Il dipinto, la cui disamina non ha trovato sempre concorde la critica, all’epoca del governo di Maria Luigia venne collocato nel Palazzo del Giardino (1834) e dopo le spoliazioni dei Savoia passò alla Biblioteca Palatina (1868) che lo cedette nel 1887 alla Galleria Nazionale.
Le sembianze del personaggio raffigurato sono indubbiamente quelle della duchessa di Parma l’Infanta Elisabetta di Borbone, detta “Babet”, figlia primogenita e prediletta di Luigi XV di Francia e di Maria Leczynska, che nel 1739 sposò Don Filippo di Spagna, secondogenito di Elisabetta Farnese e di Filippo V.
La sua immagine, dai caratteri somatici ben marcati, è raffigurata in vari ritratti, specie di Nattier, che dedicò alle principesse di Francia molte tele.

Il ritratto tuttavia, a differenza della sola testa, può essere considerato nell’organizzazione figurativa, compreso anche il cane, una copia del ritratto da parata della regina Maria Leszczynska, madre di Elisabetta, dipinto nel 1747 da Carle van Loo e conservato a Versailles.
Di quest’ultima tela esistono altre repliche, una delle quali leggermente ridotta, mancante del busto di Luigi XV sul lato a sinistra, commissionata a van Loo dalla stessa regina per la figlia Elisabetta, e ora custodita a Palazzo Pitti (Rosenberg 1977, p. 190), giunta a Firenze tra il 1860 e il 1870, proveniente dalle collezioni ducali parmensi, dove era approdata dopo essere stata inviata alla Corte di Spagna.

Questa attinenza compositiva ha convinto la maggior parte degli studiosi della pittura del ’700 ad assegnare al van Loo, Charles-André, detto Carle, rappresentante di una celebre dinastia di pittori (Rosenberg 1979c, p. 166) anche il ritratto di Babet, tanto più che all’improvvisa morte della duchessa, avvenuta a Versailles nel 1759, presso lo studio del “signor Van Loo” era rimasta una sua “testa” che Claude Bonnet, tesoriere dei duchi, su incarico del ministro Du Tillot, ebbe il compito di recuperare e di inviare a Parma (Bédárida 1986, p. 492). Ritratto incompiuto che – come ebbe da precisare Bonnet – se fosse stato a figura intera avrebbe avuto un costo di 6000 lire, mentre la sola testa originale, che lui senza alcuna difficoltà ottenne da van Loo, dopo che Madame Adelaide, sorella della defunta Elisabetta, se ne fece fare una copia, gli costò solo 25 luigi. Chi della famiglia van Loo era però il pittore che stava eseguendo il ritratto della duchessa? Bonnet scrisse che era “il fratello di Carle Vanloo, quello che ha fama di dipingere i più bei ritratti”, ma a quella data Jean-Baptiste era già morto e probabilmente il solerte tesoriere confonde l’artista con suo figlio Louis-Michel abile ritrattista (nato nel 1707 e quindi contemporaneo dello zio Carle nato nel 1705) (González Palacios 1996, p. 33).

Riportando l’episodio, Bédárida ricorda che Bonnet comunicò a Du Tillot, come lo stesso van Loo gli aveva suggerito – mostrandogli “che il petto non era affatto terminato”, e facendogli gli elogi del Baldrighi che aveva conosciuto a Parigi – la possibilità che il ritratto potesse essere ultimato a Parma “per aggiungervi i drappeggi e le braccia nello stile che voi giudicherete adatto”.

Il dipinto che giunse da Parigi è allora proprio questo? La proposta di riconoscerlo come tale venne avanzata da Dimier (1903; 1906) e ripresa dal Lombardi (1912), mentre Ricci (1896) e Testi sostennero che fosse opera di Pécheux, sebbene non sia menzionata fra le tele eseguite a Parma, ipotizzando che fosse stata dipinta nel 1765 per accompagnare il ritratto di Don Filippo, prendendo spunto per il volto della ormai defunta duchessa da un’immagine preesistente (Bollea 1936, pp. 50-51).

