Luchino confidential | Il Foglio

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Luchino confidential

Michele Masneri

Dopo 50 anni compare il libro che Giovanni Testori dedicò al regista del “Gattopardo”. Attorno c’è un mondo: gli amori, gli odii, gli attori, le case, il comunismo e un padre fondamentale alla base di tutto, nella ricostruzione di Giovanni Agosti

Parlare con Giovanni Agosti nella sua casa milanese ombrosa e labirintica di libri, cataloghi, tappezzerie e animaletti e corridoi rossi è un’esperienza 3D, è un metaverso culturale (al momento è più ordinata, una parte dei materiali sono in prestito in Triennale nella mostra che si chiama appunto “il Corridoio rosso”). Anche l’ultimo libro dello storico dell’arte è labirintico e muscoso, come insegna Charles Swann del resto non si possono amare che gli oggetti che rimandano ad altri oggetti, che hanno una storia: dunque ecco questo libro che è un libro su un libro, nello specifico un libro “perduto”, un vecchio testo che si credeva perso per sempre di Giovanni Testori su Luchino Visconti.

 

Si intitola solo “Luchino”, esce ora in versione fiammeggiante rossa, con Visconti a tu per tu con un pastore tedesco (“foto presa alla Colombaia a Ischia, e dedicata a Goliarda Sapienza”, spiega il professore, prazzesco). In libreria a giorni per Feltrinelli, non è una retrospettiva ma una macchina-libro per “capire quanto Visconti sia stato importante per chi gli è succeduto”, mi dice Agosti mentre guardiamo uno spezzone del “Lavoro”, episodio di “Boccaccio ‘70”, il suo Visconti preferito, dove un giovane Tomas Milian fa un milanese snob con valigeria Louis Vuitton (“le stesse iniziali”) con la moglie Romy Schneider tutta in Chanel (“il rapporto con Coco Chanel era già del padre, Giuseppe Visconti, che l’aveva conosciuta a Parigi”). E la figura del padre sembra uno dei punti centrali di questo libro a strati e cerchi concentrici – c’è un’introduzione, delle note, poi delle note alle note, Agosti realizza la fantasia gaddiana-arbasiniana di un libro solo di note. Il testo originario, misterioso, smilzo, qui è restaurato e rimpolpato, prima infarcito di immagini, che Agosti ha stanato tra i più prestigiosi archivi gentilizi e nei peggiori rotocalchi presi chissà da quali bancarelle, poi stretto tra apparati, farcito di indici e rimandi, vien fuori insomma un’opera che ha ben poco in comune con l’originale “panegirico”, che Testori scrisse sul conte-regista.

 

Visconti con Domietta del Drago, anni Sessanta

 

Testo fotocopiato, perso, ritrovato, donato all’antiquario Dino Franzin, testimonia di un rapporto come si immagina altalenante tra lo scrittore, che sceneggiò opere fondamentali di Visconti come “Rocco e i suoi fratelli”, poi però il rapporto si perse. Pare, per dramma di sentimenti offesi. Il conte-regista aveva scritturato il grande amore di Testori, il francese Alain Toubas, per fare da comparsa in “Ludwig”, una piccola scena, una scenina, ma quello sbaglia accento, dice “the king was hill”, “hill, con la acca”, invece che “ill”, malato, e il conte-regista alla terza volta fa una cosa molto viscontiana, lo caccia, prende un elettricista e gli dà la parte a lui. Fine, poi ci saranno odii feroci e dei versetti satanici di Testori contro il conte, poi una riappacificazione, ma intanto questa è la storia del testo basico e primario, ma tutto attorno indagini, rimandi, investigazioni che fanno la gioia del lettore che aprirà questo volumone come compendio o i-ching soprattutto del gusto italiano otto-novecentesco, dove compiere incursioni (Proust-D’Annunzio-liberty, proprio con lo stesso metodo con cui Visconti indagava le sue ossessioni). Ottimo anche come bolla in cui farsi risucchiare di questi tempi grami.

