Giacomo Matteotti. A cento anni dalla morte, ritratto dell’uomo più temuto dal fascismo - la Repubblica

Il Venerdì

Giacomo Matteotti. A cento anni dalla morte, ritratto dell’uomo più temuto dal fascismo

Ludovica Mutterle, direttrice della casa-museo Matteotti, sulla tomba del deputato socialista a Fratta Polesine. Concetto Vecchio

Ludovica Mutterle, direttrice della casa-museo Matteotti, sulla tomba del deputato socialista a Fratta Polesine. Concetto Vecchio

 

Chi era veramente il deputato socialista assassinato il 10 giugno 1924? Abbiamo provato a capirlo grazie ad alcuni di quegli italiani che non lo hanno mai dimenticato. Inchiesta

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L’ascensore che prese quel giorno è ancora lì. La panca in similpelle marrone, l’interno col vetro givrettato, la bottoniera in ottone e la targhetta dorata dell’azienda che lo costruì, la Stigler. Il tempo si è fermato in via Pisanelli 40, al quartiere Flaminio, Roma. Sulla facciata è stata murata una targa che recita: “Qui abitava Giacomo Matteotti quando uscendo di casa il 10 giugno 1924 andò incontrò alla morte”. Giacomo Matteotti vi discese dal quarto piano. A poca distanza, in Lungotevere Arnaldo da Brescia, venne aggredito da cinque sgherri fascisti, caricato a forza su una Lancia K e quindi ucciso. Aveva 39 anni, moglie, e tre figli in tenerissima età.

La targa l’ha messa, «senza chiedere l’autorizzazione a nessuno, nemmeno a mia moglie», un architetto che abita al quinto piano, Paolo Marocchi, 82 anni. «Lei cosa avrebbe fatto al mio posto?», mi risponde quando gli chiedo conto del suo gesto. Poi restiamo come imbambolati davanti all’ascensore di Matteotti. «Ai tempi» spiega «l’ascensore lo si prendeva per salire ai piani, per ascendere, appunto, e invece si scendeva a piedi, per l’atavico timore di precipitare».

Mi piace pensare che Matteotti, che non aveva avuto paura di Mussolini, lo utilizzasse invece nella discesa.

Il socialista Giacomo Matteotti, martire dell’antifascismo, tra i politici del Novecento ha il record di intitolazioni, vie e piazze, ben 3.992. Ma lo conosciamo veramente? Un deputato che tra i primi, con i suoi discorsi in Parlamento, si è opposto al fascismo, da allora risulta schiacciato sulla sua morte violenta. Il Parlamento ha varato all’unanimità, su proposta di Liliana Segre, una legge che sostiene le commemorazioni per il centenario della morte. Ma non è che lo conoscano granché nemmeno tra quelle aule. Un senatore di Forza Italia, Mario Occhiuto, l’ha confuso con Giacomo Mancini. «Non è mai stato popolare», scrisse di lui Piero Gobetti. Vale anche oggi. Ricordato, ma come dimenticato.

I testimoni che lo conobbero sono tutti morti, né sono giunti fino a noi video o audio, solo le lettere, gli scritti, i discorsi. Intervenne 106 volte alla Camera, l’ultima invettiva gli costò la vita. L’unico film è del 1973. Il delitto Matteotti, regia di Florestano Vancini, un po’ didascalico, con i rumori da western a sottolinearne i picchi più drammatici, Franco Nero nei panni di Matteotti e Mario Adorf in quelli di Mussolini. Che fine ha fatto Nero? Googlo. Ha 82 anni.

Il sarcofago inamovibile

Salgo su un treno per Rovigo. Voglio visitare la tomba di Giacomo Matteotti, a Fratta Polesine. Campi di grano gelati, pioppi spogli, strade vuote. Matteotti, andando a casa dalla stazione di ritorno da Roma, percorreva questa strada secondaria in macchina, in bicicletta, talvolta col calesse.

