Quella pace che non si fece. Francesco Saverio Nitti e l’Italia del dopoguerra1
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Texte intégral
1Il movimentato passaggio dalla Grande guerra alla pace è spesso associato, in Italia, all’immagine del debole governo del liberale Francesco Saverio Nitti, in carica per uno scarso anno dal 23 giugno 1919 al 15 giugno 1920. Non poteva capitargli momento peggiore: tre crisi di governo, due ministeri rimpastati in appena un anno davano conto di una instabilità politica e sociale senza precedenti che scontava il peso di quattro anni di guerra ma anche la seduzione di quelli che egli definiva «due opposti miraggi»: la rivoluzione bolscevica e l’espansionismo nazionalista. Una situazione esplosiva per di più aggravata dall’imminenza della firma del Trattato di Versailles (sarebbe stato firmato il 28 giugno) che rinfocolava in Italia la polemica nazionalista sui temi della “vittoria mutilata” e del rinunciatarismo della delegazione italiana alla Conferenza di pace. Questo difficile esordio e la non meno problematica caduta del governo il giugno successivo sono ben noti e hanno veicolato l’immagine di un Nitti còlto di sorpresa dall’incalzare degli eventi del biennio rosso e dagli esiti politici del mito della “vittoria mutilata” e con essa l’idea di un’Italia deterministicamente destinata a soccombere al fascismo in piena fase movimentista perché incapace di dare risposte politiche2.
2Ma gli anni tra guerra e dopoguerra (1918-1921) sono più complessi. Essi furono determinanti rispetto al rapporto e alla metabolizzazione dell’esperienza di guerra appena vissuta dall’Italia; determinanti a tal punto da costruire quella straniante condizione del paese, unico tra le potenze ad aver vinto la guerra ma a comportarsi come se l’avesse perduta.
3Cosa era accaduto nel delicato passaggio tra la pace immaginata e la pace reale compiuto in quegli anni? Perché un politico e pensatore di lungo corso come Nitti – uomo di parlamento e di conciliazione – aveva deciso di bruciarsi nel tentativo di governare un paese ingovernabile?
4Un primo indizio di una possibile risposta può essere ravvisato in un leggero cambiamento di prospettiva che, dalla crisi politica interna del rapporto tra governo e società si sposta a considerare il disegno più ampio di un possibile riscatto del paese attraverso un virtuoso sfruttamento delle nuove condizioni di pace. Seguendo questa linea, assume un risalto centrale il contrastato rapporto dell’Italia con la Conferenza di pace e con i suoi risultati ad iniziare da quella curiosa condizione per cui Nitti, neopresidente del Consiglio nel giugno 1919, non firmò il trattato. Come egli stesso ricordò in seguito in più occasioni, infatti, esso fu siglato da Sonnino e dai suoi collaboratori. Nel 1924, lo stesso Nitti così spiegava:
Quando assunsi la direzione del governo italiano, in giugno del 1919, il mio primo atto avrebbe dovuto essere la ratifica del Trattato di Versailles il 26 (sic) giugno. Io conoscevo a fondo quell’abominevole trattato per averlo lungamente meditato e lo consideravo come la rovina d’Europa: non avevo nessuna parte nella sua preparazione né alcuna responsabilità […] La sorte voleva che toccasse proprio a me di firmare la ratifica di un atto che credevo rovinoso così per i vincitori che per i vinti, perché basato sulla violenza, sulla malafede, sullo spirito di rapina.3
5Escluso sei mesi prima dalla delegazione in partenza per la Conferenza a causa degli aperti e profondi contrasti con Sonnino, Nitti aveva lavorato fin dall’indomani dell’inattesa vittoria ad una idea di pace alternativa a quella del “sacro egoismo” che invece si preparava a guidare l’azione di Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino a Parigi4. In luogo della questione adriatica, giudicata anzi pericolosa per l’isolamento internazionale dell’Italia, il punto centrale di questa costruzione era il passaggio quanto più ammortizzato possibile all’economia di pace visto come solo antidoto contro la rivoluzione sociale interna e il rilancio dell’Italia in una dimensione internazionale di collaborazione con gli alleati, nella convinzione che l’Italia non potesse riprendersi che in un quadro di cooperazione internazionale e principalmente con il sostegno economico americano.
6Le radici di questa impostazione vanno ricercate indietro di qualche anno, nel modo stesso in cui Nitti aveva vissuto e concepito la guerra, quasi come se una diversa idea di pace fosse figlia di una diversa concezione della guerra. Benché nelle “giornate di maggio” egli avesse esortato i suoi elettori meridionali a sostenere lo sforzo bellico a fianco della Triplice Intesa risultando un utile collante delle diverse realtà del paese, nelle riflessioni di Nitti sul conflitto emergeva un pensiero originale e antitetico rispetto alla posizione governativa espressa da Antonio Salandra e, in seguito, da Orlando.
