Biografia - Casa-Museo Giacomo Matteotti

Biografia

Giacomo Matteotti

Giacomo Matteotti nacque a Fratta, un piccolo comune del Polesine posto tra l’Adige e il Po, a una quindicina di chilometri da Rovigo, il 22 maggio 1885. I genitori erano agiati proprietari terrieri e gestivano nel centro del paese un negozio dove si vendeva un po’ di tutto. La provincia di Rovigo era una delle zone italiane più povere, come dimostrò l’Inchiesta Iacini sulle condizioni della classe agricola in Italia, realizzata in quegli anni. La popolazione, prevalentemente composta di contadini e braccianti, viveva in condizioni miserabili e si orientava verso il socialismo. Il flusso migratorio era imponente e nei successivi trent’anni dirottò verso l’estero, prevalentemente il Sud America, circa un terzo dei residenti. La sensibilità politica e morale di Giacomo fu certamente sollecitata dall’ambiente degradato in cui viveva.

La famiglia Matteotti era originaria del Trentino e si era trasferita nel Polesine nella prima metà dell’Ottocento, quando la provincia faceva parte del Regno Lombardo-Veneto, incorporato nell’Impero asburgico. Proprietari di una miniera di ferro a Comasine, in Val di Pejo, i Matteotti operavano nel commercio di lavorati e semilavorati di ferro e rame ed erano già in possesso di una discreta fortuna quando trasferirono nel Rodigino la loro attività, operando nel capoluogo e in diverse località della provincia. Il nonno di Giacomo, Matteo, si stabilì a Fratta, aprendovi un negozio, nel 1852, ma mantenendo la residenza a Comasine, dove nel 1839 era nato suo figlio Girolamo, il padre del futuro deputato.

Nel 1858 Matteo fu ucciso in una rissa davanti alla sua bottega e tutte le attività passarono al figlio, appena ventenne. Negli anni successivi, in particolare dopo l’annessione del Veneto all’Italia (1866), questi incrementò il patrimonio con acquisti di terreni, grazie alla vendita all’asta dei beni ecclesiastici in seguito alle leggi di esproprio del 1866 e 1867, e con una costante attività di prestito di denaro ad interesse. Nel 1875 le fortune della famiglia aumentarono ancora grazie al matrimonio di Girolamo con Isabella Garzarolo, una donna semianalfabeta, ma con un carattere indomito, fornita di grande senso degli affari e di una dote cospicua. Quando nacque Giacomo, nel 1885, la famiglia Matteotti poteva annoverarsi fra le famiglie agiate della provincia. Girolamo morirà nel 1902, lasciando alla moglie la conduzione del negozio e dei connessi interessi.

Giacomo fu il penultimo di sette figli, quattro dei quali moriranno in tenera età. Dei tre che giunsero all’età adulta, Matteo (era nato nel 1876) si dedicò agli studi di economia politica prima a Venezia e poi a Torino, alla scuola di Francesco Saverio Nitti e a fianco di Luigi Einaudi, ma morì poco più che trentenne. L’influsso di questo fratello più anziano e perduto troppo presto ebbe una grande influenza nell’orientare Giacomo sia agli studi accademici sia all’attività politica nelle file del socialismo. L’altro fratello, Silvio, probabilmente destinato a condurre le attività della famiglia, mancò nel 1909, a ventidue anni.

Giacomo, unico rimasto in vita dei sette fratelli, studiò a Rovigo e si laureò in legge a Bologna, iniziando la carriera universitaria nel settore penalistico. Il suo professore di riferimento era uno dei più noti giuristi del tempo, Alessandro Stoppato, docente di diritto e procedura penale, che sarà poi deputato e senatore e fra gli artefici del codice di procedura penale varato nel 1913. Nel 1910 Matteotti pubblicò la sua tesi – La recidiva – presso la casa editrice F.lli Bocca di Torino. Lo studio, che affronta uno dei temi allora più in voga, la reiterazione del crimine, è ancora citato nelle bibliografie specialistiche e rivela, nel suo giovane autore, una cultura giuridica fortemente impregnata di sensibilità sociale e politica.