Il camposanto sorge accanto allo stradone. Al centro una grande cappella intonacata di un grigio chiaro: Famiglia Matteotti. Giacomo riposa in un sarcofago di marmo nero con la scritta in caratteri di bronzo col suo nome. Venne donato dagli operai di Bruxelles, che lo avevano incontrato poco prima del delitto nel corso di una riunione dell’Internazionale socialista. Ora qualcuno l’ha coperto con le bandiere dell’Italia e dell’Europa. E le bandiere, i fiori, i biglietti, il sole che illumina potente l’interno, bel contrasto con lo scuro della bara, fanno di questo mausoleo un luogo vivificato da un caldo spirito.

Garofani ai piedi della tomba, biglietti. “Caro Giacomo”, c’è scritto su una busta. Come se fosse un amico ancora in vita. Giovanna e Gianfranco, una coppia di insegnanti, hanno vergato queste righe: “Onorevole Matteotti, in questi giorni difficili veniamo ad onorare la sua tomba, non mancando mai di onorare la sua memoria, e la sua idea di dignità e altissimo senso civico nelle nostre classi”.

La cappella contiene le salme della moglie, Velia Titta, dei genitori, Isabella Garzarolo e Girolamo Matteotti, dei fratelli Silvio e Matteo, e dei figli Giancarlo, Matteo, Isabella, che non ebbero quasi ricordi del padre, tanto erano piccoli al momento dell’omicidio. E avevano venti, diciassette e sedici anni, quando, dopo un’operazione, se ne andò, nel 1938, anche la madre.

Matteotti giace qui dall’11 ottobre 1928. Vi giunse soltanto dopo peripezie, traslochi, trafugamenti, trattato come un appestato. Il suo corpo era stato trovato soltanto due mesi dopo l’uccisione, alla Quartarella, Riano, a venti chilometri dalla capitale, dove era stato ucciso. Uno scheletro. Le carni divorate dai cani e dagli animali selvatici.

Inizialmente finì tumulato nella cappella di Giuseppe Trevisan, l’amministratore dei beni della famiglia, messo lì per non dare troppo nell’occhio, reso anonimo e quindi non attaccabile. Un anno dopo la sepoltura, Trevisan chiese alla signora Isabella di trasferirlo in una tomba dismessa. I fascisti lo avevano minacciato di devastargli la cappella, che ospitava anche le spoglie del figlio, morto bambino. Spaventato, cedette. Matteotti finì dentro una tomba senza nome, la madre assistette in lacrime a quell’umiliante trasloco, le parve l’ultimo sfregio, tra i singhiozzi urlò «governo assassino». Poi il fascismo cominciò a temerne il fascino. Si diffuse la preoccupazione che la tomba potesse finire all’estero, in mano agli esuli antifascisti. Si escogitò allora la soluzione della cappella dei Matteotti. Isabella Garzarolo la ottenne a patto di costruire a sue spese la nuova camera mortuaria comunale. Una volta edificata il prefetto di Rovigo ordinò però la cementificazione del sarcofago, che così fu reso inamovibile, impedendo il trafugamento del corpo. La moglie chiese di celebrare almeno una messa in suffragio. Le autorità la imposero alle 6.30 del mattino.

Senza pace né giustizia

Fratta Polesine, il paese di Matteotti, ha un che di segreto. Bisogna venirci apposta, inoltrarsi. «Qui le pietre parlano», dice la direttrice della casa museo, Lodovica Mutterle, mentre mi guida tra le ville patrimonio dell’Unesco, alcune ancora abitate. È un’ex insegnante di italiano e latino al liceo Celio, a Rovigo, lo stesso frequentato da Giacomo. Quindici anni fa la sua passione per gli archivi l’aveva portata a sistemare le vecchie carte del Comune; lì, nel riordino dei documenti, si è imbattuta in Matteotti: «Me ne sono innamorata», ammette ridendo. Si deve alle sue ricerche la storia delle peripezie della tomba.