7Come già nel 1916 aveva organicamente esposto nel noto discorso agli elettori di Muro Lucano, il punto centrale della guerra non erano le aspirazioni di completamento dell’unità territoriale che sembravano non toccarlo né come obiettivo politico né come aspirazione ideale, quanto piuttosto la preparazione di quelle possibili linee di sviluppo economico e industriale che avrebbero potuto giovare all’Italia nel mutato contesto globale postbellico e che comprendevano oltre allo sviluppo della produzione e pieno impiego della mano d’opera anche un incremento espansivo del capitale italiano. «Bisogna – affermava ad esempio già nel 1915 – approfittando della situazione che si è determinata, renderci economicamente e industrialmente liberi dagli stranieri, soprattutto dalla Germania»5 e non solo: una forte riduzione dell’influenza del capitale tedesco doveva essere bilanciata dalla costruzione di un nuovo asse economico-finanziario con gli Stati Uniti6 e, soprattutto, da un cambiamento di “sfere di influenza” economiche.
8Tradotto in termini politici, alle ragioni del “sacro egoismo” andavano contrapposte quelle di solide e necessarie alleanze che fugassero per l’Italia qualsiasi pericolo di isolamento presente e futuro. Non era l’ultima guerra del Risorgimento quella a cui guardava Nitti quanto piuttosto un grande conflitto foriero di mutamenti globali. Per questo motivo, egli intravide nell’intervento in guerra degli Stati Uniti una svolta cruciale che offriva alla sua concezione politica l’occasione di trasformarsi in realtà o almeno di ergersi a possibile contraltare della visione sonniniana ostinatamente ed esclusivamente concentrata su una condotta di guerra che puntasse a realizzare l’agognata condizione del dominio strategico dell’Adriatico. Per di più, nel corso delle conferenze interalleate svoltesi a Parigi tra il 1917 ed il 1918, questi obiettivi sembravano convergere con le ansie dell’alleato francese (complice la recente elezione di Georges Clemenceau) sul futuro assetto territoriale dell’Europa rafforzando il blocco del nazionalismo espansionista. Per questo motivo, nell’estate del 1917 Nitti scriveva a Sonnino:
Io spero che nella conferenza tra gli alleati si giunga ad una più grande unione e comunione di propositi. Sopra tutto io spero che vi occuperete poco dell’assetto dell’Europa dopo la guerra e molto di queste domande brevi e semplici: è possibile per i popoli dell’Intesa vincere la guerra? E a quali condizioni è possibile vincerla?
Io reputo poco importante intendersi sui futuri domini e sulle future conquiste, molto sulle condizioni di esistenza.7
9La ricetta da seguire a misura che la guerra diveniva un’unica realtà totalizzante non esitava a darla egli stesso quando, poche righe più avanti, affermava: «occorre all’interno di ogni Stato dell’Intesa ridurre i consumi quanto più possibile e soprattutto quanto più possibile aumentare la produzione agraria. Finisca o non finisca la guerra noi siamo minacciati dalla pace e dalla rivoluzione»8; una politica che dall’ottobre del 1917, da nuovo ministro del Tesoro del governo Orlando, avrebbe egli stesso imposto in Italia con la consapevolezza di un fronte interno prossimo alla prostrazione9.
10Il 1917, l’anno della rivoluzione e della crisi del fronte interno fu però per Nitti l’anno americano. Nella potenza associata egli vedeva non solo un necessario contro bilanciamento dell’asse Sonnino - alleati francesi e una forza fresca a supporto dello sforzo bellico, ma anche una prospettiva per un prospero sviluppo dell’Italia nel dopoguerra, ossia – come si accennava – la sostituzione dei capitali americani a quelli tedeschi. Soprattutto però, fu il viaggio a Washington a seguito di una missione diplomatica italiana che, a prescindere dai magri risultati ottenuti e dal bilancio sul quale non è possibile soffermarsi in questa sede10, convinse Nitti dell’assoluta necessità, nella prospettiva della preparazione della pace, di concentrarsi sulla politica estera intesa come chiave di volta per la pacificazione della situazione interna, considerazione che avrebbe poi raggiunto il suo acme nei mesi della questione di Fiume.
11Nell’immediato, e soprattutto dopo la rotta di Caporetto, questa sorta di atlantismo ante litteram era necessario alla ripresa economica del paese che con la sconfitta aveva palesato tutta la sua intrinseca debolezza non solo militare ma anche strutturale e politica11. E di più, doveva essere sostegno imprescindibile di qualsiasi piano di offensiva insieme ad una solidarietà tra gli alleati orientata a quella che lui considerava una difficile vittoria.
