Un delitto in scena

In questa e nelle altre due foto che illustrano l’articolo
tre momenti di «The Repetition. Histoire(s) du Théâtre (I)» di Milo Rau
(le foto sono di Hubert Amiel)

NAPOLI – Riporto la presentazione di «The Repetition. Histoire(s) du Théâtre (I)» pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

NAPOLI – Finalmente arriva a Napoli (sarà in scena al Mercadante oggi e domani) «The Repetition. Histoire(s) du Théâtre (I)», lo spettacolo-bandiera del teatro di Milo Rau. Ma, prima di descriverlo, mi sembra utile riassumere quanto gli sta dietro. E, innanzitutto, ricordare per sommi capi che cosa ha fatto il quarantasettenne regista di Berna, ormai celeberrimo.
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Morirà la morte. Di dolcezza

In questa e nelle altre due foto che illustrano l’articolo Valentina Banci in «Wit», in scena al Teatro Due
(le foto sono di Andrea Morgillo)

PARMA – In rarissimi casi accade che un testo teatrale viva di una coerenza assoluta fra i suoi snodi narrativi, l’oggetto della narrazione e le caratteristiche espressive del tipo di scrittura adottato nella circostanza. E uno di questi casi è costituito da «Wit», il testo di Margaret Edson che – vincitore di molti premi, fra cui il Pulitzer per il teatro nel 1999, e adattato per la televisione in un film con Emma Thompson diretto da Mike Nichols – è ora in scena al Teatro Due di Parma, nella traduzione di Valentina Martino Ghiglia e in un allestimento a cura di Paola Donati.
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Fra teatro e vita

Anna Della Rosa in un momento di «Durante», in scena al Piccolo Teatro Grassi
(questa e le altre due foto che illustrano l’articolo sono di Masiar Pasquali)

MILANO – Riporto la recensione pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Più di una volta, negli ultimi tempi, ho assistito a spettacoli che, invece di raccontare una storia qualsiasi, per quanto importante e interessante, portavano in scena una riflessione sul teatro. E questo è un bene, un gran bene. Perché, come vado sostenendo da anni, abbiamo il dovere imprescindibile di chiederci che teatro facciamo oggi, ovvero che ne facciamo del teatro.
Sono, pari pari, le parole con cui l’anno scorso introdussi il commento al trittico che il francese Pascal Rambert, autore e regista fra i più interessanti del panorama teatrale odierno, ha pensato per tre stagioni del Piccolo: un trittico (lo compongono «Prima», «Durante» e «Dopo») basato sulle vicende di una compagnia impegnata nell’allestimento di un copione ispirato alla «Battaglia di San Romano» di Paolo Uccello. E quelle parole le ripeto con maggiore convinzione adesso che mi trovo ad analizzare il secondo dei tre testi in questione, appunto «Durante».
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Quando il figlio è solo un’immagine

Da sinistra, Daria Deflorian e Federica Fracassi in «La vita che ti diedi», in scena al Carignano
(questa e le altre due foto che illustrano l’articolo sono di Luigi De Palma)

TORINO – De «La vita che ti diedi» di Pirandello vidi nel 1979, al San Ferdinando di Napoli, un acuto allestimento esaltato dalla regia di Massimo Castri e dalla prova, nel ruolo principale, di una superba Valeria Moriconi. E subito m’è tornato in mente, quello spettacolo, mentre al Carignano assistevo alla messinscena del testo in questione firmata da Stéphane Braunschweig e prodotta dal Teatro Stabile di Torino insieme con Emilia Romagna Teatro: perché ho avuto modo di constatare senza dubbi la sintonia di quanto osservavo adesso con quanto osservai e scrissi quarantacinque anni fa.
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La Medea della porta accanto

Orietta Notari in un momento di «Medea», in scena alle Fonderie Limone di Moncalieri
(questa e le altre due foto che illustrano l’articolo sono di Luigi De Palma)

TORINO – «Il dramma portato sulla scena si svolge contemporaneamente a livello dell’esistenza quotidiana, in un tempo umano, opaco, fatto di presenti successivi e limitati, e in un aldilà della vita terrestre, in un tempo divino, onnipresente, che abbraccia ad ogni istante la totalità degli eventi, ora per celarli, ora per scoprirli, ma senza che nulla mai gli sfugga né si perda nell’oblio».
Ancora una volta – per inquadrare adesso la «Medea» che Leonardo Lidi ha tratto da Euripide e che viene presentata alle Fonderie Limone di Moncalieri dallo Stabile torinese, di cui Lidi è artista associato – parto da ciò che, secondo l’acuta analisi di Jean-Pierre Vernant, definisce nella sua essenza la tragedia greca in generale. E aggiungo subito che quest’allestimento – in virtù delle scelte compiute insieme dalla regia di Lidi e dalla drammaturgia di Riccardo Baudino – si colloca decisamente nella prima delle due dimensioni individuate da Vernant.
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Brutti, sporchi e cattivi in Russia

