La tragica fine dei Romanov

La tragica fine dei Romanov

In una notte di luglio di cento anni fa l’impero dei Romanov in Russia giunse a una sanguinosa fine. Tenuti prigionieri per mesi dai bolscevichi, il deposto zar Nicola II, la moglie Alessandra e i cinque figli vennero brutalmente uccisi. Le loro morti hanno alimentato il mistero attorno al loro destino

I Romanov in una fotografia del 1913. Alle spalle di Nicola II e Alessandra si trovano le figlie Marija, Ol’ga e Tat’jana. La minore, Anastasija, è seduta sullo sgabello, mentre Aleksej è seduto a terra

I Romanov in una fotografia del 1913. Alle spalle di Nicola II e Alessandra si trovano le figlie Marija, Ol’ga e Tat’jana. La minore, Anastasija, è seduta sullo sgabello, mentre Aleksej è seduto a terra

Foto: Leemage / Prisma Archivo

La Rivoluzione russa scoppiò nel febbraio 1917. Un mese più tardi Nicola II, imperatore e autocrate di tutte le Russie, abdicò al trono, diventando semplicemente Nicola Romanov. Con la rivoluzione in patria e il catastrofico fallimento della Prima guerra mondiale all’estero, la dinastia dei Romanov, che nel 1913 aveva festeggiato tre secoli al potere, giunse a una rapida fine. Le forze bolsceviche tennero la famiglia prigioniera, spostandola di luogo in luogo, fino a una sanguinosa notte del luglio 1918 in cui furono tutti sterminati, vittime di un destino di cui si erano rifiutati di vedere le avvisaglie.

Con la testa nella sabbia

Per Nicola, salito al trono nel 1894 dopo la morte del padre Alessandro III, abdicare fu probabilmente un sollievo. Descritto come un uomo limitato e privo di immaginazione, non era adatto, né per capacità né per temperamento, a governare in tempi tanto turbolenti. Indeciso cronico, quando doveva dare un ordine rimandava fino all’ultimo istante, per poi ripetere semplicemente l’ultimo consiglio ricevuto, tanto che, secondo una battuta che circolava a San Pietroburgo, le due persone più potenti di Russia erano lo zar e chiunque gli avesse parlato per ultimo.

Nicola credeva fermamente nel suo diritto divino di regnare, convinzione condivisa dalla moglie Alessandra. L’Ochrana, la sua polizia segreta, un’organizzazione di violenti assassini, operava impunemente. Come leader, lo zar conobbe pochi successi. Dal 1904 al 1905 combatté e perse una guerra contro il Giappone, con un conseguente calo di prestigio sia in patria sia all’estero. Nel 1905 una rivolta interna lo costrinse a istituire la duma, un corpo legislativo eletto del quale limitò l’autorità prima ancora che si tenesse la sessione iniziale, nel tentativo di restare aggrappato al potere. E quando nel 1914 scoppiò la Prima guerra mondiale, Nicola guidò il suo popolo in un conflitto che avrebbe esaurito le risorse della nazione e sarebbe costato milioni di vite.

Ciononostante l’ultimo zar rimase cieco di fronte alla propria crescente impopolarità, convinto che il popolo lo amasse ugualmente. I suoi sudditi, però, avevano opinioni diverse. La propaganda bolscevica l’aveva soprannominato “Nicola il Sanguinario”.

La famiglia imperiale

Nicola era un uomo legato alla famiglia. Amava la moglie Alessandra e lei amava lui. In un’epoca in cui la regola generale era che i monarchi si sposassero per interessi dinastici più che per affetto, la loro era un’unione fortunata. Convolati a nozze nel 1894, i due ebbero l’una dopo l’altra quattro figlie: Ol’ga, Tat’jana, Marija e Anastasija. Aleksej, il tanto desiderato maschio nonché erede, nacque per ultimo, nel 1904. A detta di tutti, i Romanov erano una famiglia felice e unita.

Tedesca di nascita e nipote della regina britannica Vittoria, Alessandra aveva un carattere più forte e assertivo del marito. Il suo modo di fare introverso e distaccato le alienò le simpatie del popolo russo, che la vedeva come un’estranea. A differenza del marito, la zarina si rendeva conto della propria impopolarità, cosa che la rese ipersensibile, maniaca del controllo e paranoica. Sigmund Freud una volta osservò che una famiglia tende a organizzarsi attorno al suo membro più problematico. Per i Romanov era probabilmente Alessandra.