12Progressivamente, tutti questi elementi andavano a costruire, proprio attraverso la gestione politica del conflitto, la prospettiva di una pace che Nitti credeva non solo giusta ma anche efficace. In questo senso, fu l’ultimo anno di guerra, quello in cui Nitti condizionò l’attività di governo più di quanto si creda, a restituire gli elementi ideali forse più importanti. Il terribile inverno del 1918 senza grano e senza carbone aveva reso sempre più reale l’ipotesi di una crisi sociale e in Nitti andava aumentando il timore dei movimenti rivoluzionari, di un possibile contagio bolscevico generato dalla crisi materiale. Due problemi indissolubili e due facce di una stessa medaglia la cui soluzione risiedeva elusivamente in una pace negoziata tra vinti e vincitori e in una efficace gestione del delicato momento dell’uscita dalla guerra. Sul piano bellico, poi, il ministro del Tesoro era convinto assertore della difficoltà di una rapida vittoria dell’Intesa, dell’inopportunità di qualunque tentativo di offensiva verso le posizioni austriache e della necessità che l’Italia si attestasse su posizioni difensive in attesa di supporti militari e materiali alleati o di trattative diplomatiche che mettessero fine al conflitto.
13Per l’insieme di queste considerazioni, già nei mesi precedenti l’armistizio Nitti puntava ad una rapida apertura di trattative di pace che naturalmente coinvolgessero tutti i paesi belligeranti; non una pace immediata, dunque, né una pace separata, ma una proposta basata sulla cooperazione internazionale, sulla collaborazione sociale all’interno. Al centro di questa costruzione ideale c’erano l’Europa e le preoccupazioni per il crescente disagio dovuto ad una prospettiva di pace che in realtà sembrava voler perpetrare lo stato di guerra. I due fattori lo spingevano a scrivere:
Perché l’Europa è in tanto disordine economico? Perché il disordine delle idee morali perdura. In quasi tutti i paesi i nervi non si sono ancora distesi e si parla il linguaggio dell’odio. La guerra, per qualche paese come per qualche gruppo sociale, è ancora un’impresa. Si ragiona ora in quei paesi vincitori come si ragionava in Germania prima della guerra e durante le prime fasi della guerra; solo qualche volta si citano, ma piuttosto per consuetudine, che non si vuol far decadere, le parole di giustizia, di pace e di democrazia. Perché il disagio aumenta? Perché quasi ovunque nell’Europa continentale, nei paesi usciti dalla guerra, la produzione è inferiore al consumo e molti gruppi sociali concepiscono non di produrre di più, ma di prendere con la violenza la ricchezza prodotta dagli altri. All’interno sono minacciate le classi sociali che non sanno resistere; all’esterno sono minacciati i vinti che non possono resistere, ma nella minaccia è piuttosto l’ansia dei vincitori. Così aumentano il disordine e il disagio. Il problema dell’Europa è sopra tutto un problema morale.12
14Verso questo progetto, dal giugno del 1919, fu orientato con determinazione il programma del neonato governo Nitti in Italia che sostituiva l’esecutivo di Orlando, caduto sotto i contraccolpi delle trattative della delegazione italiana a Versailles. Nonostante la congiuntura difficile – iniziava l’agitazione per Fiume, bisognava ratificare il Trattato di Versailles mentre quello con l’Austria-Ungheria subiva continui ritardi – l’occasione sembrò a Nitti propizia per tradurre in azione politica le idee tanto a lungo meditate. Nel lungo elenco delle priorità, dunque, figuravano la liquidazione delle pesanti eredità belliche in politica interna (in questo contesto si possono collocare ad esempio l’inchiesta su Caporetto e l’amnistia per i reati di guerra), una riorganizzazione della politica economica orientata a produrre di più e a consumare di meno nella speranza di legare una prossima ripresa espansiva del capitalismo italiano a quella che egli considerava ormai la potenza dominante dell’universo capitalistico, gli Stati Uniti, e in politica estera una condotta volta ad evitare qualsiasi motivo di rottura con gli alleati. Non figurava invece Fiume benché la questione fosse per il governo Nitti un impegnativo banco di prova che il presidente e il nuovo ministro degli Esteri Tommaso Tittoni avevano provato a risolvere d’intesa con gli alleati e nel quadro di una soluzione più generale alla questione adriatica. Infatti, nella sua ottica, la questione derivava da un errore tanto banale quanto imperdonabile che aveva precluso alla delegazione italiana a Parigi la possibilità di avere un ruolo più importante e propositivo all’interno del Consiglio dei Quattro. In uno dei tanti severi giudizi sull’operato di Sonnino e Orlando avrebbe scritto più tardi:
Durante la Conferenza di Parigi i rappresentanti dell’Italia si disinteressarono di quasi tutti i problemi che riguardavano la pace dell’Europa, la situazione dei popoli vinti, la distribuzione delle materie prime, l’ordinamento dei nuovi Stati e i loro rapporti col vincitore, per concentrare lo sforzo sulla questione di Fiume, cioè su un punto in cui l’azione dell’Italia aveva una fondamentale debolezza, in quanto, libera di entrare in guerra e di dettare le condizioni di pace, all’Intesa (che non aveva allora il prezioso concorso degli Stati Uniti di America e che cominciava a dubitare della resistenza della Russia) non aveva nemmeno richiesto Fiume, e aveva, per inesplicabile errore, taciuto del trattato agli Stati Uniti d’America il giorno in cui avevano partecipato alla guerra e alla Serbia il giorno in cui lo sforzo dell’Italia aveva più contribuito a soccorrerla.13
15Il 13 settembre del 1919, però, la spedizione di D’Annunzio a Fiume vanificò tutti gli sforzi politici fino ad allora compiuti da Nitti e Tittoni e, soprattutto, agì come acceleratore trasformando questo punto debole nell’emblema della crisi politica e identitaria del paese. Complice anche una perdurante crisi sociale, in larghi strati dell’opinione pubblica italiana si faceva spazio l’idea di un paese maltrattato dagli alleati che doveva farsi giustizia da sé, anche sdoganando l’idea della preminenza dell’uso della forza sul diritto.
