competit” viene riferito a convocandum (e allora significa “il Decano o il Sotto-Decano”) oppure ad eligendum (con il senso di “i Cardinali che non avranno compiuto ottant’anni il 28 febbraio”), perché entrambi i significati individuano conseguenze giuridiche corrette dell’atto di rinuncia.

[53]  Un esempio eclatante, nello stesso Benedetto XVI, di uso sinonimico di officium, munus e ministerium è il primo messaggio dopo l’elezione, il 20 aprile 2005 (si noti anche la vicinanza stilistica con la Declaratio): “impares Nos sentimus officio hesterno die Nobis commisso, Successoribus scilicet Petri Apostoli hac in Romana Sede, coram universali Ecclesia” (n. 1); “Si permagnum est muneris onus”; “Hoc peculiare ministerium sumus ingressuri, ministerium scilicet ‘petrinum’, universali Ecclesiae destinatum, humiliter Dei Providentiae manibus Nos permittentes.”; “licet diversa sint munera officiaque Romani Pontificis et Episcoporum” (n. 2); “Nos quoque propterea munus ingredientes quod est proprium Successoris Petri” (n. 3); “Quadam cum significatione Noster Pontificatus incohatur, dum peculiarem Annum Eucharistiae dicatum vivit Ecclesia. Nonne provida in haec temporum convenientia indicium quoddam est percipiendum, quod ministerium notare debet cui sumus vocati? Eucharistia, vitae christianae cor ac Ecclesiae evangelizantis fons, necessario permanentem mediamque partem constituit et fontem petrini ministerii, Nobis commissi” (n. 4); “Plena propterea conscientia ineunte ministerio suo intra Ecclesiam Romanam quam Petrus suo irrigavit sanguine, hodiernus ipsius Successor accipit…” (n. 5); “Suum ideo ministerium suscipiens Pontifex novus…” (n. 6); “dum comparamus Nos ad ministerium illud incipiendum” (n. 7).

[54]  Quando si parla di successione petrina, infatti, si intende quella nel primato sulla Chiesa universale: il Vescovo di Roma, considerato solo come Vescovo, sarebbe successore degli Apostoli in genere; ma “Se qualcuno dirà che non è per istituzione dello stesso Cristo Signore ossia per diritto divino che il beato Pietro ha sempre successori nel governo della Chiesa universale, o che il Romano Pontefice non è il successore del beato Pietro, sia anatema”. Concilio Ecumenico Vaticano I, Costituzione dogmatica Pastor aeternus sulla Chiesa di Cristo, 18 luglio 1870, Denz. 3058; cfr. anche CCC 882.

[55]  Va qui ricordata anche la sua ferma protesta, all’ultima udienza generale, contro l’idea che stesse in qualche modo scendendo dalla croce: solo pochi giorni prima della Declaratio, in occasione della visita al Seminario Romano Maggiore, ha detto tra l’altro “San Pietro sapeva che la sua fine sarebbe stato il martirio, sarebbe stata la croce. E così, sarà nella completa sequela di Cristo. Quindi, andando a Roma certamente è andato anche al martirio: in Babilonia lo aspettava il martirio. Quindi, il primato ha questo contenuto della universalità, ma anche un contenuto martirologico. Dall’inizio, Roma è anche luogo del martirio. Andando a Roma, Pietro accetta di nuovo questa parola del Signore: va verso la Croce, e ci invita ad accettare anche noi l’aspetto martirologico del cristianesimo, che può avere forme molto diverse. E la croce può avere forme molto diverse, ma nessuno può essere cristiano senza seguire il Crocifisso, senza accettare anche il momento martirologico.

[56]  Peraltro, il can. 412 non prevede l’impossibilità di esercitare il ministerium, ma parla proprio di munus.

[57]  E qui si può ben invocare un terzo canone interpretativo, la quarantacinquesima delle Regulae Iuris in Sexto di Bonifacio VIII: “Inspicimus in obscuris quod est verisimilius, vel quod plerumque fieri consuevit”.

[58]  In particolare, non potrebbe valere come conferma il saluto da Castel Gandolfo il 28 febbraio (“non sono più pontefice sommo della Chiesa cattolica). Ma che sarebbe successo se avesse detto “Ho cambiato idea, domani torno a Roma a fare il Papa?”. (Tralascio di ripetere che la Sede impedita e il timore sono due cose diverse, osservo semplicemente che il fatto che il mondo intero annunciasse l’abdicazione non gli impediva di dichiarare il contrario in mondovisione, se voleva) Quanto a “pontefice sommo”, formulazione che ha destato perplessità, in italiano la posizione predicativa marca una differenza, implica che vi siano Pontefici “non sommi”. Ed è così: Pontifex è titolo proprio dei Vescovi, infatti il libro liturgico delle funzioni loro proprie si chiama Pontificale. Dire “Pontefice sommo” rimarca che Ratzinger resta Vescovo e dunque Pontefice, ma non più quell’unico Pontifex che è Summus.

[59]  Qui bisognerebbe forse aprire un discorso più ampio, perché in genere i fedeli sono colpiti e, disgraziatamente, persuasi da dettagli minori come la talare bianca, il nome con sigla “P.P.” o la benedizione apostolica. In questa sede dico soltanto che si tratta di semplici aspetti di diritto umano, che nulla vieta ad un Papa rinunziante di riservarsi per il momento in cui non sarà più Papa: la benedizione apostolica, oltretutto, può essere impartita tre volte l’anno da ogni Vescovo e in articulo mortis perfino dai parroci. Per contro, dopo il fatidico 28 febbraio Benedetto XVI non ha compiuto, né tentato di compiere, né rivendicato il diritto di compiere alcun atto di governo o di Magistero.

[60]  Nella lettera a Hans Küng; spiegare la cosa riferendosi al fatto che in tedesco Pontifikat può essere anche l’episcopato non risolve il problema, perché Bergoglio agisce come Vescovo di Roma.

[61] Veramente, gli incontri della Mafia di San Gallo sono cessati nel 2006 e, mentre risultano le manovre per far eleggere Bergoglio a rinuncia avvenuta, non così le trame per ottenerla. Oltretutto, non si capisce – ed è una costante di certe ricostruzioni… – quali mezzi sarebbero stati adoperati, specialmente considerata la nullità di una rinuncia estorta mediante timore. Che poi la presenza di opposizioni all’esercizio del potere non sia affatto sinonimo di Sede impedita dovrebbe, a questo punto, essere chiaro; aggiungerei solo che, in ipotesi, Benedetto avrebbe semmai avuto il dovere morale di far cessare la Sede impedita, organizzando qualcosa di simile alla fuga di Pio IX a Gaeta, anche a costo di fare a meno della Curia Romana per qualche tempo (se di lì venivano i problemi).

[62]  E comunque, in subordine, l’errore comune riguarderebbe la qualità di Cardinale erroneamente supposta e farebbe salva la partecipazione di ogni “Cardinale putativo” all’atto elettorale.


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