Collaborava da tempo al periodico socialista locale, “La lotta”, e nel 1910 fu eletto nel Consiglio provinciale di Rovigo. Successivamente divenne consigliere comunale in vari comuni, dove la famiglia aveva proprietà terriere e, nel 1912, sindaco di Villamarzana, un piccolo municipio confinante con Fratta. Da allora l’attività politica e amministrativa lo assorbì totalmente. Era un capace ed efficiente organizzatore di leghe bracciantili, oltre che amministratore locale, dotato di un ascendente che lo impose rapidamente all’attenzione dei compagni di partito e degli avversari. In questa fase iniziale della sua attività operò esclusivamente nell’ambiente rurale polesano. Dedicò molte attenzioni al sistema scolastico di base, maturando l’idea che se non si elevavano culturalmente e socialmente le classi contadine, in Italia non sarebbe mai stato possibile il cambiamento. Era su posizioni riformiste, ma radicalizzate da un temperamento focoso, mai incline al compromesso. Divenne rapidamente il leader indiscusso del socialismo polesano, mentre tramontava la stella di Nicola Badaloni, il medico filantropo di Trecenta, deputato dal 1886, che ne era stato fino a quel momento l’esponente più noto.

Quando scoppiò la Prima guerra mondiale, Giacomo assunse una linea rigorosamente neutralista. In seguito ad un discorso contrario alla guerra tenuto nel Consiglio provinciale subì un processo per disfattismo, dal quale uscì assolto solo in Cassazione. Alle autorità militari parve però opportuno allontanare dal teatro operativo questo pericoloso “sovversivo”. Nonostante fosse stato riformato per una forma comprovata di debolezza polmonare, che nell’estate del 1915 l’aveva tenuto lontano da ogni impegno e aveva fatto temere per la sua vita (si ricordi che i suoi fratelli Matteo e Silvio erano morti entrambi di tubercolosi), venne ugualmente richiamato alle armi e, nell’estate del 1916, confinato in Sicilia, vicino a Messina, nella caserma di Campo Inglese, dove rimase fino alla primavera del 1919. Lontanissimo dal teatro di guerra, non ebbe mai l’esatta nozione del dramma che invece si viveva nel Veneto, in particolare dopo la rotta di Caporetto. In questi anni di forzata inattività riprese anche gli studi di diritto, pubblicando alcuni saggi sulle riviste specialistiche.

Velia Titta

Abituato a condurre una vita agiata aveva visitato vari paesi europei, soprattutto nella fase di rielaborazione della sua tesi di laurea, e praticava discretamente il francese, l’inglese e il tedesco. Nell’estate del 1912 aveva conosciuto durante una vacanza all’Abetone Velia Titta, sorella minore del celebre baritono Titta Ruffo, che sposò con rito civile nel 1916. Dal matrimonio nacquero tre figli: Giancarlo (1918-2006), Matteo (1921-2000) e Isabella (1922-1994). La moglie era una donna lontana dalla politica e di radicati sentimenti cattolici – diversamente dal marito, le cui convinzioni laiche e anticlericali erano molto rigide, secondo il prevalente orientamento dei socialisti del tempo – che esercitò sul marito un influsso profondo, benché poco appariscente. L’ampio epistolario fra i due è uno straordinario documento umano, che getta importanti fasci di luce anche sul personaggio pubblico.