16Non senza tribolazioni, proprio sotto gli occhi di un Nitti per il quale il colpo di mano di D’Annunzio non faceva che confermare «lo spirito di violenza imperialistica del popolo italiano»14, l’Italia si preparava a compiere il decisivo passo tra l’interpretazione di una pace da paese vincitore e la fondazione del mito della “vittoria mutilata”. Ma se, a pochi mesi dall’insediamento del suo governo, in patria tutto sembrava lavorare contro il progetto di conciliazione sostenuto da Nitti, in Europa era ancora il tempo dell’ultima chanche del liberalismo parlamentare e forse si poteva tentare proprio attraverso quella via di riportare nuova linfa anche nella politica nazionale.
17Il trattato con la Germania, pensava Nitti, presentava punti (le riparazioni, la clausola della colpevolezza) moralmente e politicamente eccepibili e risoluzioni foriere di terribili effetti per il nuovo equilibrio mondiale del tempo di pace. In linea con le idee a lungo meditate già negli anni di guerra, anche nelle contingenze dell’impresa di Fiume erano queste le priorità politiche che maggiormente interessavano e preoccupavano Nitti: «Non esiste più un problema nazionale, ma un problema europeo»15. Così aveva affermato alla Camera nel marzo 1920 inaugurando in un certo senso il tempo del fare, il tempo cioè di occuparsi personalmente del rilancio dell’Italia «qual potenza vittoriosa» in Europa ben oltre la ricerca di un accordo per Fiume. Per quest’ultimo, dopo le trattative del ministro degli Esteri Tommaso Tittoni per un’intesa con gli alleati naufragate a causa dell’impresa dannunziana, si lavorava ad una soluzione interessante: una trattativa diretta con gli jugoslavi che avrebbe permesso di superare l’impasse della necessaria applicazione del Patto di Londra.
18Dal principio del 1920, infatti, Nitti aveva deciso di partecipare di persona alle riunioni del Consiglio supremo per la pace a Parigi e a Londra per affrontare gli urgenti problemi della rifondazione dell’equilibrio internazionale. Nelle nuove condizioni determinate dalla scelta isolazionista degli Stati Uniti dopo la mancata ratifica del Trattato di Versailles e il rifiuto a far parte della Società delle Nazioni, la chiave di vòlta dell’intero sistema di pace sembrava il consolidamento dei legami europei secondo uno spirito di rinnovata collaborazione che, però, trovava un limite evidente nel modo stesso in cui erano stati concepiti i trattati di pace. Ritornando su un concetto poi espresso in più sedi, infatti, Nitti scriveva in un articolo per la United Press:
Per effetto dei trattati l’Europa è stata divisa in due parti di cui una inerme e senza materie prime, senza navi, senza colonie, senza territori e senza organizzazione commerciale all’estero, dovrebbe pagare enormi indennità a quei poveri vincitori che dichiarano per proprio conto di non poter pagare non solo i debiti ma gli interessi dei debiti agli Stati Uniti d’America e alla Gran Bretagna.16
19Si andava imponendo quel concetto di “pace di guerra” che avrebbe accompagnato negli anni successivi la produzione saggistica di Nitti, incentrato sulla ferma opposizione alla pace cartaginese voluta dalla Francia per annientare la potenza tedesca e considerato l’anticamera della rovina europea. Non si trattava di un’idea nuova né isolata poiché, sancendo l’insostenibilità delle riparazioni imposte alla Germania, Nitti sposava in pieno le tesi esposte da Keynes nel saggio Le conseguenze economiche della pace scritto di getto dopo le sue dimissioni da primo delegato del Ministero del Tesoro britannico alla Conferenza di pace. Ma per Nitti la questione era anche – e forse in quel momento soprattutto – politica, perché il Trattato di Versailles continuava la guerra invece che preparare la pace. Conseguenza delle riparazioni e della mortificazione economica e politica della Germania poteva essere ad esempio spingere il paese nelle braccia del bolscevismo e, d’altronde, il pericolo della diffusione di quest’ultimo non si arginava se non con l’inclusione della nuova Russia nel sistema delle relazioni e degli scambi europei. L’idea centrale di Nitti – esposta in seguito a più riprese – era quindi che la ricostruzione europea dipendeva da un equo trattamento della Germania e da una ripresa delle relazioni e dei traffici con la Russia bolscevica17. Urgente, insomma, appariva il superamento in Europa dell’antitesi tra vincitori e vinti e lavorare invece alla costruzione di una nuova solidarietà europea – per certi versi inedita – fondata sull’espansione della libertà e della democrazia nel quadro, naturalmente, di un capitalismo rinnovato. A muovere le riflessioni nittiane era una fede assoluta nello sviluppo pacifico delle società europee che si sarebbe tentati di ricondurre ad una nostalgia da politico prebellico sedotto dal mito del progresso della civiltà europea incentrato appunto sull’inedita condizione di pace e sviluppo economico. Si sbaglierebbe però a liquidare così la questione.