 

Si diceva del padre: questo don Giuseppe Visconti, chiaramente personaggio centrale nella storia. Gentiluomo di corte della regina Elena, di cui è molto amico e a cui sistema la casa, villa Savoia, a Roma. Lui prende casa di fronte, in quella via Salaria 366 dove abiterà poi Luchino, e seguendo la strada del padre si capisce che il figlio non avrebbe potuto essere altro. Il padre crea anzi ricrea il villaggio di Grazzano, poi divenuto Grazzano Visconti dal 1914 grazie al Re amico, ennesima variazione sul tema company town di cui la Lombardia è generosissima, da Zingonia Zingone a Crespi d’Adda a Milano3, ma qui in versione neorinascimentale, con torrette, teatri, copie di maestà di Simone Martini, affreschi con Luchino piccolo, parate in costume (contadine e contessine insieme) e il tutto manutenuto da una squadra di artigiani in servizio permanente effettivo che don Giuseppe tira su. Oggi il paese, sogno urbanistico del conte immaginifico, è rinato al turismo con eventi dedicati a Harry Potter, vabbè. Ma a Grazzano, impossibile stabilire cosa è vero e cosa è falso, tra affreschi “veri” e novecenteschi, e rimandi infiniti con statue che rimandano ad altre statue, e terracotte dei Della Robbia e grotte di Lourdes, e lì Agosti è andato come detective, per la sua indagine, tra attribuzioni mai viste. Don Giuseppe è un estremo conoscitore delle arti, e le mischia volentieri. Ma progetta anche minuziosamente il suo proprio funerale, nella chiesa di Grazzano, tra damaschi rossi e nani mascherati. Don Giuseppe che nel palazzo di via Cerva, a Milano, organizza celebri balli in maschera, di rigorosissima ricostruzione storica.

 

“Non ti facevano entrare se non eri perfettamente in costume 1859”, dice Agosti, mentre guardiamo le foto del celebre ballo del 9 giugno 1909, dedicato appunto al cinquantenario della Seconda guerra di indipendenza, e lì i piccoli Visconti bambini che non potevano partecipare si svegliavano all’alba e in pigiama andavano a vedere, in una loggetta dedicata, il ballo che lentamente si stava concludendo (“quel senso di disfacimento che ho cercato di rendere nell’ultima fase del ballo era lo stesso che avvertivo da bambino nel salone di via Cerva, dove ormai poche coppie si muovevano ancora, e le voci degli altri si facevano sempre più stanche e intermittenti”, dirà poi Luchino). 

 

E vedendo quelle foto, si capisce che la festa finale del “Gattopardo” non solo viene da lì ma a confronto è davvero poca cosa, i saloni milanesi son ben più imponenti di quelli siciliani. Di quel ballo, Visconti ne aveva montata una versione di quattro ore (!). E Togliatti, improbabile best friend e supporter e critico, disse che assolutamente non andava tagliato. Il comunismo di Visconti è tema dei più divisivi. “Il comunista più ricco d’Italia”, titola un vecchio “Oggi”. Però Visconti era sinceramente comunista. Da quanto, assistente di Renoir a Parigi, aveva conosciuto il Front Populaire. E poi la resistenza, “il momento più intenso della mia vita”. Ma come conciliare il lusso, gli splendori, la vita inimitabile, con la tessera del Pci? “Ma lui era onestamente convinto che il suo mondo fosse finito, e che era giusto così. Un mondo più giusto sarebbe nato in futuro”, dice Agosti. “Io voto contro i miei privilegi. Se fossi santo, se fossi San Francesco, mi priverei di tutto. Ma non sono così eroico”, disse Visconti. Insomma ci tiene che il suo mondo, tirato a lucido, finisca con stile, in attesa di una ghigliottina che però non arriverà mai. Intanto i set si confondono con le case: a partire da villa Erba, a Cernobbio, quella poi trasformata in hotel dove si svolgono i fondamentali forum Ambrosetti. E lì, la prosapia materna, industriali del farmaco, ospita i piccoli Visconti che si denudano e ricoprono di talco o farina, immobili, mentre passano i battelli, per sembrare statue, ai turisti. Salvo poi scattare in acqua, ignudi. La mamma si separa presto, mentre don Giuseppe segue i suoi fantasmi e le sue passioni. Proust, le piante, con cui parla, la teosofia, l’Opera, i blasoni, la beneficenza industriosa, la presidenza dell’Inter (!), un ballo giapponese organizzato per la Regina Elena a Roma, l’inesausta decorazione dei suoi palazzi, in un vortice di vero che sembra finto e viceversa che passerà intatto al figlio (che fortuna, però, nascere talentuoso. Che rischi ha corso, il piccolo Luchino, di diventare uno sfessato maniaco come se ne conoscono tanti che parlano solo di mammà e dell’antica collezione usucapita). 

