La programmazione di Fuori Orario dal 28 aprile al 4 maggio

L’Italia del boom tra Carlo Lizzani e Domenico Modugno, focus Stefano Stavona con la prima tv di Le mura di Bergamo. E ancora Chantal Akerman, Mariusz Wilczyński e Jean-Daniel Pollet

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Domenica 28 aprile dalle 2.30 alle 6.00

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Fuori Orario cose (mai) viste                                                     

di Ghezzi Baglivi Di Pace Esposito Fina Francia Luciani Turigliatto

presenta

A CAVALLO DEI ’50 – nel boom dipinto di boom (6)

a cura di Paolo Luciani

 

Per alcune notti di Fuori Orario presentiamo coppie di film che siano in grado di documentare i cambiamenti in atto nella società italiana tra il 1948 (anno della sconfitta elettorale delle sinistre) e tutti gli anni ’50, caratterizzati dal centrismo democristiano, ma, anche e soprattutto, da una ricostruzione post-bellica accelerata che conduce al boom economico ed al suo rapido sfiorirsi.

Sono gli anni in cui si stratifica la realtà italiana, quella di “un paese mancato”; non basteranno le lotte sindacali e sociali del decennio successivo, insieme al raggiungimento di poche, ma importanti riforme sui diritti di tutti, ad allineare il paese su standard di modernità, ancora oggi irraggiungibili.

Cinematograficamente siamo tra la crisi del neorealismo e l’esordio di grandi personalità (Antonioni, Fellini) insieme al persistere e al mischiarsi di nuove figure professionali (attori, registi, sceneggiatori, quadri tecnici) con quelle ancora provenienti dalle esperienze del cinema del ventennio. Di fatto, dal dopoguerra alla metà dei ’50, prende forma “il pubblico cinematografico italiano”, costruito sul consumo di una produzione nazionale ancora molto diversificata. Resistono tutti i filoni ed i generi: il neorealismo popolare come quello rosa, il film d’avventura e il film opera, il cinema comico attoriale come quello d’autore. Ma abbiamo anche la nascita della commedia all’italiana e l’inizio del peplum, la presenza hollywoodiana a Cinecittà e quello che sarà il cinema dei grandi produttori italiani degli anni ’60, insieme a realtà come “il cinema napoletano”. Su tutto, poi, si stende una cappa censoria che non risparmia nulla. Le produzioni devono combattere contro l’invasione del prodotto hollywoodiano, facendo ancora ricorso a un mercato di esercizio che vede durare anni lo sfruttamento di un film, con stadi diversi di programmazione, in grado di raggiungere gli strati più profondi del paese: quello che farà la televisione, da lì a pochi anni.  Insieme al cinema e alla radio si affermano nuovi media, non solo la TV, ma la pubblicità, la stampa di partito, il fotoromanzo, le riviste di costume illustrate. Dopo il voto alle donne abbiamo una scolarizzazione finalmente di massa. Quella che viene chiamata una mutazione antropologica del paese si manifesta anche con i bisogni che moltiplicano le occasioni del nuovo consumismo, come di una normale, anche se caotica, evoluzione dei costumi. L’auto per tutti, le vacanze di massa, la moda e il nuovo divismo femminile, i concorsi e le manifestazioni, siano esse canore, di bellezza, letterarie, d’arte. Nella consapevolezza comune emergono e si differenziano economicamente e culturalmente composizioni diverse della società, con nuove problematiche anche esistenziali. Ed il nostro cinema è presente e dà conto di questi mutamenti, con alcune costanti che si possono far risalire alle radici profonde della nostra storia: amor di patria -spesso vissuto come a fare ammenda di non encomiabili responsabilità storiche più o meno recenti- una tendenza costante al tragico e al comico, dove far annacquare tendenze inespresse alla rivolta e alla consapevolezza di sé. Ma, soprattutto, la costante narrativa con cui il nostro cinema sembra fare i conti, è condizione familiare, meglio quella della donna, costretta e raccontata in un’emancipazione troppo lenta, sia essa madre, lavoratrice o “donna libera”.