20Come egli stesso ricordò18, gli fu immediatamente rimproverato di essere «le premier homme d’État éminent à proposer la révision», mentre Keynes nel 1922 non esitava a scrivergli a proposito del saggio L’Europa senza pace19 sottolineando l’importanza politica di aver scritto con la stessa schiettezza e fermezza usata nell’azione di governo. Ed appunto qui sta forse la principale distinzione con l’economista inglese: Nitti non era solo un pensatore politico ma uno statista che aveva, pur con le cautele più volte espresse, partecipato alla costruzione del processo di pace. È un dato inappuntabile che questo saggio che Nitti andava elaborando era un attacco frontale al sistema dei trattati di pace attraverso un primo tentativo revisionista basato, al contrario di quelli successivi di Mustafa Kemal e Benito Mussolini, su principî apertamente democratici e liberali. «Niuna persona giusta dubita della profonda ingiustizia del Trattato di Versailles – scriveva ne L’Europa senza pace – […] la convinzione che si va determinando, anche nelle menti più chiuse, che i trattati sono inapplicabili se sono dannosi ai vinti e del pari una minaccia per i vincitori»20.
21La necessità di revisionismo, non semplice bandiera di agitazione politica ma progetto operativo per una ricostruzione europea in grado di sfuggire a tentativi egemonici come quello in atto ad opera della Francia, sembrava a Nitti un’urgenza dell’ora presente che meritava un’analisi e delle soluzioni a tutto tondo: ammissione di tutti gli Stati alla Società delle Nazioni e trasferimento dei compiti della Commissione delle riparazioni – che Nitti definisce «un’assurda unione di vincitori non più alleati tra loro ma riuniti solo in una procedura fallimentare»21 – ad una SDN riformata nell’art. 5 e 10 perché non fosse «espressione di violenza del gruppo vincitore». Solo in seguito a ciò, argomentava, poteva essere possibile una seria revisione dei trattati prendendo in conto i punti seguenti: garanzie di sicurezza territoriali e militari per la Francia; sistemazione dei debiti interalleati (ne proponeva in effetti la cancellazione), riconsiderazione delle indennità della Germania e dei paesi vinti; necessaria ripresa dei rapporti con la Russia. Problemi che, come Keynes, egli vedeva strettamente connessi.
22Come dimostrerà al momento dell’organizzazione della Conferenza di Sanremo, l’ambizione di Nitti era quella di svolgere un ruolo da protagonista nella risistemazione degli assetti della vera pace. «L’Europa – scriveva nella prefazione alla prima edizione de L’Europa senza pace nel 1921 – attende quella pace che non si fece […] Gli uomini di Stato sono i maggiori responsabili di aver continuato il linguaggio della violenza; essi fra i primi dovrebbero cominciare a parlare il linguaggio della pace»22. Come in un gioco di scatole cinesi, occuparsi di questa risistemazione del mondo significava lavorare in definitiva al rilancio economico e politico dell’Italia promossa magari all’inedito ruolo di protagonista della politica internazionale. Si trattava di una necessità connaturata alla natura sia geografica che economica del paese. Ma dove era l’Italia mentre egli si assumeva il compito di attribuirle un inedito ruolo di rilievo internazionale?