Isabella, Matteo, Giancarlo

Quando Giacomo fu congedato e rientrò in Polesine dalla Sicilia, siamo nel marzo del 1919, si ributtò anima e corpo nella lotta politica e alle elezioni politiche di novembre, le prime svolte col sistema proporzionale a scrutinio di lista, fu eletto deputato nella circoscrizione di Rovigo e Ferrara. Rovigo, dove il PSI ottenne il 70% dei voti, si rivelò la provincia più rossa d’Italia. L’anno seguente i socialisti confermarono il loro dominio conquistando tutti i 63 comuni del Polesine. Poco dopo l’elezione, pur essendo un giovane deputato ancora sconosciuto, cominciò ad intervenire in Aula anche in occasioni importanti. Senza timori reverenziali, nei suoi discorsi alternava ragionamenti e ironie, battute e analisi che rivelarono una disinvoltura da veterano e lo imposero all’attenzione generale. Della vecchia classe dirigente liberale, l’avversario che prese maggiormente di mira fu Giovanni Giolitti.
Siamo nel clima convulso del dopoguerra e il “biennio rosso”, caratterizzato da violenze e illegalità, isolò progressivamente i socialisti e scatenò un po’ alla volta la reazione dei ceti agrari e proprietari, che trovarono nello squadrismo fascista un interprete deciso e senza scrupoli. La bassa Pianura Padana, e quindi il Polesine, erano proprio al centro di questa complessa vicenda, che riempì il paese di paura e di sangue. Matteotti, leader socialista polesano e parlamentare nazionale, totalmente immerso in questa stagione drammatica della nostra storia, fu spesso accusato di essere l’uomo dai due volti: legalitario a Roma e rivoluzionario in Polesine, pompiere nella capitale e piromane nella sua provincia.

Prima della guerra era stato il bersaglio di durissimi attacchi degli avversari, che vedevano in lui una sorta di “traditore di classe”, il ricco proprietario terriero passato al socialismo. Sulla stampa polesana, liberale e cattolica, le bordate contro il “socialista milionario” e il “rivoluzionario impellicciato” erano continue. Ma allora era solo una figura locale. Dopo la guerra, nel clima inferocito degli anni postbellici, con un ruolo politico ormai nazionale, Giacomo si trovò al centro di in una vicenda politica molto più ampia, caratterizzata dal crollo progressivo del vecchio liberalismo e dalla sconfitta del socialismo, nonché del popolarismo cattolico, davanti al montante movimento mussoliniano. In varie occasioni fu vittima della violenza fascista, che nell’arco di pochi mesi rovesciò a proprio favore la situazione politica di Rovigo: a Castelguglielmo, il 12 marzo 1921, subì una brutale aggressione (circolò la voce che fosse stato addirittura stuprato), dopo la quale dovette abbandonare il Polesine per evitare guai maggiori.

Alle elezioni di maggio 1921 fu rieletto deputato e all’inizio di ottobre del 1922 divenne segretario del Partito Socialista Unitario (PSU), il partito che si formò a destra del PSI, raccogliendo l’ala riformista di cui era leader Filippo Turati. L’anno prima, al congresso di Livorno, il PSI aveva subito la scissione a sinistra con la nascita del Partito Comunista (PCdI). All’appuntamento con la marcia su Roma, i socialisti si presentarono dunque divisi in tre tronconi, impegnati più a guerreggiare tra loro che ad affrontare l’avversario. La vittoria del fascismo divenne quasi inevitabile.

Matteotti visse in una crescente solitudine i suoi ultimi due anni di vita. Era solo nell’arcipelago politico della sinistra, dato che la sua distanza nei confronti del comunismo era netta tanto quanto quella nei confronti del fascismo, come scrive in una gelida lettera a Palmiro Togliatti, rifiutando la proposta di alleanza alle elezioni del 1924. Ma era solo anche all’interno del PSU, di cui non mancava di denunciare le viltà, l’incapacità, i tradimenti, la sotterranea volontà di accasarsi al governo con i fascisti. Egli viceversa, avendo ben conosciuto il fascismo fin dalle sue origini nelle campagne padane, non cessava di gridare contro il pericolo rappresentato da questo nuovo movimento, incitando il suo partito all’opposizione. Le sue lettere di questo periodo, in particolare a Turati, con il quale strinse un rapporto politico e umano sempre più stretto, sono una drammatica testimonianza della disfatta cui stava andando incontro tutta la classe politica del tempo e delle responsabilità che ne porta la sinistra.

