Il dilemma di chi fa innovazione in Italia oggi - Il Secolo XIX
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Il dilemma di chi fa innovazione in Italia oggi

Il dilemma di chi fa innovazione in Italia oggi
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Per celebrare la Giornata Mondiale dell'innovazione e della creatività, che ogni anno dal 2017 si festeggia il 21 aprile (subito prima della Giornata della Terra e questo dovrebbe dirci qualcosa sul fatto che servono innovazione e creatività per salvare il pianeta), sono andato a rileggere un elenco delle invenzioni italiane che hanno cambiato il mondo. È un bell'elenco, di cui andare fieri: le banche, i giornali, la pila, il barometro, gli occhiali da vista, il pianoforte, il telefono, la radio e persino il fax del quale andiamo così orgogliosi che qualche burocrate in certi ministeri si ostina ad usarlo come se non ci fossero le email.  Nell'elenco gli americani di solito mettono anche la Jacuzzi, inventata da un italiano emigrato negli Stati Uniti per curare l'artrosi reumatoide del figlio. Ma io, senza nulla togliere all'utilità della vasca idromassaggio, inserirei piuttosto la P101, ovvero il primo personal computer della storia, realizzato nel 1965 da un piccolo team di ribelli della Olivetti; il 4004, ovvero il primo microchip, frutto del genio di Federico Faggin, maturato in Silicon Valley nel 1971, anche se ci vollero diversi decenni perché il merito gli venisse riconosciuto; e la prima SIM prepagata, chiamata "ready to Go", introdotta nel 1994 dalla SIP quando la nostra telefonia sapeva guardare al futuro (proprio quell'anno si sarebbe trasformata nella Telecom). 

È importante capire da dove veniamo perché ci aiuta a capire meglio chi siamo e anche dove dovremmo andare. Ma ancora più importante è non crogiolarsi nel passato, pensare che la storia sia finita lì, che non resti molto da fare. E invece c'è un mondo da salvare, un capitalismo da cambiare in fretta prima che si divori il pianeta, c'è la sostenibilità che va declinata in ogni nostra azione: e per farlo servono innovazione e creatività. L'Italia è pronta a giocare al sua parte? 

Tra l'altro a guardarle bene alcune di quelle invenzioni non sono esattamente storie di successo per noi: a Meucci l'invenzione del telefono venne scippata da Bell perché era rimasto senza soldi per il brevetto; e il giovane Guglielmo Marconi quando nel giardino della sua casa di Bologna ebbe la dimostrazione lampante che nell'etere potevano essere trasmessi dei messaggi e un giorno, forse (pensava), la voce, andò a Londra, mica a Roma, per fondare la sua startup; e la Olivetti, che dopo la morte del grande Adriano era in mano a finanzieri di pochi scrupoli e nessuna visione, non credette alle potenzialità del personal computer e se lo fece soffiare dagli americani. Occasioni perse, per noi, e che spiegano molto del declino a cui assistiamo.  

Ma siamo davvero cambiati? Se oggi un ragazzo o una ragazza inventassero qualcosa di davvero rivoluzionario, qualcosa destinato a migliorare la vita di miliardi di persone, potrebbero realizzarlo qui o dovrebbero andare all'estero? Li sapremmo riconoscere, questi talenti, li sapremmo incoraggiare, e loro potrebbero trovare qui i mezzi necessari, ovvero i capitali, per farcela? Voglio essere ottimista: non lo so. Rispondere sì a quella domanda non è ottimismo, è prendersi in giro. Non lo so è il massimo: e in questo dubbio c'è una speranza, la speranza che oltre ai premi, ai convegni, ai festival, oltre agli stati generali, ai libri bianchi e alle strategie (tutti generi in cui siamo oggettivamente maestri) in questo Paese sia ancora possibile inventare e realizzare qualcosa di importante. 

La risposta più onesta è insomma "non lo so", ma so che vale la pena provarci e crederci perché questa generazione di adolescenti che tutti descrivono come ansiosa e insicura, è anche la prima ad essere cresciuta a tutte le informazioni del mondo: sul proprio smartphone non hanno soltanto i video virali di TikTok e i reels degli influencers di Instagram, ma hanno anche il sapere prodotto dall'umanità in secoli. Magari alcuni di loro  inventeranno cose meravigliose. Aggiusteranno il mondo che abbiamo rotto. È una sfida entusiasmante, come lo è sempre il futuro quando invece di aspettarlo e basta provi a costruirlo. Perché, come ha detto qualche giorno fa un artista ricevendo un premio insperato, se il parabrezza è molto più grande dello specchietto retrovisore, è perché quello che abbiamo davanti è molto più importante di quello che abbiamo alle spalle.