23Gli orizzonti di pace e di accordo prefigurati da Nitti apparivano quasi fuori tempo in un momento in cui le forze sociali come quelle politiche ed economiche prediligevano il linguaggio e l’azione della violenza e dello scontro politico. Con una certa ironia, l’azione internazionale di Nitti prendeva corpo e si svolgeva proprio mentre l’impresa dannunziana si rivelava qualcosa di più che un colpo di testa e si trasformava in una crisi interna che indeboliva indirettamente l’operato del Presidente all’estero. Come se non bastasse, gli interpreti di posizioni più radicali – gli opposti miraggi come li definiva Nitti – sembravano interpretare meglio o almeno in maniera più immediata e radicale le esigenze di superamento di un doloroso passato. I giorni della visita del cancelliere austriaco Renner cui Nitti aveva affidato molto del valore simbolico della possibile riconciliazione tra vincitori e vinti, erano gli stessi in cui si imponeva la lacerante questione dell’occupazione delle fabbriche, quelli della Conferenza di Sanremo erano funestati dalle agitazioni sociali e sul governo si abbatteva l’accusa della repressione armata così come la responsabilità dell’indebolimento statale. Era la “crisi organica” per la quale un pensatore come Gramsci non vedeva che due soluzioni radicali: o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario o la tremenda reazione da parte dei proprietari e della casta governativa23. In un simile clima, aggravato da un nuovo aumento del prezzo del pane, il secondo esecutivo Nitti formatosi il 21 maggio 1920 fu condannato a breve durata decretando al contempo l’uscita di Nitti dalla scena politica e l’avvicinamento dell’Italia ad una nuova identità revanchista. Con la caduta del governo il 10 giugno 1920 terminava bruscamente il tempo del fare lasciando senza conclusione anche il più ambizioso disegno di politica internazionale. L’epilogo sembra in qualche modo accreditare il giudizio spesso diffuso di una incapacità di cogliere l’impatto dei nuovi ideali che animavano la pancia e il cuore del popolo italiano che condussero Nitti a minimizzare il movimento fascista iniziale e a sottovalutarne la portata. Una sottovalutazione a volte addirittura interpretata come indulgenza.
24Ma quanto sono venuta dicendo può contribuire a illuminare meglio anche questo punto. In concomitanza con l’ingresso dei fascisti nel gioco politico nel 1921 Nitti scelse il ritiro nella quiete di Acquafredda dove «al cospetto del mare» iniziò a lavorare alacremente a quello che sarebbe divenuto un primo ciclo di opere incentrate sulla decadenza dell’Europa e sui possibili antidoti: L’Europa senza pace (1921), La decadenza dell’Europa (1922), La tragedia dell’Europa. Che farà l’America? (1923)24. Con lo sguardo e il pensiero sempre rivolto a «quella pace che non si fece» egli continuava a dialogare con l’Europa a beneficio della sua opinione pubblica e di quella americana insistendo sul dato che una sistemazione democratica, pacifica e aperta alla libertà dei traffici con l’Europa era un’assoluta necessità per l’Italia «di vita e di sviluppo». Per l’Italia, valeva dunque a maggior ragione il discorso fatto per l’Europa compresi i suoi presupposti di democrazia e libertà. Nel rispetto di questa costruzione a lungo lavorata, quindi, ancora a pochi mesi dalla Marcia su Roma egli si dichiarava effettivamente persuaso di una prossima fase positiva per la politica del paese, forse anche perché gli appariva inconcepibile che una forza politica responsabile potesse intraprendere una politica naturalmente contraria agli interessi del paese25.
25Ma i veri conti col fascismo erano solo rinviati. Un secondo ciclo di opere (La Pace, La Libertà e Bolscevismo, fascismo e democrazia)26 dovevano vedere la luce tra il 1924 ed il 1927 in un contesto politico ben diverso a cominciare dalla nuova condizione di esiliato politico dell’autore per finire ad un contesto intellettuale e politico di necessario schieramento contro il fascismo: La Pace, ad esempio, uscì nello stesso periodo dei due manifesti, quello degli intellettuali fascisti di Giovanni Gentile e la risposta degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Per Nitti, le tre opere sono frutto di una profonda crisi di fiducia, di una disillusione, potremmo dire, circa il potere reattivo delle classi dirigenti liberali. Ne deriva anche una diversa interpretazione del passaggio tra guerra e pace, inteso ora come causa di una crisi del liberalismo che, però, Nitti giudicava ancora passeggera. Ne La libertà teorizzava che la guerra aveva provocato la crisi della democrazia e della libertà. Non solo la guerra ma anche i trattati di pace avevano aperto le porte alla «semplice conquista dello Stato da parte di una minoranza armata, che proclama idee in completo contrasto con quelle con cui ha lottato tutta la sua esistenza»27, di forze però sofferenti di una certa mancanza di identità che le avrebbe rese transitorie. Il vero problema ai suoi occhi, invece, era e rimaneva quello che il continuo disordine avrebbe provocato in Europa una crescita della disuguaglianza sociale unita ad un inesorabile declino economico.
26In linea con le idee portate avanti negli ultimi anni, dunque, la fiducia rimaneva incrollabile nel ritorno di un regime liberale che – lo enuncia con dovizia di particolari in Bolscevismo, fascismo e democrazia – conviene di gran lunga di più alla borghesia italiana perché garanzia di uno sviluppo ordinato e pacifico della società moderna. E su questa via si spingeva anche ad abbracciare un futuro europeismo sulle idee di Coudenhove-Kalergi.