LO SVITATO

(Italia, 1955 bianco e nero, durata 83’)

Regia: Carlo Lizzani

Con: Dario Fo, Franca Rame, Leo Pisani; Giorgia Moll, Franco Parenti, Alberto Bonucci, Jacopo Fo, Enrico Rame, Umberto D’Orsi, Giustino Durano

Uno stralunato fattorino riesce a diventare giornalista e per realizzare un servizio importante di cronaca nera si lascia mal consigliare da n “falso amico”: dovrà rubare dei cani di razza, in modo da poter costruire una storia sensazionale sul loro ritrovamento. Alla fine “l’amico” non solo fugge con i cani, ma se ne va anche con la fidanzata dell’ingenuo reporter..

NEL BLU DIPINTO DI BLU (VOLARE)

(Italia 1958, bianco e nero, durata 98′)

Regia: Piero Tellini

Con: Domenico Modugno, Giovanna Ralli, Vittorio De Sica, Arianna, Franco Migliacci, Carlo Taranto, Riccardo Garrone, Elisabetta Velinsky

Uno scanzonato giovanotto siciliano è accusato di complicità per un furto in una gioielleria, ma viene aiutato da una ragazza che prova simpatia per lui. Ciò provoca la gelosia di un’altra ragazza innamorata di lui…dopo una serie di ripicche, malintesi, discussioni non solo viene definitivamente scagionato, ma trova il vero amore.

 

Venerdì 3 maggio dalle 1.30 alle 6.00

IL CAMMINO DEI SOPRAVVISSUTI

Elaborazione del lutto (1)

a cura di Lorenzo Esposito

LE MURA DI BERGAMO  PRIMA VISIONE TV

(Italia, 2023, col e b/n, dur. 121’)

Regia: Stefano Savona

Presentato in prima mondiale alla Berlinale 73 nella sezione Encounters.

Nei primi mesi del 2020 una vasta zona del Nord d’Italia viene colpita dal Covid, un nuovo virus di cui si sa ben poco. Bergamo e la sua provincia diventano l’epicentro di questa pandemia. Ospedali al collasso, famiglie sconvolte, bare trasportate via dai convogli militari. Questo, con straziante precisione, è solo l’inizio del potente nuovo lavoro di Stefano Savona. Dopo l’abisso dei giorni più duri incomincia una sfida forse ancora più grande: l’elaborazione del lutto. Le persone si incontrano, cercano di capire cosa è successo, di superare paura e dolore. Nulla è più come prima, la percezione di ciò che siamo abituati a chiamare vita e a chiamare morte è completamente cambiata. Scavando nella memoria recente e passata di Bergamo, Savona mette in questione l’idea stessa di cinema documentario: come filmare questo ciclo interrotto fra vita e morte? Come accompagnare i sopravvissuti nella ricerca di una nuova posizione nel mondo?

LA MEMORIA COME ARCHIVIO DEL REALE (2): INTERVISTA CON STEFANO SAVONA

(Italia, 2024, col. dur. 35’ ca.)

Seconda parte di una conversazione con Stefano Savona che Fuori Orario ha cominciato nel Maggio 2023 con la messa in onda de “La Strada dei Samouni”. Savona stavolta parla del suo film più recente, “Le mura di Bergamo”. Ripercorre l’esperienza di questo documentario doloroso e sperimentale girato con un gruppo di studenti di cinema documentario di Palermo. L’arrivo in città, la difficoltà di girare durante i momenti più difficili della pandemia, il legame fortissimo con i medici e con i sopravvissuti con cui comincia un lavoro terapeutico di elaborazione del lutto.

L’ORDRE                                                 

(Francia, 1973, col., 1973, dur. 41′, v.o. sott. it)

Regia: Jean-Daniel Pollet

Davanti alla macchina da presa un lebbroso greco racconta la sua vita. In compagnia di altri malati, ha trascorso lunghi anni a Spinalonga, un’isola la largo di Creta: Erano stati reclusi lì perché morissero lontano dagli sguardi delle persone ‘sane’. In seguito i lebbrosi sono stati trasferiti in un ospedale nei pressi di Atene. Facendo da contrappunto al racconto dell’uomo, che parla senza rancore e senza collera – ma nello stesso tempo invita tutti gli uomini  alla resistenza, alla rivolta –   la macchina da presa penetra nei corridoi, nei vicoli e nelle rovine della prigione abbandonata di Spinalonga, mentre una voce fuori campo commenta alla seconda persona singolare il fenomeno dell’esclusione sociale: “La lebbra dei medici è l’ordine”.