Massimo Popolizio in un momento de «L’albergo dei poveri», in scena al Mercadante
(questa e le altre due foto che illustrano l’articolo sono di Claudia Pajewski)

NAPOLI – Di Maksim Gor’kij «L’albergo dei poveri» è certamente l’opera più nota, ma altrettanto certamente non la migliore. Almeno nel senso che si riferisce a uno dei più eclatanti casi di contraddittorietà che mai si siano verificati in letteratura, non esclusa quella teatrale. E mi spiego partendo da alcune elementari considerazioni.
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Una gallina sul trono

La scena iniziale di «Re Chicchinella» di Emma Dante, in scena al Piccolo Teatro Studio Melato
(questa e le altre due foto che illustrano l’articolo sono di Masiar Pasquali)

MILANO – Riporto la recensione pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

Con «Re Chicchinella» – uno spettacolo presentato nel Teatro Studio Melato e coprodotto, fra gli altri, dal Piccolo e dal Teatro di Napoli – Emma Dante conclude il suo viaggio in tre tappe dentro «Lo cunto de li cunti» di Basile.
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Autoritratto retroattivo

Valerio Binasco e Pamela Villoresi in un momento de «La ragazza sul divano», in scena al Carignano
(questa e le altre due foto che illustrano l’articolo sono di Virginia Mingolla)

TORINO – Riporto la recensione pubblicata ieri dal «Corriere del Mezzogiorno».

«Scrivere per me rimane comunque un atto musicale». Ecco, credo che sia questa la più importante dichiarazione che a proposito di sé e della propria opera abbia fatto Jon Fosse, il poeta, romanziere e drammaturgo norvegese, Premio Nobel per la letteratura l’anno scorso, del quale è in scena al Carignano – per la regia di Valerio Binasco, in una coproduzione dello Stabile di Torino e del Teatro Biondo di Palermo – «La ragazza sul divano», il testo, fra i suoi più emblematici, che poi sarà ospitato dal 7 al 12 maggio anche dal nostro Mercadante.
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Su il sipario, si recita la finzione

Silvio Orlando in un momento di «Ciarlatani» di Pablo Remón, in scena al Mercadante
(la foto è di Guido Mencari)

NAPOLI – «Sento che la realtà, tutto quello che mi hanno raccontato, non è la realtà: è una gigantesca messa in scena. Tutti mentono, tutti. Mentono i miei genitori, i miei amici, la mia famiglia. Sono tutti attori, tutti. Tutti interpretano un ruolo in uno spettacolo di proporzioni colossali. Lo spettacolo più grande della storia, messo in scena esclusivamente per una spettatrice: me. Uno spettacolo che solo ora , per qualche minuto, durante l’eclissi, si è interrotto. Era – e adesso lo so – la fine del paradiso dell’infanzia. Tutto questo dura solo un momento. Eppure dopo, quando finisce, non ho voglia di togliermi gli occhiali. Non li tolgo più. Mai più. Li porto sempre con me. Li porto adesso, mentre vi guardo. Adesso che sono qui, sul palcoscenico».
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Seduti, mentre passano cavalli bianchi

Elena Bucci e Marco Sgrosso in un momento de «La casa dei Rosmer», in scena al Metastasio di Prato
(questa e le altre due foto che illustrano l’articolo sono di Ilaria Costanzo)

PRATO – «Credo quasi che noi tutti siamo spettri, pastore Manders. Non soltanto quello che ereditiamo da padre e madre riappare in noi, ma ogni sorta di idee vecchie e morte, e convinzioni altrettanto vecchie e morte. Tutto ciò non vive in noi; ma c’è tuttavia e non possiamo liberarcene».
È la battuta che in uno dei più emblematici drammi di Ibsen, per l’appunto «Spettri», pronuncia Helene, la vedova del capitano e ciambellano Alving. Potremmo tranquillamente considerarla come la battuta-chiave di tutto il teatro del Norvegese. E in ogni caso mi sembra che s’attagli particolarmente a «Rosmersholm», il testo del 1886 ora in scena al Metastasio di Prato – per la regia di Elena Bucci in collaborazione con Marco Sgrosso – su progetto ed elaborazione drammaturgica degli stessi e col titolo «La casa dei Rosmer».
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