Aleksej, all'età di otto o nove anni, gioca con la collana di perle della madre in quest'immagine del 1913

Aleksej, all'età di otto o nove anni, gioca con la collana di perle della madre in quest'immagine del 1913

Foto: Michael Nicholson / Getty Images

Il suo carattere nervoso le assicurava l’attenzione costante del marito e delle figlie. Tra la più grande e la più piccola delle granduchesse correvano quasi sei anni. Le maggiori, Ol’ga e Tat’jana, venivano affettuosamente chiamate “la coppia grande”, mentre le più giovani, Marija e Anastasija, erano “la coppia piccola”. Tutti quanti stravedevano per il figlio minore, Aleksej. L’erede al trono era nato emofiliaco, problema che aveva ereditato dal ramo materno, e la sua salute divenne il fulcro delle loro esistenze. Quasi ogni attività comportava il rischio di un colpo o un taglio che avrebbe potuto scatenare catastrofiche emorragie. Nelle settimane di convalescenza, Alessandra dormiva sul pavimento accanto al suo letto. Aleksej era gentile, un po’ birichino e viziato dalla madre e dalle sorelle. In un’epoca in cui i genitori della classe alta mantenevano con i figli rapporti distanti, la fragilità fisica di Aleksej lo legò molto ai suoi. Rese inoltre la famiglia vulnerabile. E quando si presentò qualcuno in grado di sfruttare tale vulnerabilità, loro caddero completamente nelle sue mani.

Grigorij Rasputin, nato nella Siberia occidentale, era un sedicente uomo di Dio, rinomato per il comportamento licenzioso, le abilità curative e la capacità di predire il futuro. Non è chiaro se fosse un imbonitore o ritenesse realmente di avere poteri soprannaturali. I Romanov credevano ciecamente in lui: Rasputin ebbe una grande influenza sulla famiglia imperiale, soprattutto su Alessandra. Quando Rasputin conobbe i Romanov, nel 1905, la zarina era disperata. Proprio quell’anno la rivoluzione aveva quasi rovesciato la monarchia. La nascita di Aleksej, l’anno prima, le aveva dato l’erede nel quale lei sperava, ma l’emofilia del bambino, oltre a essere una tragedia personale, era anche una minaccia per la dinastia.

Grigorij Rasputin era un mistico di origini contadine la cui influenza sulla zarina alimentò un forte risentimento, culminato nel suo assassinio nel 1916, alla vigilia della rivoluzione

Grigorij Rasputin era un mistico di origini contadine la cui influenza sulla zarina alimentò un forte risentimento, culminato nel suo assassinio nel 1916, alla vigilia della rivoluzione

Foto: Fine Art / Album

La crisi politica e l’agonia materna permisero a Rasputin di insinuarsi in seno alla famiglia. Nel 1908 Aleksej soffrì di una forte emorragia, e il mistico riuscì ad alleviarne il dolore. Si narra che quest’ultimo avesse raccontato a Nicola e Alessandra che la salute del figlio sarebbe stata legata alla forza della dinastia. La sua abilità nel mantenere il bambino in salute gli avrebbe assicurato un posto a palazzo e il potere di influenzare lo zar. Girava voce che il comportamento depravato di Rasputin fosse arrivato fino a sedurre la zarina. Per quanto quasi sicuramente non sia stato l’amante di Alessandra, alla corte dei Romanov egli ebbe relazioni con un numero incredibile di donne. E ignorando le richieste di allontanarlo, Nicola fece ancora più arrabbiare il popolo russo: il desiderio di rendere felici la moglie e il figlio gli impedì di rimuovere la minaccia che incombeva sul suo impero.

Nel settembre 1915, nel corso della Prima guerra mondiale, Nicola si recò al fronte per prendere personalmente il comando delle forze russe. La zarina rimase a occuparsi delle questioni interne, e l’influenza che Rasputin aveva su di lei divenne evidente nella scelta che l’imperatrice fece di ministri incompetenti. Le perdite al fronte e la condotta di Rasputin in patria misero il popolo russo contro lo zar e la sua famiglia. I tempi erano maturi per una rivoluzione.