“A vent’anni, Godard scriveva: la creazione artistica non fa che ripetere la creazione cosmogonica, non è che il doppio della storia’. Il cinema di Pollet illustra perfettamente simile riflessione. Vi è infatti anche della storia, anche, in Jean-Daniel, non soltanto una storia sviluppata in racconto come nel ciclo Melki, non soltanto una storia sforante sul politico – come sottolinea fin dal titolo L’Ordre, quello che non marginalizza più, che non esclude più, ma semplicemente decreta non vivo il vivo. C’è del Sofocle in questo film e Raimondakis è un fratello di Antigone – ma soprattutto la storia della storia. Si capisce allora come nei suoi ultimi lavori Pollet riunisca come in opus unico i suoi film precedenti. Si muove contro il tempo, in contrasto e incontro al tempo. E magari, solo Dio lo sa, il cammino del nostro artista cerca di aderire al cammino del mondo, al movimento dell’universo”. (Jean Douchet)

 

Sabato 4 maggio dalle 2.00 alle 7.00

IL CAMMINO DEI SOPRAVVISSUTI

Muraglie (2)

a cura di Lorenzo Esposito

D’EST

(Belgio-Francia-Portogallo,  1993, col., 111’, v.o. senza dialoghi)

Regia: Chantal Akerman

Evocazione della guerra. Implosione: così Chantal Akerman su D’est. Viaggio nell’Europa del ‘dopo-Muro’, realizzato in 16 mm., composto per lo più di inquadrature di esterni, fisse o in travelling. ipnotici di straordinaria e insuperata intensità. Nessun commento.   Si passa dall’estate all’inverno, dalla campagna alla città, dai sobborghi al mare, dalla Polonia alla Russia, senza che questi luoghi e questi paesaggi da un paese all’altro siano esplicitamente menzionati e senza alcuna idea di progressione.  I mille volti e corpi di persone qualsiasi, gli assembramenti all’alba o nella notte, i grappoli spettrali di gente imbacuccata che aspetta – il treno, l’autobus, la fine del mondo, non si sa…  Il film D’Est è diventato anche una installazione, la prima realizzata da Chantal Akerman:  Bordering on fiction: Akerman’s “D’Est”, al Walker Art center di Minneapolis ((1993-1995) e ripresa   successivamente  in numerosi altri  musei d’arte contemporanea. Insieme ai successivi Sud (girato in Texas), De l’autre côté (girato tra Arizona e Messico). D’Est   compone una straordinaria trilogia di cinema nomade, “apolide” (cui si può aggiungere anche un ulteriore tassello, Là-bas , girato a Tel Aviv) , che possiamo considerare tra i risultati più alti di una della più grandi registe e artiste del tempo appena trascorso. Di grande, di rivoluzionario, non c’è che il minore, come ci hanno insegnato Deleuze e Guattari attraverso Kafka.

“D’Est è profondamente narrativo perché permette allo spettatore di raccontarsi delle storie. Anche la cornice c’entra molto perché non è mai documentaristica. Non dico: ecco, vi dirò tutto della Russia. Mostro delle impressioni e la gente poi continua dentro di sé.  D’Est non è solo un film sull’Europa dell’Est. Quelle immagini le avevo già in me. Avrei potuto filmare mille altre cose, ho filmato questo perché erano delle riprese che esistevano già nella mia testa. È qualcosa che ha a che vedere con i campi, le evacuazioni, le immagini prima di me” (Chantal Akerman).

“La bellezza di D’Est deriva da questo sguardo su esseri umani di cui non sappiamo nulla. Non sappiamo nulla, lei li guarda. C’è come il desiderio di trasmettere, di captare qualcosa di questo mondo perduto, e nello stesso tempo l’impossibilità di catturarlo. Ci sono lì tutte queste persone che vivono e che non rivedremo più, ci ricorderemo soltanto che hanno vissuto. (…)    Chantal è una donna che fa parlare i morti, ne sente la necessità. Lo fa attraverso l’arte, l’’unica maniera di far rivivere qualcosa che è soltanto nella nostra testa (…) Nei film di Chantal Akerman non si scopre, si riconosce. Ed è precisamente questo il lavoro di un artista” (Christian Boltanski)

KILL IT AND LEAVE THIS TOWN                    

(Zabij to i wyjedz z tego miasta, Polonia, 2019, col, dur., 88′, v.o.sott.it)

Regia: Mariusz Wilczyński

Presentato al Festival Internazionale del Film di Berlino nella sezione Encounters.

