Brimstone: recensione del film con Dakota Fanning e Guy Pearce
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    Brimstone: recensione del film con Dakota Fanning e Guy Pearce

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    Negli ultimi anni, il cinema sembra avere riscoperto un genere spesso dato per morto, cioè il western. Autori come i fratelli Coen (La ballata di Buster Scruggs), Jacques Audiard (I fratelli Sisters) e Scott Cooper (Hostiles – Ostili) ed esponenti del cinema di genere come S. Craig Zahler (Bone Tomahawk) hanno declinato questo filone in varie forme, ravvivando il mito della frontiera americana e donando lustro al sudicio e polveroso Far West. Fra i tanti titoli che hanno percorso questa strada nel corso delle ultime annate cinematografiche c’è anche Brimstone di Martin Koolhoven, presentato alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia del 2016. Un’opera cupa e torbida, che riflette sul patriarcato, sugli estremismi religiosi e sull’impossibilità di fuggire dal proprio passato, con protagonisti Dakota Fanning, Guy Pearce, Emilia Jones, Kit Harington e Carice van Houten.

    Il western cupo e angoscioso di Martin Koolhoven

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    Nel corso di quattro capitoli (ognuno con un titolo biblico), percorriamo in avanti e all’indietro nel tempo la storia di Liz (Dakota Fanning), giovane madre muta che vive in relativa serenità, con la sua umile famiglia, nel vecchio West. La sua strada si incrocia con quella dell’inquietante Reverendo (Guy Pearce), il nuovo religioso della città, che Liz conosce molto bene. In un cammino torbido e particolarmente violento, scopriamo i dolorosi eventi che legano questi due personaggi, capaci di delineare un angosciante ritratto religioso e sociale.

    Nel corso di circa due ore e mezza, Brimstone ci accompagna in un lacerante viaggio fra le pieghe del fondamentalismo religioso, utilizzando i codici e le dinamiche del western per concentrarsi sulle storture della cultura patriarcale, i cui strascichi arrivano fino ai nostri giorni. Pearce dà vita a una delle più convincenti performance della sua carriera, nei panni di un uomo che, nonostante il ruolo ecclesiastico, si rivela più volte la personificazione stessa del male, vessando tutte le donne con cui entra in contatto con percosse fisiche e umiliazioni psicologiche.

    A contrastarlo è un’altrettanto efficace Dakota Fanning. L’ex bambina prodigio si cimenta in un ruolo che sembra quasi il contraltare della maligna hippy Lynette Fromme, da lei impersonata successivamente in C’era una volta a… Hollywood. La sua Liz è uno straordinario esempio di resilienza e pervicacia, perennemente in fuga da un passato che continua ad affacciarsi alla sua porta e a ghermirla coi suoi artigli.

    Brimstone: la spettacolarizzazione della violenza

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    Fra i maggiori pregi di Brimstone c’è la narrazione non lineare, che consente allo spettatore di addentrarsi nella personalità dei protagonisti e di cogliere le motivazioni delle loro azioni e dei loro comportamenti. Koolhoven riesce così nell’intento di fondere l’opprimente cultura religiosa olandese e il southern gothic americano con l’ambientazione western, trascinandoci in un racconto raggelante e privo di speranza, in cui la fede diventa un mezzo con cui giustificare e motivare le peggiori atrocità, soprattutto verso il genere femminile. In un periodo in cui l’attenzione sul tema della parità di genere è giustamente sempre più alta, Brimstone diventa così anche un feroce e impressionante saggio sulla condizione della donna nei secoli scorsi, e su come il concetto deviato di colpa in ambito religioso abbia sempre mietuto vittime.

    Koolhoven non indora mai la pillola, spettacolarizzando la violenza fino ad arrivare a un passo dal sadismo. Fra torture, frustate, impiccagioni e lingue tagliate c’è tutto il necessario per contorcere gli stomaci più deboli. Una scelta stilistica necessaria per rappresentare con dovizia di particolari una società sfibrante, in cui le donne vengono ammassate nei bordelli come merce in esposizione, circondate da brutalità e disumanità, e dove ogni tentativo di salvezza viene represso con la forza. Approccio che peraltro si riflette anche sull’impianto visivo, con dei cupi boschi e dei freddi interni che si sostituiscono alle immense praterie e ai suggestivi scenari desertici che siamo abituati ad associare al vecchio West.