La vita in prigionia

Per i bolscevichi i Romanov divennero pedine di scambio e insieme un grande grattacapo. La Russia doveva negoziare la propria uscita dalla Prima guerra mondiale ed evitare nel contempo un’invasione straniera. I nemici della nazione avrebbero tenuto gli occhi puntati su di loro, per vedere che cosa ne sarebbe stato degli ex governanti; ma, rimanendo in vita, i Romanov avrebbero rappresentato un simbolo per il movimento monarchico. Alcuni volevano che fossero mandati in esilio, altri che subissero un processo per quelli che la popolazione percepiva come crimini, e altri ancora che scomparissero per sempre.

A marzo del 1917 a San Pietroburgo scoppiò una rivoluzione alla quale si unirono le truppe, come si vede in quest’immagine. Lo zar, considerato responsabile della crisi, si vide costretto ad abdicare

A marzo del 1917 a San Pietroburgo scoppiò una rivoluzione alla quale si unirono le truppe, come si vede in quest’immagine. Lo zar, considerato responsabile della crisi, si vide costretto ad abdicare

Foto: Bridgeman / Aci

A marzo del 1917 a San Pietroburgo scoppiò una rivoluzione alla quale si unirono le truppe, come si vede in quest’immagine. Lo zar, considerato responsabile della crisi, si vide costretto ad abdicare

 

 

All’inizio la famiglia fu mandata nel palazzo di Carskoe Selo. Per problemi di sicurezza, fu poi trasferita a Tobol’sk, a est dei monti Urali. Lì i Romanov non venivano trattati male. Nicola sembrava quasi rinato: si godeva la vita rurale e non sentiva certo la mancanza dello stress che essere zar gli procurava. Avevano mantenuto un seguito generoso – 39 servitori in tutto – e conservato molti beni personali, tra cui l’adorato album di fotografie di famiglia rilegato in pelle. In quei primi giorni di prigionia potevano ancora sognare un lieto fine. Avrebbero potuto raggiungere l’Inghilterra e vivere in esilio con il cugino britannico re Giorgio V. O, meglio ancora, magari gli avrebbero permesso di ritirarsi nella loro proprietà in Crimea, che aveva fatto da sfondo a molte estati felici.

Non capivano che, a poco a poco, tutte le vie di fuga si stavano chiudendo. Fino a che rimase solo la strada per Ekaterinburg. Quest’ultima era la città più radicalizzata della Russia, fortemente comunista e anti-zarista. «Andrei ovunque, tranne che negli Urali» si dice abbia affermato Nicola mentre il treno si avvicinava alla sua destinazione finale. Lì la famiglia alloggiava in un grosso edificio conosciuto come Casa Ipat’ev dal nome dell’ex proprietario. Un’alta palizzata in legno era stata innalzata per tagliare fuori il mondo esterno, e i confinati avevano l’uso di un giardino per fare esercizio. L’uomo al comando, Avdeev, era corrotto (la sua gente derubava liberamente i Romanov), ma non crudele. Le guardie erano persone comuni, reclutate dalle fabbriche dei dintorni, che con il passare del tempo entrarono in confidenza e fecero persino amicizia con i prigionieri. Non poteva durare. I bolscevichi rimpiazzarono Avdeev con Jakov Jurovskij, l’uomo che avrebbe orchestrato lo sterminio. Jurovskij reclutò guardie più severe e disciplinate. Mantenne un rapporto distante ma professionale con Nicola e Alessandra, persino mentre ne pianificava la morte. A Nicola, che ancora una volta fraintese la situazione, sembrava addirittura gradevole.

Gli ultimi giorni

Gli ultimi civili a vedere i Romanov vivi furono quattro donne portate dalla città per pulire Casa Ipat’ev. Marija Starodumova, Evdokija Semenova, Varvara Driagina e una non identificata quarta domestica diedero alla famiglia un briciolo di respiro dalla noia del confino e un ultimo contatto con il mondo esterno. La testimonianza di queste donne ci ha fornito un ritratto più umano della famiglia ormai condannata. Nonostante il divieto di parlare ai Romanov, le domestiche ebbero ugualmente l’opportunità di osservarli da vicino. All’inizio furono colpite dal contrasto tra i racconti sull’arroganza della famiglia, diffusi dalla propaganda anti-zarista, e le persone modeste che si trovarono davanti.