La villa nella quale era cresciuto, ora casa museo e monumento nazionale, è nascosta dagli alberi. All’interno il mondo di Giacomo, la famiglia, la lotta politica, la tragedia, è riprodotto in dettagli commoventi. «Guardi qui», Lodovica tira fuori un quadretto con dentro un garofano appassito. Lo colse ai funerali, il 21 agosto 1924,un nipote di Giacomo Matteotti, Mino Steiner – figlio dell’industriale milanese Emerico Steiner e di Fosca Titta, una delle sorelle di Velia – che allora era ancora un ragazzo. E lo conservò. Pur appassito mantiene intatta la sua intima bellezza. Lo ha donato al museo suo figlio, Marco Steiner.

«Usciamo», dice Lodovica, «le devo fare vedere la targa in piazza». Recita l’iscrizione nell’epigrafe: “Giacomo Matteotti assurto nel martirio a simbolo di libertà presso tutte le genti nella sua terra senza pace attende il giorno della giustizia riparatrice”. «Venne censurata. Fino al 2011 l’iscrizione finiva con la parola “terra”». L’11 giugno del 1950 un commissario della questura si precipitò dal sindaco di Fratta, Antonio Celeghin, facendogli notare che non era stata presentata la regolare domanda per la collocazione della targa. Ci fu una discussione sul testo, il commissario pretendeva una modifica. Da Rovigo venne il questore. Quella frase disturbava, ma vietarne l’affissione avrebbe comportato un problema di ordine pubblico. Era l’Italia di Mario Scelba, ministro dell’Interno democristiano, che usava il pugno duro contro le sinistre. Si giunse allora a un compromesso: l’insegna venne autorizzata a patto che si togliessero le ultime otto parole. Un marmista eliminò le lettere in bronzo che componevano la frase “senza pace attende il giorno della giustizia riparatrice”.

E davvero senza pace era stato fino a quel momento il corpo di Matteotti. Anche il secondo processo, celebrato nel dopoguerra, aveva lasciato molti dubbi sulle complicità dei vertici del regime. Il principale responsabile, lo squadrista Amerigo Dùmini, nel 1953 uscì di carcere e si iscrisse al Movimento sociale italiano. La versione purgata della targa rimase lì per sessant’anni, e solo la tenacia di Lodovica Mutterle ha permesso di rispolverare questa piccola storia ignobile.

Fuori dal coro

Matteotti non cantava in coro. Amato dagli ultimi, vilipeso da quelli della sua classe sociale (“il socialmilionario!”), appena sopportato da molti dirigenti del suo partito, è sempre stato in fuga da qualcosa, forse anche da se stesso. «Lei non è italiano!» lo insultavano i fascisti alla Camera. Ma sbagliavano. Era nel carattere, nella postura civile, come tanti eroi anti-italiani in realtà italianissimo. Pur minacciato, subì dai fascisti diversi pestaggi, ma non emigrò né si arrese. Dopo l’aggressione più violenta, a Castelguglielmo, nel Rodigino, nel marzo 1921, gli fu impedito di mettere piede a Fratta fino alla morte. Da pragmatico aveva capito il fascismo prima di altri e propose, inascoltato, un fronte unito contro Mussolini. Antonio Gramsci, con disprezzo, lo definì «un pellegrino del nulla». Gli rimase addosso come un marchio. L’ostilità dei comunisti, unita alle divisioni tra socialisti e socialdemocratici, hanno accelerato l’oblio.

Anche il rapporto con la moglie Velia, lui ateo, lei religiosissima, sfocia nel romanzesco. Si scrissero, più che vivere insieme. La moglie voleva sposarsi in chiesa, lui si rifiutò. Trattarono fino alla sera prima, lei infine cedette. «Vieni, saremo felici lo stesso».