27Benché del tutto errate rispetto alla realtà che si andava profilando, le analisi di Nitti avevano l’estremo ottimistico fine di operare sugli orientamenti politici della borghesia per staccarla dal fascismo. Ma, nell’immediato, una realtà ben diversa si imponeva anche sul piano biografico: l’esilio, che era sembrata la sola via di salvezza nel 1924, era destinato a concludersi dopo punte estremamente drammatiche solo nel 1945 al momento della rifondazione di una nuova Italia che forse, con più lucidità, poteva attingere alle sue riflessioni.
Bibliographie
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Notes de bas de page
1 Le riflessioni del presente contributo sono state successivamente approfondite ed elaborate nel testo F. Canale Cama, Quella pace che non si fece. Francesco Saverio Nitti e la pace tra Europa e Mediterraneo (1919-1922), Rubbettino, Soveria Mannelli, 2020.
2 Come è noto, il governo e la stessa figura di Francesco Saverio Nitti hanno a lungo subìto la severa critica degli storici e il giudizio intransigente dei coevi. Solo agli inizi degli anni Ottanta, la biografia scritta da Francesco Barbagallo rappresentò una svolta significativa per una riconsiderazione critica di Nitti, soprattutto nel difficile frangente del passaggio tra guerra e pace e della transizione tra Italia liberale e fascismo. Cfr. Barbagallo (1984). Più recentemente, molti temi del pensiero e della politica nittiana sono stati riaffrontati in Barbagallo-Barucci (2010).
3 Nitti (1924), p. 10 e ss. Sul complesso rapporto tra Nitti e la Conferenza di pace si vedano anche le annotazioni di G. Sabbatucci, Al governo e alla Conferenza della pace, in Barbagallo-Barucci (2010), pp. 53-62.
4 La posizione di Sonnino sulle condizioni di una pace durevole era già stata delineata tra il 1916 ed il 1917 quando presero corpo i primi tentativi di pace con gli imperi centrali. Si veda a tal proposito il discorso pronunciato alla Camera dei Deputati il 18 dicembre 1916 e poi pubblicato in Sidney Sonnino, Discorso sulle proposte di pace fatte agli imperi centrali, Tip. Palatina, Torino 1916; Id., Le sole condizioni possibili per una pace durevole, Istituto geografico De Agostini, Novara 1917. La recente storiografia italiana sulla Conferenza di pace di Parigi non si sofferma molto sull’attività e sulla posizione della delegazione italiana a Versailles, nonostante sia spesso evocata come determinante per gli sviluppi successivi della politica nazionale. Si veda ad esempio Cardini-Valzania (2018), che si concentra su una disamina aspramente critica del ruolo e della figura di Wilson trascurando il tema della politica intransigente e nazionalista di Sonnino e Orlando. Si veda anche Scottà (2003), dove nessun saggio è dedicato al tema dell’Italia a Versailles. Poco spazio, del resto, è dedicato all’Italia nell’ormai classico MacMillan (2006), dove la questione italiana viene ridotta ad un solo capitolo (L’Italia si ritira, pp. 357-90). Sul piano delle memorie, un utile contributo sull’argomento è dato da Crespi (1937), dove l’attività della delegazione è seguita nel suo farsi quotidiano.
5 Nitti (1915), p. 60.
6 Nitti (1916). Queste considerazioni espresse nel 1916 rappresentarono il nucleo di una duratura interpretazione della guerra e, di conseguenza, della pace. Solo una convinzione, infatti, muterà da queste contingenze a quelle del dopoguerra: quella della responsabilità bellica della Germania qui espressa con particolare durezza. Sull’insieme delle questioni belliche nel pensiero e nell’azione politica di Nitti resta sempre indispensabile il classico Monticone (1961).
7 Lettera di Nitti a Sonnino, 23 luglio 1917, ivi, p. 372 e ss. A dimostrazione di quanto “molto poco” fosse importante per Nitti la questione dei domini, è interessante notare alcune pagine più avanti la proposta di favorire un intervento giapponese in Europa (30 o 40 Divisioni secondo Nitti), compensandolo con la promessa della futura acquisizione dell’Indocina francese: «la Francia ha oltre 12 milioni di chilometri quadrati di colonie. Che cosa deve farne se non ha aumento della popolazione? Nella guerra attuale la Francia ha perduto oltre un milione e mezzo di uomini, senza tener conto di ciò che è accaduto nei paesi invasi. Non è meglio sacrificare qualche colonia per far finire al più presto la guerra? L’Indocina francese in tutto o in parte (Cocincina, Annam,Tonchino) potrebbe essere materia di compromesso. Anche l’Inghilterra potrebbe senza difficoltà fare qualche sacrificio». Ivi, p. 375. Sui rapporti interalleati cfr. anche Barbagallo (1984), p. 228 e ss.