Anastasija, la più giovane delle figlie dello zar Nicola II in una fotografia priva di data

Anastasija, la più giovane delle figlie dello zar Nicola II in una fotografia priva di data

Foto: Everett Collection / Bridgeman / Aci

Le granduchesse erano ragazze normali. Quanto al povero, fragile Aleksej, a Evdokija Semenova sembrò la personificazione della sofferenza. Come molti prima di lei, la donna fu in particolar modo colpita dai suoi occhi dolci, che trovò pieni di tristezza. I Romanov, comunque, furono felicissimi del diversivo. Le sorelle si precipitarono ad aiutare a sfregare i pavimenti, cogliendo l’opportunità per parlare con le domestiche a dispetto delle regole. Semenova riuscì addirittura a dire qualche parola gentile ad Alessandra. Una delle scene che sia Semenova sia Starodumova ricordarono con grande chiarezza fu quando Jurovskij si sedette accanto allo zarevič (figlio dello zar), informandosi sulla sua salute. Una scena resa sinistra, in retrospettiva, dal fatto che Jurovskij era perfettamente consapevole che a breve sarebbe stato il carnefice del bambino.

I Romanov dovevano essere uccisi perché erano il simbolo supremo dell’autocrazia. L’ironia era che a Ekaterinburg i bolscevichi li avevano spogliati di ogni traccia di aristocrazia. Per dirla con le parole di Evdokija Semenova: «Non erano dèi. Erano persone normali come noi. Semplici mortali». La notte del 16 luglio fu inviato a Mosca un telegramma che informava Lenin della decisione di trucidare i prigionieri. All’una e trenta del mattino Jurovskij informò i Romanov che il conflitto tra le armate rossa e bianca stava minacciando la città e che, per la loro stessa sicurezza, dovevano essere trasferiti nel seminterrato.

Il seminterrato di Casa Ipat’ev, dove nel luglio 1918 venne uccisa la famiglia Romanov insieme alla servitù

Il seminterrato di Casa Ipat’ev, dove nel luglio 1918 venne uccisa la famiglia Romanov insieme alla servitù

Foto: Print Collector / Getty Images

L’ultima notte

Non ci sono prove che i Romanov non abbiano reagito con docilità. Portando in braccio lo zarevič, Nicola guidò in cantina la propria famiglia e i quattro servitori rimasti con loro: il medico di famiglia Evgenij Botkin, la cameriera Anna Demidova, il cuoco Ivan Kharitonov e il domestico Aleksej Trupp. Riuniti tutti insieme in quel luogo angusto e spoglio, apparivano ancora ignari del proprio destino. Furono portate tre sedie per Alessandra, Nicola e Aleksej, mentre gli altri rimasero in piedi. Jurovskij si avvicinò, con i carnefici dietro di lui sulla soglia, e lesse ai prigionieri attoniti una dichiarazione preparata: «Il praesidium del soviet regionale, adempiendo al volere della rivoluzione, ha decretato che l’ex zar Nicola Romanov, colpevole di innumerevoli sanguinosi crimini contro il popolo, debba essere fucilato».

Quando Jurovskij terminò la lettura, le guardie cominciarono a sparare. I racconti sono contrastanti, ma la maggior parte concorda nel dire che lo zar sia stato il bersaglio principale e che morì in seguito a diversi colpi di arma da fuoco. La zarina spirò per un proiettile in testa. Mentre la stanza si riempiva del fumo degli spari, tutta la disciplina del plotone svanì. Le granduchesse sembravano non essere state ferite dai proiettili, che erano rimbalzati sui loro corpi (si scoprì in seguito che, durante l’assalto iniziale, i gioielli tempestati di diamanti cuciti sui vestiti avevano agito come un’armatura). Uno dei carnefici – un ubriacone di nome Ermakov, – perse il controllo e cominciò a colpire i Romanov con una baionetta. Dopo venti minuti di puro orrore, l’intera famiglia e il seguito, colpiti da proiettili, armi da taglio o a mani nude, erano tutti morti.