Poi ci sono i matteottiani. Un piccolo club. Tra i più illustri, il professor Stefano Caretti, già docente di Storia contemporanea a Siena, 77 anni di vigorosa energia, la sigaretta sempre accesa, un emiliano comme il faut. Simpatico, una sera mi telefona a mezzanotte e mezza, sto dormendo profondamente, «È ancora al giornale, vero? Sono appena uscito dall’Opera, ci vediamo domani allora, ah, stava dormendo? Oddio, disastro! disastro!». In sottofondo sento la moglie: «Te l’avevo detto di non chiamarlo a quest’ora!». Ha curato l’opera omnia e il carteggio tra Giacomo e Velia, oltre ad aver esplorato la complessità matteottiana in ogni piega. Insomma, Caretti sa tutto. «A metà degli anni Sessanta mio zio Bruno, che conosceva Giancarlo Matteotti, il figlio di Giacomo, allora deputato, me lo presentò a Fratta Polesine, insieme alla sorella, Isabella. “Ma non parlargli del padre! Non accennare mai al delitto!”. Il mio primo scritto risale al 1974, la voce Matteotti per il Dizionario del movimento operaio e socialista».

Cinquant’anni fa. «Eh. Mia moglie mi prende in giro. Elisabetta, com’è che mi dici ogni volta?». «Che sono la seconda vedova Matteotti», risponde la signora. Ne ridono.

Nei prossimi mesi usciranno valanghe di libri, si terranno conferenze, mostre, celebrazioni. Anche Caretti ha scritto un nuovo libro, con Marzio Breda, Matteotti. Il nemico di Mussolini, in uscita per Solferino.

Matteotti era diverso. Lo ha colto Gianpaolo Romanato, 76 anni, già professore di Storia contemporanea a Padova, che ha intitolato la sua biografia Vita di Giacomo Matteotti. Un italiano (Bompiani). Romanato, figlio di un ex parlamentare democristiano, Giuseppe, è originario di Fratta. Il suo interesse nasce dall’amore per il luogo. «I miei nonni, Adele e Luigi, maestri elementari, avevano conosciuto Matteotti. In tanti, anche tra i socialisti, pensarono inizialmente di addomesticare il fascismo, lui no». Sottolinea un altro storico, Giovanni Scirocco: «Con concretezza e coraggio difese fino all’ultimo il Parlamento».

Chiamo Franco Nero. Il delitto Matteotti aprì la mostra di Venezia, il 29 agosto 1973. Cosa ricorda? «Florestano Vancini faceva cinema civile come non se ne fa più. Ora comandano gli impiegati Rai o Mediaset che impongono di dire la loro persino sulla sceneggiatura». In tanti sono convinti che a recitare la parte di Matteotti sia stato Gian Maria Volonté, forse perché è la personificazione dell’attore civile. Nero aveva più l’aria del maschio latino che quella del parlamentare intransigente. «Invece sentivo la parte molto mia, ho amato Matteotti, un uomo che paga il suo coraggio con la vita». Non è strano che nessun’altro abbia sentito il bisogno di riportarlo sul grande schermo? «Vero, è strano».

«Mio nonno chi?»

Una piccola casa buia nel centro di Roma. Mi apre la porta una donna gentile di 61 anni. «In terza media la professoressa delle medie, alla Maria Mazzini, ai Parioli, mi disse: “Laura, parlaci di tuo nonno!” Io strabuzzai gli occhi. “Mio nonno?” Non sapevo di averne uno. “Mio nonno chi?”. Tornai a casa e lo dissi ai miei. Né mio padre né mia madre mi diedero risposta. Un silenzio di tomba accolse la mia richiesta».
Laura Matteotti, fotografa. Giacomo Matteotti era suo nonno e lei non lo sapeva. Non è incredibile?

«Eh! A casa nostra il tema è stato sempre rimosso, era parte del trauma che aveva vissuto mio padre, Matteo, il secondogenito di Giacomo Matteotti e Velia Titta. Non ne ha mai parlato. Non con me almeno. Quando morì, nel 2000, andai al funerale, a Fratta Polesine. Per la prima volta dormii nella casa dei nonni, una sensazione strana, stranissima e poi, siccome era giugno, e faceva caldissimo, mi presentai con un vestito bianco alle esequie, mentre gli altri erano vestiti di nero. Non conoscevo nessuno. Tutti mostravano invece di conoscermi. Ero una di loro. Centinaia di compagni che mi abbracciavano, mi salutavano, si inginocchiavano, mi mostravano i santini del nonno custoditi nei portafogli. Ero come una di famiglia. Avevo trentotto anni e ancora non sapevo tutta la storia di nonno Giacomo. Sì, è da non credere. Ed anche molto brutto».

