Elizabeth Bishop, il genio che non potete leggere: “non disponibile” - Pangea
25 Agosto 2022

Elizabeth Bishop, il genio che non potete leggere: “non disponibile”

Di Elizabeth Bishop, per fortuna, c’è poco da dire. A differenza di altri poeti, che hanno fatto della propria vita fonte d’ispirazione – Sylvia Plath, Anne Sexton, per dire – e della ‘presenza’ una forma di prestanza lirica, la Bishop ha vissuto in una trina di pudori non di rado ostili, credeva iniquo, inappropriato, mettersi in scena. Le sue interviste – compresa quella pubblicata nell’estate del 1981 sulla “Paris Review”, postuma (EB era morta nei primi giorni di ottobre del 1979) – non hanno alcun appeal ‘politico’ o mediatico, nessuna attualità: la Bishop si limita a parlare del proprio lavoro, inconsapevole, perfino – così nell’intervista, concessa nel 1978, pubblicata in calce a questo articolo, finora inedita in Italia – di essere poeta, parola, a suo dire, come ogni didascalia, vuota di senso, arcano di vane promesse. D’altronde, poteva meditare una poesia per vent’anni, compilava un poemetto come si estrae un violino dal legno inerte. La sua vita – ma perfino il suo stile –, in un certo modo, ricorda la perseverante pazienza di Marguerite Yourcenar. Elizabeth Bishop ha pubblicato poco – poco più di un centinaio di poesie –, ha viaggiato molto – dalla Finlandia al Perù, dall’Italia all’Ecuador e il Marocco –, colta da una sorta di frenesia emotiva; era piuttosto bassa.

Cresciuta con le zie – il padre muore quando ha otto mesi, la madre precipita nella demenza ed è ricoverata poco dopo –, che la educano alla lettura dei grandi vittoriani, Lord Tennyson, Thomas Carlyle, Robert Browning, la Bishop era affascinata da Ralph Waldo Emerson e in sintonia con l’opera e i toni di Marianne Moore. Nulla spiega l’irrompere di un grande poeta: la Bishop esordisce nel 1946, con North & South, il suo libro più grande, forse, è Geography III (1976); negli anni sarà onorata con un Pulitzer for Poetry (1956) e un National Book Award (1970), in molti, negli Usa, la riconoscono – se poi i paragoni hanno senso, in poesia – come l’erede di Emily Dickinson, un classico, insomma.

Stabilì un forte legame epistolare con Robert Lowell – riassunto in: Scrivere lettere è sempre pericoloso, Adelphi, 2014 – restando, però, ai margini della vita intellettuale americana. In effetti, dal 1951 la Bishop vive in Brasile, a Petrópolis, insieme all’amica-amata Lota de Macedo Soares, architetto brasiliano. Il ritorno negli Stati Uniti, nel 1967, coincide con il suicidio, a New York, di Lota. Finì insegnando ad Harvard e alla MIT, consapevole che “non credo nei corsi di scrittura; è vero, i bambini, a volte, scrivono cose meravigliose e realizzano dipinti superbi: non è una buona ragione per incoraggiarli a continuare”.

Nel biennio in cui fu “Consultant Poetry” per la Library of Congress, la Bishop frequentò spesso il St. Elizabeths, luogo di detenzione di Ezra Pound. Diventarono amici. A ‘Ez’ la Bishop dedica una poesia piuttosto nota, Visits to St. Elizabeths, che attacca così:

Ecco la casa dei matti.

Ecco l’uomo
che sta nella casa dei matti.

Ecco l’ora
dell’uomo tragico
che sta nella casa dei matti.

Con una certa grazia, Margherita Guidacci ha tradotto nel 1982, per Rusconi, la Bishop: il libro s’intitola L’arte di perdere e si acquista per mercatini digitali. Pare del tutto introvabile, invece, Miracolo a colazione, l’antologia curata da Ottavio Fatica per Adelphi nel 2005: anche il sito della casa editrice ci avvisa che il libro è “temporaneamente non disponibile”. Spero sia un problema temporaneo, appunto: si sono dimenticati di rinnovare i diritti? Eccola, la piccineria italica, questo paese di urlatori, molliche e propagandisti. Non possiamo leggere Elizabeth Bishop. In libreria non trovate uno dei grandi poeti del secolo, di sempre. Questa latitanza nell’idiozia sa tanto di viltà, ha l’afrore del menefreghismo. Ci sono poeti che vanno letti per la nostra crescita interiore, per dare conforto al cuore e alla rabbia. Ci sono poeti che devono essere spacciati a ogni angolo di strada, ricopiati sui muri, passati a memoria. Chi non lo vuol capire, si arrenda: noi andiamo all’arrembaggio.

