Libri: il ritorno della New York anni Ottanta di Tama Janowitz - la Repubblica

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Libri: il ritorno della New York anni Ottanta di Tama Janowitz

Una ragazza sulle scale di un caseggiato dell’East Village, nel 1982
Una ragazza sulle scale di un caseggiato dell’East Village, nel 1982 

Esce di nuovo in libreria il bestseller di cui Andy Warhol acquistò i diritti cinematografici. Storie di artisti emergenti, attori, scrittrici in erba

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“Sugli anni 80 pesa un carico di disapprovazione superiore a quello che sembra giusto riservare a un qualunque tempo passato”. Diagnosi del canadese Adam Gopnik, nel memoir Io lei, Manhattan. Era lì, con la moglie appena sposata. Cercava una casa compatibile con i loro pochi soldi, senza topi e senza un liquido appiccicoso che trasudava dal soffitto. Pareva sangue, era sciroppo di zucchero caramellato, l’edificio era stato una fabbrica di dolciumi. Niente drammi: «Mi pareva il genere di schifezza newyorkese che fa parte della vita adulta, un po’ come le tasse».

Nato a Philadelphia nel 1956 e cresciuto in Canada, Adam Gopnik è un perfetto esemplare degli Schiavi di New York, raccontati nel libro — il secondo e il più famoso — di Tama Janowitz (coetanea, nata a San Francisco). Come Eleanor, che lavora la gommalacca per farne cavallucci marini e orecchini: lei convive con l’artista Stash nel Village. Stanno insieme da sei mesi, il monolocale è disordinato, lui ha un caratteraccio, in caso di litigio lei non ha altri posti dove andare.

Pratica e teoria spiegata all’amica Abby: «Una volta avevi la sicurezza del matrimonio combinato dai genitori, magari finivi con un cretino, ma nessuno ti sbatteva poi in mezzo a una strada». E invece: «A New York ci sono centinaia di donne a caccia, gli uomini o sono omosessuali o schiavi pure loro, l’unica soluzione è fare tanti soldi, così puoi permetterti un appartamento e avere il tuo schiavo».

Schiavi di New York esce nel 1986, Tama Janowitz ha 30 anni. Il successo è immediato, viene subito associata al brat pack — brat sta per mocciosi: la generazione di Bret Easton Ellis, Jay McInerney, David Leavitt. Con un sovrappiù di visibilità, di copertine e inviti in televisione: era una giovane donna con una massa di capelli neri arruffati, era amica di Andy Warhol e passava le serate allo Studio 54. I manifesti americani per la pubblicità dell’Amaretto di Saronno la ritraggono al tavolino di un bar mentre scrive, e sotto lo slogan “Amaretto di Janowitz”. Non era un brutto momento per debuttare come scrittori.

Andy Warhol comprò subito i diritti cinematografici di Schiavi di New York. Morì poco dopo, il progetto con un doppio salto mortale finì nelle mani di James Ivory, regista lontanissimo dal mondo di Tama Janowitz: i suoi scrittori erano Edward Morgan Forster di Camera con vista e Henry James. Il critico Roger Ebert stroncò l’accoppiata: «il film è così brutto che dubito della mia opinione». Capita, anche nel caso di accoppiamenti più giudiziosi. Di culto, solo un balletto di drag queen, in abiti rosa e tacchi alti, per strada a New York.

La disegnatrice di gioielli Eleanor e Stash, che mette nei suoi quadri personaggi dei fumetti, tornano in vari racconti (ogni tanto lui se ne va, poi torna, e finalmente trovano un loft). Altro schiavo immobiliare — per il resto crede di essere un grande artista in rampa di lancio — è Marley Mantello. Coltiva un grande progetto, e cerca qualcuno che gli finanzi un viaggio a Roma.

Ha un appuntamento con il grande collezionista, Chuck Dade Dolger: «una specie di sofà umano compresso dietro il volante della macchina». La sua agente Ginger gli raccomanda: «ricordati di mangiare tanto, se no penserà che non vali niente» (Marley, a digiuno da giorni, scende i gradini del condominio sull’Avenue C a due per volta).

Il Grande Progetto (maiuscole nostre) è una Cappella di Gesù-Donna (maiuscole sue) accanto al Vaticano. Completa delle Stazioni della Via Crucis: la Rigovernatura dei Piatti, il Cambio dei Pannolini, l’Autoflagellazione allo Specchio. Ha il modello di business: biglietto a 75 cent, la più grande attrazione dopo Disney World. I suoi quadri non si vendono, lui ha la risposta pronta: «L’originalità non piace mai finché non trova imitatori».

“Una santa moderna” apre il frammentario romanzo. Sono squarci sulle vite degli aspiranti artisti (e sull’arte contemporanea). Servono soldi in fretta, la prostituzione è l’unico modo. Bob legge Kant e Heidegger, pappone candidato a due dottorati ma di nessun aiuto in caso di incidenti. Nelle prime righe, la varietà degli incontri sul lavoro: «raggrinziti, venati di blu, bisbetici, fatati, burloni, ardenti, crestati, profumati».

Fame, scrocco, euforia, delusioni, sono una costante nei 22 racconti (più 3 inediti). Alcuni intitolati “Casi”: il padre di Tama Janowitz era psichiatra. Il caso numero 4, ferma le ragazze per strada e le porta da Tiffany. Musicista disoccupato, quando la fanciulla ha scelto il gioiello finge di aver dimenticato la carta di credito. Ma prima, «in quell’oretta, si era sentito davvero in armonia con l’esistenza». Come in Colazione da Tiffany: «un posto dove non può succederti niente di male».

Il libro

Tama Janowitz, Schiavi di New York (Accento edizioni, Traduzione Rossella Bernascone, pagg. 368, euro 18)

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