Laura Matteotti porta come secondo nome Giacomina. «È come se l’omicidio del nonno fosse sempre con me. Un trauma. Credo fu così anche per i miei zii, mio zio Giancarlo fece scelte particolari, a un certo punto andò in Africa, zia Isabella soffrì di anoressia. Nonna Velia morì giovane, e rimasero soli. Nell’affetto dei militanti, certo, ma soli di fronte al lutto, alla mancanza».

Le scarpe dei ragazzi

Ritorno in via Pisanelli passando per il brutto monumento in Lungotevere Arnaldo da Brescia. L’anno scorso un ladro si portò via tutti i mazzi di fiori che erano stati deposti per la cerimonia del 10 giugno. Mi piace pensare al gesto dell’architetto Marocchi come a un atto di disubbidienza, visto che non ha chiesto il permesso a nessuno, nemmeno alla moglie.

Matteotti, braccato dai fascisti, qui vi visse come in incognito. Léon Blum scrisse che lo aveva pregato di non divulgare né l’indirizzo di casa né il numero di telefono. In via Pisanelli, dopo il delitto, i fascisti intonavano cori di scherno: “Con la carne di Matteotti ci faremo i salsicciotti”.

Marocchi ha rimuginato la sua scelta per molti anni. «Sa, un giorno degli anni Ottanta mia moglie tornò a casa e mi disse: “Ma lo sai che noi abitiamo nello stesso palazzo in cui abitò Matteotti?” Ma venga, salga da noi, così la conosce».

Nel salotto la signora Gabriella Niola, ex dirigente Rai, svela l’inizio della storia. «Da giovane portavo le scarpe da un ciabattino in via Avezzana, una strada perpendicolare a viale Mazzini. Si chiamava Velluti. Era un artigiano d’altri tempi. Vecchissimo, veniva ogni giorno a piedi da Santa Maria della Pietà. La sua bottega era una specie di salotto, dove i clienti si sedevano sulle sedie di paglia e facevano conversazione, ci potevi trovare pure la figlia del pittore Balla, Elica, un piccolo mondo eccentrico e colto. Un giorno gli diedi l’indirizzo di casa nostra, Velluti faceva anche consegne a domicilio, e lui ebbe un lampo: “Ma lo conosco quel palazzo! Riparavo le scarpe ai ragazzi di Matteotti!”».

Ora i due coniugi siedono in salotto e si rimandano i ricordi. «Non essendo io fascista ho voluto fissare così il mio antifascismo», ripete la sua convinzione l’architetto. «Ricordi che tu non volevi?», stuzzica la moglie. «Sì, avevo paura che qualche malintenzionato la sfregiasse, o peggio, ma sono sempre stata matteottiana anch’io», risponde lei, un po’ piccata.

Marocchi mi guarda divertito: «L’ho fatto e basta. Io le cose le faccio. Tutta la mia vita è stata così».

«Per non dimenticare»

Quindi questa è la storia di una smemoratezza collettiva.

«Col figlio Giancarlo divenni amico», racconta Stefano Caretti. «Non volle però mai parlare del delitto. Poi un giorno, poco prima di morire, nel 2006, mi chiese di accompagnarlo alla Quartarella, il bosco dov’era stato ritrovato il cadavere del padre. Non ci era mai andato. Faceva un caldo boia. Il monumento dalla strada non si vedeva, avvolto com’era dalle frasche e dal canneto, ovunque solo sterpi e rovi. Giancarlo non disse una sola parola. Spostando un rovo mi ritrovai in mano un biglietto attaccato a un garofano. Lo aveva lasciato lì un compagno quella mattina. C’era scritto: “Solo per non dimenticare”».

Sul Venerdì del 29 dicembre 2023

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