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Dialogo con Elizabeth Bishop

Perché scrivere poesie?

Come posso saperlo? Ho iniziato da bambina, a otto anni. Ero una bambina solitaria, forse la poesia era un modo per rendere familiare ciò che vedevo intorno a me. Ma ci sono altri fattori, credo. Ad esempio, mia nonna, che veniva dalla Nuova Scozia, cantava inni sacri. Sono cresciuta ascoltando quei suoni, almeno un centinaio girano ancora nella mia testa. Mia zia, come molti vittoriani, apparteneva a una società in cui si leggeva poesia in casa: Longfellow, Browning, Tennyson. Memorizzavo questi autori, sono diventati una parte di me. La poesia mi è sempre sembrata il modo più naturale per dire quello che penso. Non ho mai pensato di diventare un “poeta”, ruolo che, pare, oggi vorrebbero interpretare in molti. Non ho mai pensato ad alcuna etichetta. Odio le etichette. Per me è sempre stato più interessante scrivere poesie che pensarmi un poeta. La poesia dovrebbe essere il mestiere più inconscio e inconsapevole possibile.

Per lei la poesia comincia da un suono, un’immagine, un’idea…

Dipende da ogni singola poesia. Alcune poesie iniziano intorno a un grumo di parole, non sei certo cosa vogliano dire, poi si accumulano, diventano versi, danno origine a una forma. A volte è un concetto a perseguitarmi per molto tempo: le poesie che si sviluppano intorno a un concetto sono le più difficili da scrivere; è più semplice quando si parte da una serie di parole che consuonano, che stanno bene insieme, e che soltanto alla fine svelano il loro senso. Ancora una volta, è l’inconscio la parte più importante. Non chiedere a una poesia cosa significa, lascia che te lo dica lei.

Per quanto tempo elabora una poesia nella mente prima di scriverla su carta?

Dieci minuti – o quarant’anni. Una delle poche qualità che dovrebbe avere un poeta è la pazienza. Io ho una pazienza infinita. A volte credo di dovermi arrabbiare con me stessa per avere atteso vent’anni prima di terminare una poesia, eppure, un buon poeta non può permettersi di avere fretta.

La sua poesia è in grado di rendere straordinario l’ordinario, di farci scoprire i lati nascosti del familiare: è uno sforzo consapevole?

Non cerco di fare qualcosa di specifico quando scrivo – ma di soddisfare me stessa. La sfida più grande è esprimere pensieri difficili con un linguaggio semplice. Amo la chiarezza, la semplicità. Mi piace presentare idee complesse, misteriose, nel modo più diretto. Questa è una disciplina che diversi poeti non credono importante. Penso alla complessità artefatta, al pensiero sfocato, alle maschere che velano una poesia. Se una poesia non ha rigore, però, credo che anche il poeta che l’ha scritta non sia abbastanza rigoroso.

Leggendola, si percepisce che lei scruta un oggetto al fine di scovarne l’alterità…

Mi sorprendono gli oggetti, è vero, mi incuriosiscono. Alcuni critici hanno osservato che scrivo poesie sulle cose più che sulle persone. Non lo faccio consapevolmente. Cerco di vedere le cose dall’inizio, dalla loro origine. Una certa curiosità per il mondo che ci circonda è fondamentale nella vita: è quasi tutto ciò che conta per scrivere poesia. Sono appassionata di pittura: da qui, forse, il minuzioso interesse per osservare le cose da vicino. Le mie zie dipingevano, e in effetti, spesso, vorrei essere nata pittrice più che scrittore.

Quali sono le fonti della sua ispirazione?