8 Ivi, p. 376.
9 Su questa difficile congiuntura, che lo stesso Nitti definirà nel giugno 1918 «un regime quasi comunista», cfr. Cento (2017), in particolare pp. 164-194.
10 Sull’argomento cfr. Monticone (1961), p. 67 e ss.
11 Su questo punto cfr. Cento (2017) e Monticone (1961).
12 Nitti (2014), p. 18.
13 Ivi, p. 59. Sulla politica di Nitti nel decisivo frangente dell’impresa di Fiume e in generale sulla questione adriatica nella complessa transizione alla pace si veda Alatri (1959) e Cattaruzza (2014).
14 Alatri (1959), p. 200.
15 Nitti (1975), vol. IV, p. 1967.
16 Id., Dopo la conferenza di Genova, in P. Alatri, Europa e sistema europeo in 22 articoli inediti di F.S. Nitti, in «Rivista di Studi Politici Internazionali», vol. 48, n. 3 (191) luglio settembre 1981, pp. 375-94, cit. p. 386. La collaborazione di Nitti con la United Press rappresentò un volano per la diffusione delle idee di Nitti al grande pubblico mondiale e il momento del formarsi di un primo nucleo di idee che vedranno poi sviluppo più organico nella trilogia di saggi scritti tra il 1921 ed il 1923 (L’Europa senza pace, La decadenza dell’Europa, La tragedia dell’Europa).
17 Soprattutto su quest’ultimo punto, la ferma convinzione ideale di Nitti circa il reinserimento della Russia nel sistema delle relazioni internazionali si sposò ad un’intensa attività politica volta al riconoscimento del nuovo sistema sorto in Russia con la rivoluzione. Sull’argomento si veda Serra (1975).
18 Nitti (1961), p. 161 nota.
19 Pubblicato nel 1921, vale a dire dopo la conclusione dell’esperienza di governo, lo scritto L’Europa senza pace si configurava come il manifesto del revisionismo democratico nittiano: una trattazione organica, dalle origini agli esiti dei trattati, del processo di pace e delle sue insidie. Ma anche una proposta per la ricostruzione dell’Europa dopo la guerra e una giusta politica di pace che metta a riparo dalle due insidie che Nitti vede come minaccia dell’Europa e degli equilibri mondiali: nazionalismo aggressivo ed espansionismo egemonico. Preceduto da alcune decine di articoli (quelli appunto scritti tra il 1921 ed il 1922 per la United Press) e diretto ad un pubblico di cólti o di addetti ai lavori, lo scritto ebbe in un anno 22 traduzioni nelle lingue europee e anche in turco e in giapponese. Sulla gestazione e il contesto dell’opera si veda Barbagallo (1984), p. 424 e ss.
20 Nitti (2014), p. 153.
21 Ivi, p. 156.
22 Ivi, pp. 15-19.
23 A. Gramsci, Superstizione e realtà, in Gramsci (1973), pp. 109-15.
24 I tre scritti sono raccolti in Nitti (1959).
25 Si veda su questo Barbagallo (1984).
26 Questo secondo ciclo di opere era stato scritto (anche in concomitanza con i diversi tentativi di proporlo come premio Nobel per la Pace tra il 1922 ed il 1926) per un pubblico generico, per «le grandi masse di lavoratori, coloro che hanno fatto la guerra senza averla voluta». I tre testi, preceduti da una prefazione di Gabriele De Rosa si trovano raccolti in Nitti (1961). Si vedano anche le più recenti ristampe, entrambe del 2012: La pace, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, con postfazione di Gert Sørensen, e La Libertà, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, con postfazione di Luigi Musella.
27 Nitti (1961), p. 134. Sull’interpretazione del Fascismo si vedano anche le pp. 135-50.
Auteur
È professore associato presso il dipartimento di Studi sociali “Jean Monnet” dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”. Ha dedicato ampio spazio ai temi del socialismo e del pacifismo nella Grande Guerra e al Novecento euro-mediterraneo. Tra i suoi titoli si menzionano: Alla prova del fuoco. Socialisti francesi ed italiani di fronte alla Prima guerra mondiale (Guida, 2007); Sull’ orlo dell’abisso. Jean Jaurès e la guerra (Guida, 2009); La pace dei liberi e dei forti. Le reti di pace di Ernesto Teodoro Moneta (BUP, 2012). Su temi euro-mediterranei ha pubblicato Storia del Mediterraneo moderno e contemporaneo (Guida, 2017). Su temi di grande divulgazione ha curato per la collana “Grandangolo” del «Corriere della Sera»-Rizzoli il volume Grande Guerra. Nell’ambito delle celebrazioni per il Centenario della Grande Guerra è stata membro del Comitato nazionale per le celebrazioni dei 100 anni del governo Nitti e del Centenario dell’avvio della Conferenza di Pace di Parigi.
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