 

E che cinema, che teatro, e le case di famiglia non a caso saranno costruite, decorate, disegnate, più che da architetti, da scenografi. A Grazzano ci pensa un allievo di Camillo Boito (autore di “Senso”); per la Salaria (“più che una casa di Roma sembra una casa del retroterra milanese o comasco”, per Testori), c’è Gino Franzi, che aveva sistemato anche Cernobbio e che farà “Ossessione”; il sardo Giorgio Pes arredatore del “Gattopardo” lo è anche della formidabile Colombaia a Ischia, delle magioni di Zeffirelli e poi di Berlusconi (ci pensò lui a palazzo Grazioli). Oggetti e opere d’arte passano pure dalla casa del regista ai set, come nel “Lavoro”, con la collezione di sfere prese dalla Salaria, supervisionate da Pes e da Domietta del Drago (non accreditata).

 

Nel libro, altri movimenti centrifughi. Ecco “l’anglologo”, il professor Mario Praz immortalato in “Gruppo di famiglia in un interno”, rispecchiamento di Visconti e storia di un compunto studioso che vede la sua pace gentilizia scombussolata dall’arrivo di condòmini arrembanti e rumorosi, ma a Praz non piacque (così mi raccontò Alvar Gonzalez-Palacios che accompagnò il prof al cinema). L’anglologo però abitava al primo piano di palazzo Primoli, la “Casa della vita”, e sullo stesso pianerottolo poi arrivò effettivamente un vicino fracassone, Mario Schifano, che l’anglologo con i noti superpoteri previde in anticipo (dedica di Praz a Schifano: “Al mio vicino di casa, lontano di idee”). A quel punto ci furono due Rolls-Royce fatali in giro per Roma. Quella di Schifano, che la banda della Magliana gli ha fornito, rubandola a Fiumicino dove era sequestrata in quanto intestata a Papa Doc, dittatore di Haiti, e quella di Helmut Berger, il belloccione compagno di Luchino, che ci finirà nel Tevere. Mentre Leonor Fini fa un ritratto a Luchino spigoloso, Luchino fa un ritratto a Helmut, a cui lo sfortunato attore poi anni dopo aggiungerà una lacrimuccia, “quasi come un Vezzoli in anticipo sui tempi”. 

 