Rieletto nel 1924 – alle elezioni svoltesi dopo la riforma del sistema elettorale voluta da Mussolini con l’introduzione della legge Acerbo – Matteotti, cui era stato ritirato il passaporto, espatriò ugualmente e si recò in Inghilterra, per raccogliere documenti sulle compromissioni e la corruzione di uomini del regime nelle forniture petrolifere all’Italia. Il 30 maggio, nella seduta inaugurale del nuovo Parlamento, pronunciò un memorabile intervento, in gran parte improvvisando, di denuncia del clima di violenza e illegalità in cui si erano svolte le elezioni, delle quali chiese l’annullamento. Terminato l’intervento, che durò più di un’ora, in un clima incandescente, tra interruzioni, urli e minacce della maggioranza fascista nei suoi confronti, sedette stremato sul suo banco. Ai colleghi di partito che si congratulavano con lui avrebbe detto che ora dovevano prepararsi a fare la sua commemorazione funebre. E Salandra riferì questa frase di Mussolini, che aveva seguito dai banchi del governo il suo intervento: “Quando sarò liberato da questo rompic… di Matteotti?”.

Dieci giorni dopo, nel pomeriggio del 10 giugno, fu aggredito, malmenato e rapito sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, poco lontano dalla sua abitazione. Caricato a forza su un’automobile, fu probabilmente assassinato all’interno dell’auto. La crisi politica che ne seguì nei giorni seguenti fu la più grave mai occorsa al fascismo nei vent’anni in cui fu al potere. Poi le acque si calmarono e il corpo di Matteotti fu ritrovato in un bosco non lontano da Roma il 15 agosto. Trasferita in treno a Fratta – di notte, per evitare manifestazioni di cordoglio – la cassa con i resti di Giacomo Matteotti fu esposta nella sala a pianterreno della villa in cui era vissuto, ora divenuta museo e dichiarata monumento nazionale.

I funerali a Fratta

Il funerale attraverso le vie del paese e l’inumazione nel cimitero ebbero luogo il 21 agosto. Al corteo si calcola abbiano preso parte diecimila persone, quasi il triplo della popolazione di Fratta in quegli anni.
Il delitto Matteotti segnò un netto spartiacque nella storia del fascismo e del nostro paese. Di qui l’importanza del personaggio e della vicenda di cui fu protagonista. Superata la crisi, Mussolini varò tra il 1925 e il 1926 le cosiddette “leggi fascistissime” che smantellarono lo stato liberale, di diritto, e instaurarono la dittatura. Per tutto il ventennio la figura di Matteotti fu messa al bando. Solo pronunciarne il nome poteva costare molto caro, mentre la famiglia – la mamma (morì nel 1931), la vedova (mancò nel 1938), i tre figli – vissero a Fratta sotto strettissimo controllo. All’estero, invece, già nel periodo interbellico la sua fama dilagò dall’Europa all’America Latina, come attestano le citazioni del suo nome nella migliore letteratura europea: è ricordato nelle opere di Ivo Andric, Miguel de Unamuno, Stefan Zweig, George Orwell, Marguerite Yourcenar, Leonardo Sciascia. A Vienna, nel quartiere Margareten, l’amministrazione comunale socialdemocratica guidata dal sindaco Karl Seitz, nel 1927 intitolò al suo nome – Matteottihof – un grande complesso residenziale popolare, tuttora esistente, con 452 appartamenti. L’intitolazione fu revocata durante la dittatura di Dolfuss, per compiacere Mussolini, e ripristinata nel 1945.

Dopo la guerra emerse come uno dei protagonisti più limpidi della storia italiana novecentesca, trasformato nel simbolo dell’antifascismo e dell’amore di libertà, di cui sono testimonianza vie, piazze e luoghi pubblici delle nostre città. Dopo i personaggi risorgimentali, quello di Matteotti è il nome più sfruttato dalla toponomastica nazionale.

Gianpaolo Romanato