Certo è che la testa male si inserisce sul busto, non solo per una diversa stesura dell’incarnato, bensì per una innaturale rigidezza della posa, in quanto tutto il corpo è rivolto a sinistra, mentre il volto ruota eccessivamente a destra, rivolgendo lo sguardo oltre la traiettoria dell’osservatore. Una scelta formale non confacente ai canoni estetici della ritrattistica settecentesca, specie per un artista come Louis-Michel van Loo (nel ritratto di Maria Leszczynska il padre dipinge la testa in asse con il busto), primo pittore alla Corte di Spagna, che anche nelle pose più auliche assegna dignità alle figure dialogando con lo sguardo o con i gesti. Questo volto invece è fuori contesto e assomiglia fortemente al ritratto, presumibilmente anteriore il 1759, che di lei ci ha lasciato Baldrighi nella grande tela con tutta la famiglia ducale, dove Elisabetta “conversa” con gli astanti all’interno della scena e guarda verso Don Filippo.

Tuttavia, se a ultimare il nostro dipinto – come proponeva Bonnet – è stato il Baldrighi il suo compito non riguardò la testa, ma la figura e lo sfondo e, se van Loo non aveva costruito il volume del corpo, può apparire logico che una volta a Parma sia stata operata la scelta di copiare un altro ritratto della bottega francese, appunto quello della regina di Francia, reperibile a Corte. Tutto combacia con il ritratto di Maria Leszczynska ad eccezione del colore dell’abito, al posto delle sete avorio e dei pizzi dorati Elisabetta sfoggia una veste identica nel modello, ma di color rosa salmone, mentre i ricami e i pizzi sono argentei con inserti azzurri.

Chiara Briganti nel suo fondamentale studio degli arredi di Corte (1969, p. 52), reperì un documento che attesta che a ultimare i dipinti giunti da Parigi – oltre alla tela di van Loo pervenne anche una testa di Nattier – non fu il Baldrighi stesso, che pittoricamente ha una stesura più corposa e nitida nei volumi, ma il suo allievo Pietro Melchiorre Ferrari (ASP, Comp. Borb. Serie F.yT. c. 1289; Mavilla 1985, p. 175) e questo dato porterebbe ad avallare maggiormente, per i caratteri tecnici, la proposta di riconoscerlo con quello inviato da Bonnet. Il disegno dell’abito e la luce che “muove” il tessuto sono resi con diligente perizia, ma il tratto nervoso non si adatta alla personalità di Baldrighi e tanto meno di Pécheux, mentre potrebbe essere più vicina al Ferrari, che attorno al 1760 seguiva con successo l’attività dell’Accademia e operava strettamente al fianco del maestro.

Anche Rosenberg, all’epoca della mostra dedicata alla cultura del Settecento a Parma (1979), non sciolse i dubbi che persistono sulla paternità del ritratto, anzi non prese in considerazione le precise parole di Bonnet e propose il quadro a Carle van Loo ritenendo invece che la testa “lasciata in bianco” fosse stata modificata o aggiunta a Parma. Incertezze attributive che ancora persistono in quanto predomina troppo la componente del ritratto di derivazione per cogliervi le vicende operative e forse la testa inviata da van Loo era ben altra, di diversa indagine espressiva, ancora non identificata e questo ritratto può essere stato eseguito per accompagnare quello di Don Filippo di Pécheux, ad opera di un anonimo artista di Corte.

Bibliografia
Pigorini 1887, p. 52;
Ricci 1896, pp. 213-214;
Dimier 1903, p. 254;
Dimier 1906, p. 222;
Lombardi 1912, pp. 20-21;
Bédárida 1928, pp. 529-530;
ed. 1985, p. 142;
ed. 1986, vol. II, p. 492;
Bollea 1936, pp. 50-51;
Quintavalle A.O. 1939, pp. 259-260;
Briganti 1969, p. 52;
Rosenberg 1979c, p. 166;
Cirillo 1994, pp. 45-46;
Balansó 1995, pp. 38-39;
González Palacios 1996, fig. 2, p. 33;
Cirillo 1997, p. 281
Restauri
1953-54;
1979
Mostre
Firenze 1911;
Parma 1979
Mariangela Giusto, in Lucia Fornari Schianchi (a cura di) Galleria Nazionale di Parma. Catalogo delle opere. Il Settecento, Franco Maria Ricci, Milano 2000.