Ci sono le risse con Arbasino che da piccolo fan diventa “hater” di Luchino e gliene dice di ogni: “infame” il Gattopardo, in Visconti “la passamaneria ha la meglio sulla poesia”, e il regista addolorato e imbufalito risponde: “Arbasino alla fine è un provinciale di Voghera malato di esterofilia. Per lui qualsiasi cialtronata vista nel West End gli sembra caviale”, ci sono gialli letterari (forse che tutta la storia di “Senso”, di quell’amore disperato e risorgimentale tra la contessa Serpieri e l’orrendo tenente Franz Mahler che deruba i soldi dei patrioti fosse una trasposizione dell’amore del comandante partigiano Pietro Secchia poi numero due del Partito comunista perdutamente innamorato del Giulio Seniga, viceresponsabile della vigilanza del Pci, che scapperà con la cassa del partito?). E sempre a proposito del Partito, ecco un Burt Lancaster molto tiepido all’inizio con tutta l’operazione “Gattopardo” ma che poi adorerà tutto, da Rina Morelli, caratterista che Visconti trasforma nella “sua” attrice, che fa una principessa di salina tutta “Gesummaria”, e sospiri, e Lancaster non fa che dire “gorgeous-marvelous” dopo ogni ciak; fino ai quadri di Guttuso che Visconti e l’attore hollywoodiano si scambiano in occasione del loro duplice compleanno, che cade il 2 novembre (ma Visconti compare anche nel quadro “I funerali di Togliatti” del pittore siciliano, il colossale tre metri per tre in cui sono rappresentati Angela Davis, Neruda, Gramsci). Lancaster finirà poi a fare “Gruppo di famiglia” gratis, così come tutti gli altri attori, perché non ci sono soldi, con Visconti non ce ne sono mai abbastanza, ma per il conte questo ed altro.

 

Spendeva poi così tanto, lui? Il vivere inimitabile sulla Salaria (di fronte, la villa Polissena del principe-amico Enrico d’Assia, qualcuno sosteneva che un tunnel le unisse): ma Testori: “Casa Visconti a Roma era piena di ciaffi, l’unico vero quadro glie l’ho dovuto regalare io”. Bagni enormi, enormi televisori in bella vista, tante copie di “Sorrisi e canzoni” a terra, e, secondo Enrico Lucherini, “orrendi soprammobili, regali che gli facevano gli attori, le attrici, i tecnici con cui lavorava, e che rimanevano in vista per una quindicina di giorni e poi sparivano, fin quando il donatore non ricapitava in casa”. In giardino, sei levrieri e due gatti persiani rosa, regalati da Elsa Morante. “Lei è decadente?” gli chiedono in un’intervista. “Sì, la parola mi piace molto. Mi piacerebbe meno essere accusato di futurismo”. Ovviamente intende la parola come la intendeva Walter Binni, non decadenza della poesia ma poesia della decadenza. Ma passa piuttosto il mito del maniaco araldico, del regista scassa-preventivi, che vuole i ciliegi veri per Cechov, “quel matto di Visconti vuole i gioielli veri di Cartier, i rubinetti che buttano acqua vera, vuole vero profumo francese nei flaconi appoggiati sul tavolo di scena”, dice lui, consapevole e divertito. “La leggenda coinvolse anche Strehler. Né io né lui ci demmo molto da fare per smentirla”. 

 

E poi gli amori, che seminano talento e angoscia: Helmut Berger, Franco Zeffirelli, Massimo Girotti, Alain Delon (ma Delon ebbe anche un flirt con Testori). Visconti aveva poi la vocazione pedagogica nell’erotismo. “Io non sono vittima del divismo. Io produco divismo”. Nell’amore contrastato con l’attore francese, Visconti come tanti ricorre alla psicanalisi, ma non è che poteva andare da uno qualunque trovato sull’elenco telefonico: finisce da Lacan in persona. Per il resto odia invecchiare (a Strehler: “dopo i Sessanta è una barrba”, con erre molto arrotata lombarda). L’unica cosa che lo fa andare avanti, in definitiva, è il lavoro. “La fatica”. Scrive Testori. “Ecco: Visconti è uno di quegli artisti che sanno come l’aspirazione significhi, per prima cosa, mettersi davanti a un tavolo e lavorare”. Lavora sempre, gira il suo ultimo film, “l’Innocente”, la sua incursione in D’Annunzio (ma i diritti del “Piacere” non si poterono ottenere) tutto in sedia a rotelle. Le sue ultime parole pare che siano state, in dialetto milanese: “Basta. Sun stracc”.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).