Il film parla di un eroe, in fuga dalla disperazione dopo aver perso le persone più care, che si nasconde in una terra sicura di ricordi, dove il tempo si è fermato e tutte le persone a lui care sono vive.

Per il suo primo lungometraggio d’animazione, che ha richiesto quattordici anni di lavoro, Mariusz Wilczyński si è dedicato alla propria biografia e si è messo a nudo. Rovistando in modo irriverente e disinibito nella sua memoria personale e collettiva, popola le strade, i tram e i negozi della città industriale di Lodz con personaggi, frammenti di memoria e melodie orecchiabili che ci riportano al suo mondo infantile degli anni Sessanta e Settanta. Personaggi letterari, eroi dei fumetti, familiari e amici si aggirano anacronisticamente in un vero e proprio cupo labirinto che tuttavia sfida l’oscurità e l’oblio. Wilczyński spinge all’estremo lo stile e la poesia dei suoi precedenti film più brevi, che oscillavano tra i disegni per bambini e l’estetica gotica, testando finanche i limiti di ciò che può essere proiettato, sperimentando ogni sfumatura immaginabile tra il grigio e il nero. Tra le voci dei personaggi c’è anche quella di Andrzej Wajda.

“Il titolo Kill It and Leave This Town, come il film stesso, ha molteplici significati e livelli. Il suo significato di base è il motivo per cui ho realizzato questo film. Mi sentivo in colpa per non essermi preso cura dei miei genitori anziani, perché ero sempre occupato a fare le mie cose. Ho provato rimorso per non averli abbracciati prima della loro morte. Non li ho salutati. Non ho concluso alcune conversazioni. Volevo incontrarli di nuovo in Kill It and Leave This Town. Li ho disegnati per rimediare a tutte queste cose. Le persone che hanno visto il mio film mi hanno scritto dicendo che grazie al film hanno migliorato i loro rapporti con i genitori. Ora tendono a chiamarli più spesso, a far loro visita se possono, a prendersi più cura di loro. Credo che grazie a questo sono riuscito a eliminare il senso di colpa che avevo dentro di me. Questo è il motivo principale per cui ho realizzato il mio film. Kill It and Leave This Town: uccidere tutte queste cose che ti tormentano, quelle che derivano da qualcosa che hai rotto nella tua vita, e aggiustarlo. L’altro significato è, in realtà, il processo di realizzazione del film. Non mi sarei mai aspettato che ci sarebbero voluti 14 anni, un quarto della mia vita. Da un lato, credo che sia stato il periodo più significativo della mia vita, quando ero così felice di fare qualcosa di così importante per me. Dall’altro lato, ho impiegato così tanto tempo perché morivo dalla voglia di finire il film, di uccidere tutto quello che c’era dentro e di liberarmi. Ci sono riuscito e mi sento finalmente libero” […] “Naturalmente, tutto si basa sui miei disegni. Ho disegnato a mano tutti gli scenari e i personaggi, ma abbiamo dovuto escogitare nuove idee quando si è andati oltre il semplice disegno. Per esempio, abbiamo ordinato dei piccoli neon personalizzati che abbiamo illuminato. Tutte le luci e i neon sono stati realizzati a mano, così come il vetro con l’acqua che scende. Non abbiamo usato il computer per questo. Quando il treno passa, si può vedere il paesaggio che cambia dal finestrino. Anche questi sono stati disegnati a mano da me e poi abbiamo regolato l’illuminazione in analogico. Solo in un secondo momento abbiamo usato il greenbox per mettere insieme il tutto. Tutto è stato ugualmente affascinante e impegnativo. Tutte queste soluzioni erano nuove: non le avevo mai fatte prima e dovevo inventarmi qualcosa. Ho dovuto diventare un po’ uno scienziato che escogita un’idea per far funzionare le cose. È così che lavoro sempre sui miei film. Prima penso a quello che dovrebbe essere il tema del film, poi penso a tutte queste macchine magiche che mi aiutano a farlo vivere”. (J. Murphy, Interview with Mariusz Wilczyński, in “Animation Scoop, febbraio 2021)

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#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

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