Sembra impossibile che Dustin Hoffman compia (oggi) 85 anni. Sembra impossibile perché non riesco a togliermi dalla mente la sua faccia da ragazzo timido e impacciato de Il Laureato (’67) di Mike Nichols, il film che ha fatto da trampolino di lancio alla sua carriera (in realtà era già marginalmente apparso in alcune tv-series a partire dal ‘61 e in una particina nel film The Tiger Makes Out, commediola un po’ insulsa con Eli Wallach). Non riesco a togliermi dalla mente, soprattutto, alcune scene iconiche de Il Laureato dove, sui titoli di testa, il suo nome di esordiente viene dopo quello della diva Anne Bancroft.

Non mi tolgo dalla mente il viso allucinato di Hoffman inquadrato, nella locandina del film, sotto la coscia di Bancroft; la sua Alfa Romeo Duetto 1300 rossa a coda bombata (orgoglio italico); il suo urlo disperato “Elaine, Elaine!” mentre Katharine Ross si sposa con un altro in una orribile chiesa californiana nonché la rissa che ne segue; la sua fuga con la Ross ancora in velo bianco su un vecchio autobus; gli indimenticabili brani di Simon e Garfunkel.

Eppure – siccome il cinema, si sa, è finzione – in realtà Hoffman aveva 30 anni e la Bancroft, ingiustamente inchiodata al ruolo di milf, soltanto sei più di lui. “Ho vissuto al di sotto della soglia di povertà fino a 31 anni”, aveva raccontato tempo fa l’attore che, con gli amici e compagni di viaggio personale e professionale, Gene Hackman e Robert Duvall, ha passato giorni duri prima del successo.

Dopo aver frequentato con Hackman la Pasadena Playhouse, Hoffman si trasferì a New York dove i due si rincontrarono e convissero in un appartamento fra la 2nd Ave. e la 26th St. Casa piccolissima: entrambi dormivano sul pavimento della cucina, anche perché a loro si aggiunse Duvall. Faceva un po’ di tutto, Dustin, per tirare a campare: vendeva limonate nelle hall dei teatri, ma recitava anche a Broadway dove, nel ’66, fu votato miglior attore dell’anno e cooptato da Nichols che gli offrì un provino per Il Laureato (lo stesso anno anche Hackman ebbe il suo primo ruolo importante in Gangster Story, la storia di Bonnie e Clyde, di Arthur Penn).

Dustin racconterà poi che non pensava di essere adatto alla parte del giovane laureato perché il personaggio doveva essere “un po’ anglosassone, alto e snello” e invece lui era “basso ed ebreo”. Suo padre, infatti, Harry Hoffman, pur nato nel Massachusetts, era figlio di genitori ucraini ebrei e sua madre, Lillian Gold, nata a Chicago, discendeva da ebrei immigrati dalla Polonia e dalla Romania. Nonostante nel corso del provino per Il Laureato Hoffman dimenticasse le battute e fosse piuttosto goffo, fu preso da Nichols perché era proprio così che doveva essere il Benjamin Braddok del suo film. Due anni dopo altro film memorabile per Hoffman, già divo: Un uomo da marciapiede di John Schlesinger accanto a Jon Voight. Dustin fu scelto dal regista che lo vide in una piece Off-Broadway, ma fu sconsigliato dall’accettare da Nichols che lo aveva diretto in un ruolo così diverso. Dustin invece accettò interpretando un grande Rico Rizzo detto Sozzo, piccolo truffatore zoppo e malato che affianca e procura un incontro omosessuale al gigolò-cowboy interpretato dal papà di Angelina Jolie.

Temi scabrosi, per l’epoca, tanto che questo film, pur vietato ai minori di 17 anni, ha segnato una svolta anti-moralistica a Hollywood. Il brano che accompagna alcune scene del film (Everybody’s Talkin’ di Harry Nilsson) ebbe uno straordinario successo che oggi definiremmo con il brutto aggettivo “virale”. Seguono, fra gli altri, altri due film memorabili: Il piccolo grande uomo (’70), storia raccontata in flash-back a un giornalista da un Hoffman vecchio 120 anni e adottato dagli Cheyenne, per la regia di Arthur Penn, e il violentissimo Cane di paglia (’71) di Sam Peckinpah. Parentesi italiana con Alfredo Alfredo (’72), diretto da Pietro Germi e ancora il carcerario Papillon (’73) di Franklin Schaffner accanto a Steve McQueen, e poi Lenny (’78) sulla vita del comico Lenny Bruce di Bob Fosse, Tutti gli uomini del presidente (’76) dove è Carl Bernstein accanto al Bob Woodward interpretato da Robert Redford, i giornalisti del Washington Post che scoperchiarono il caso Watergate; e, ancora, per la regia di John Schlesinger, Il maratoneta (’76) nel quale Dustin torna un timido studente (un po’ come ne Il Laureato) che subisce l’orribile tortura dentistica dal nazista Laurence Olivier.

Tutti grandi film più o meno fino agli anni ’90 (Kramer contro Kramer, ’79, di Benton, in cui ‘combatte’ con Meryl Streep, Tootsie, ’82, un ‘en travesti’ di Pollack, il teatrale Morte di un commesso viaggiatore, ’85, da Arthur Miller, di Schlöndorff, Rain Man, ’88, di Levinson, con un Hoffman magistrale autistico accanto a Tom Cruise). Poi un graduale calo di intensità nei suoi ruoli, a volte anche decisamente commerciali. Lui se ne rende conto e lo spiega così: “La verità è che più invecchi, minore è la varietà di parti che ti vengono offerte. Se sei una star e hai trascorso gran parte della tua carriera in grado di scegliere tra i rifiuti, ti accorgi quando le offerte iniziano a diminuire. Sei troppo vecchio per interpretare un ruolo da protagonista, quindi ti viene offerto il ruolo di supporto, ma molte star non vogliono fare quella transizione. Lo vedono come un segno di impotenza simbolica. E che il pubblico non li considererà più una star. Amo recitare e non deciderò cosa faccio in base a ciò che temo possano pensare gli altri. Faccio quello che voglio fare“.

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