Ispirazione è una parola curiosa. Quando vivevo in Brasile avevo uno studio su un fianco della montagna, da cui si vedeva una cascata, e un bosco di bambù. Quando capitava qualche visitatore, che naturalmente non aveva mai letto un verso delle mie poesie, indicava quel bosco e diceva, “ecco la tua ispirazione!”. A un certo punto, fui tentata di piantare un cartello, nei pressi del bosco, con la scritta: “Ispirazione”. Che parola misteriosa, ispirazione… La cosa strana e meravigliosa è che non puoi prevedere dove, quando, perché scriverai una poesia, né che cosa ti spinga a scriverla. Una poesia può essere ispirata da un fatto accaduto vent’anni fa: me ne renderò conto dopo che l’ho scritta; all’epoca, può darsi che non sia stata nemmeno commossa. Occhio e mente registrano, di continuo: devi essere abbastanza cauto e paziente da consentire loro di rivelare ciò che hanno osservato.

Nelle sue poesie hanno una parte rilevante le mappe, la geografia. Perché?

La famiglia di mia madre amava viaggiare in luoghi insoliti. La prima poesia del mio primo libro è stata ispirata da un capodanno, al Greenwich Village, poco dopo il diploma. Fissavo una mappa. La poesia si è scritta da sola.

Geografia III, in parte, si sofferma sulla ricerca di una casa, sulla definizione stessa di casa. Scrivere poesie, per lei, è un modo per costruirsi una casa?

Quelle poesie sono state scritte quando ho deciso di lasciare il Brasile, dove ho vissuto a lungo: questo forse ha contribuito a conferire ai testi le sensazioni che dice. Non mi sono mai sentita senza casa, non mi sono mai sentita a casa. Immagino sia la buona definizione di cos’è casa per un poeta. La porta dentro di sé…

Ha resistito alla poesia confessionale, a cui cedono molti poeti, buoni o meno buoni. Ha sempre avuto la percezione della propria singolare voce poetica?

No, affatto. Nel mio primo libro ero preoccupata che non ci fosse un tema tangibile, complessivo, una voce. Per me è sempre stato così. Ma a quanto pare, sembra che abbia una voce, addirittura coerente. Sono grata e sbalordita quando me lo dicono.

Tuttavia, il suo tono calmo e armonico si percepisce…

Non sono affatto calma, ma è bello sentirselo dire. In realtà, non penso mai ad alcun tono quando scrivo. Scrivo e basta.

Ultima domanda. Quali qualità dovrebbe avere una poesia per definirsi tale?

La sorpresa. Il soggetto e il linguaggio che lo veicola devono sorprenderti. Devi essere sorpreso, assalito alle spalle, perché vedi qualcosa di nuovo e di misteriosamente vivo.

*Rilasciata ad Alexandra Johnson per “Christian Science Monitor” (23 marzo 1978), l’intervista di Elizabeth Bishop è raccolta da George Monteiro in “Conversations with Elizabeth Bishop”.

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Elizabeth Bishop, Sestina

Cade la pioggia settembrina sulla casa.
Nella fievole luce, la vecchia nonna
siede in cucina con la bambina
presso la Piccola Mirabile Stufa,
e legge le storielle dell’almanacco,
ridendo e parlando per celare le lacrime.

Pensa che queste equinoziali lacrime
e la pioggia che batte sul tetto della casa
siano state predette, tutte, dall’almanacco,
ma solo comprensibili a una nonna.
La teiera di ferro canta sulla stufa.
La nonna affetta del pane e dice alla bambina:

Adesso è l’ora del tè; ma la bambina
guarda uscire dalla teiera le piccole dure lacrime
che danzano come pazze sulla nera rovente stufa,
come deve danzare la pioggia sulla casa.
Riordinando la cucina, la vecchia nonna
appende lo spiritoso almanacco

allo spago. Come un uccello, l’almanacco
si libra semiaperto sulla bambina,
si libra sulla vecchia nonna
e la sua tazza di tè piena di scure lacrime.
Ella rabbrividisce e dice che la casa
le sembra fredda, e aggiunge legna alla stufa.

Doveva essere, dice la Mirabile Stufa.
So quello che so, dice l’almanacco.
Coi pastelli la bambina fa una rigida casa
e un sentiero a zig-zag. Poi la bambina
ci mette un uomo con bottoni come lacrime
e mostra orgogliosa il disegno alla nonna.

Ma in segreto, mentre la nonna
si muove affaccendata intorno alla stufa,
piccole lune cadono come lacrime
di tra le pagine dell’almanacco
giù nell’aiola che la bambina
con cura ha messo davanti alla casa.

Tempo di piantare lacrime, dice l’almanacco.
La nonna canta alla mirabile stufa,
e la bambina traccia un’altra imperscrutabile casa.

(traduzione di Margherita Guidacci)

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