Anastasija, Tat'jana, Ol'ga e Marija al palazzo di Alessandro nel 1917: si erano rasate la testa in seguito a un attacco di morbillo, come si faceva all'epoca

Anastasija, Tat'jana, Ol'ga e Marija al palazzo di Alessandro nel 1917: si erano rasate la testa in seguito a un attacco di morbillo, come si faceva all'epoca

Foto: Scala, Firenze

Gli undici corpi furono trascinati fuori di casa e caricati su una camionetta. Gli studiosi ritengono che i corpi siano stati dapprima scaricati in una miniera poco profonda chiamata Ganina Jama, che i bolscevichi tentarono di far crollare con delle granate. Ma il pozzo rimase intatto, così i corpi furono portati via in tutta fretta. Lungo il tragitto la camionetta si impantanò nel fango e due corpi, che ora si crede essere quelli di Aleksej e Marija, furono scaricati e gettati nella foresta. Gli altri nove furono cosparsi di acido, bruciati e sepolti in una fossa separata non molto lontano da lì.

La verità viene fuori

In seguito al massacro, quando si affrontava l’argomento i funzionari sovietici diventavano evasivi. Anche dopo aver annunciato la morte di Nicola, per un po’ sostennero che Alessandra e Aleksej fossero vivi in un luogo sicuro. I decessi sarebbero stati ufficialmente confermati solo nel 1926, e anche allora i bolscevichi rifiutarono di assumersi la responsabilità dell’esecuzione. Nel 1938 Iosif Stalin soppresse formalmente ogni discussione sul destino della famiglia, e nel 1977 fu demolita Casa Ipat’ev, decretata dal governo di «nessun valore storico».

Il silenzio forzato attorno al destino dei Romanov può aver represso la pubblica discussione, ma alimentò un’infinita curiosità. Nei decenni successivi spuntò un notevole numero di impostori, la maggior parte dei quali sosteneva di essere uno dei figli dello zar. Ogni volta che compariva un nuovo pretendente, la storia tornava a galla, impedendo che il mistero venisse definitivamente sepolto, come in molti invece speravano. Nel 1979 una coppia di investigatori dilettanti scoprì il luogo di sepoltura principale vicino a Ekaterinburg, ma il ritrovamento fu tenuto segreto fino a dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

Nel 1991, mentre in Russia si diffondeva una nuova rivoluzione, alcuni scienziati tornarono a Ekaterinburg per riscattare la storia. Esumarono i resti di nove persone, in seguito identificate come Nicola, Alessandra, Ol’ga, Tat’jana, Anastasija e le quattro persone del loro seguito. Il rinvenimento delle loro ossa diede inizio a un processo che ha consentito di portare alla luce sia gli orrori della loro morte sia il loro posto nella storia. Nel 1998 i resti furono sepolti nella cattedrale dei Santi Pietro e Paolo di San Pietroburgo, luogo tradizionale di sepoltura degli zar.

Teschio dello zar Nicola II sovrapposto a una sua fotografia secondo la tecnica usata da Sergej Abramov, che identifica le ossa attraverso misurazioni del cranio

Teschio dello zar Nicola II sovrapposto a una sua fotografia secondo la tecnica usata da Sergej Abramov, che identifica le ossa attraverso misurazioni del cranio

Foto: Laski / Getty Images

Nel 2000 la Chiesa ortodossa russa canonizzò Nicola, Alessandra e i loro figli come “martiri della passione”. A Ganina Jama – il primo luogo in cui i bolscevichi tentarono di disfarsi dei corpi – la Chiesa ortodossa russa costruì un monastero. Dove un tempo si ergeva Ipat’ev, nel 2003 fu consacrata la magnifica chiesa sul Sangue, divenuta da allora luogo di pellegrinaggio. Nel 2007, infine, furono trovati i resti di Aleksej e Marija, in seguito identificati grazie all’analisi del DNA. Qualcuno ha detto che le famiglie molto unite possono tagliarsi fuori dal mondo. Così è stato per i Romanov. Il loro egocentrismo gli ha impedito di accorgersi del pericolo, ma il loro amore li ha rafforzati, rendendone il confino sopportabile. Il fatto che fino alla fine siano almeno rimasti insieme è stata la più grande benedizione dei loro ultimi mesi.

Il 23 febbraio, giornata internazionale delle donne, migliaia di lavoratrici manifestano a Pietrogrado per chiedere più razioni di cibo, la fine della guerra e il diritto di voto

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