    Brimstone: un trattato sull’odio e sulla sopraffazione

    Brimstone si rivela dunque un’opera decisamente atipica nel panorama delle grandi produzione contemporanee, capace di spaziare dal western all’horror e dal tragico racconto di formazione al più disperato revenge movie. Nonostante qualche perplessità sull’ultimo capitolo, quasi un oggetto estraneo rispetto agli altri per la maniera brusca e precipitosa con cui sono esposti gli eventi, e la mancanza di una vera e propria scena madre, resta la sensazione che l’opera di Koolhoven abbia raccolto molto meno di quanto meritasse, e che questo penetrante e a tratti respingente grido di dolore sia quantomai attuale.

    Il mefistofelico Reverendo di Pearce, con la sua vergognosa tendenza alla distorsione dei principi che professa per soddisfare le sue più sordide tentazioni, incarna alla perfezione l’innata fascinazione del genere umano per la sopraffazione e per l’odio, mentre Liz è l’emblema delle persone maltrattare e oppresse, che cercano da troppo tempo di guadagnarsi un angolo, anche piccolo e imperfetto, di pace e serenità. Nella nostra quotidiana lotta contro l’ostilità e i soprusi, ben vengano dunque opere come queste, in grado di scardinare le nostre certezze e di mostrarci l’origine e la propagazione del male.

    Overall
    7.5/10

    Verdetto

    Brimstone è un raggelante western fatto di ossessione, persecuzione e fondamentalismo, esaltato dalle ottime performance dei due protagonisti e da un impianto scenico cupo e angoscioso. Nonostante un finale abborracciato e la mancanza di una vera e propria scena madre, il film di Martin Koolhoven lascia il segno nell’animo dello spettatore.

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    Briganti: recensione della serie Netflix

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    Il filone del crime televisivo italiano, fortificato da prodotti come Gomorra – La serie e i suoi vari epigoni, risente ormai di una saturazione creativa, che costringe a cercare nuove strade e diverse atmosfere, magari attingendo alla storia nostrana dei secoli precedenti. Una necessità e allo stesso tempo una possibilità, colta con perfetto tempismo da Briganti, nuova serie originale Netflix italiana ambientata nel Sud Italia del 1862, scosso dall’Unità recentemente proclamata e protagonista del brigantaggio. Un fenomeno in bilico fra crimine e rivolta, che ha portato bande di uomini e donne a vivere ai margini della società, in aperto contrasto con lo Stato e con i clan rivali.

    Alla sceneggiatura troviamo il collettivo del GRAMS*, già coinvolto nei progetti di Baby e Non mi uccidere, ben radicati nel genere e nella cultura italiana. Alla regia troviamo invece Antonio Le Fosse, Nicola Sorcinelli e soprattutto Steve Saint Leger, già coinvolto in serie come Vikings, Vikings: Valhalla e Barbarians. Il risultato è un crime-western in 6 episodi decisamente anomalo per la produzione televisiva nostrana, dalle chiare ambizioni internazionali e con un’impronta moderna, che porta Briganti ad avere 3 personaggi femminili centrali, interpretati rispettivamente da Michela De Rossi, Ivana Lotito e Matilda Lutz (nota per L’estate addosso, Revenge e A Classic Horror Story). Premesse decisamente suggestive, depotenziate però da una sceneggiatura caotica e poco incisiva, soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi principali.

    Briganti: la nuova serie crime-western italiana di Netflix

    Briganti
    Cr. Francesco Berardinelli/Netflix © 2024

    Al centro della vicenda c’è Filomena (Michela De Rossi), donna di umili origini che dopo aver sensibilmente migliorato la propria condizione decide di fuggire da un matrimonio tossico e infelice. Finisce così per unirsi a un gruppo di briganti e avventurarsi insieme a loro nella ricerca del leggendario oro del Sud. Sulla sua strada, Filomena entra in contatto con altre donne temerarie come Michelina De Cesari (Matilda Lutz) e Ciccilla (Ivana Lotito) e con l’ambiguo cacciatore di taglie noto come Sparviero (Marlon Joubert). Inizia così una guerra fra briganti e fra lo Stato e gli stessi briganti, determinati a ottenere una rivincita nei confronti del neonato Regno d’Italia.

    La più evidente qualità di Briganti è il comparto tecnico, dal respiro internazionale e paragonabile per cura della messa in scena e dei dettagli a produzioni statunitensi ben più ricche. Le scenografie e i costumi sono di ottima fattura, ben lontani dallo scarso livello a cui ci hanno abituato le fiction storiche della televisione generalista. Gli scenari pugliesi (le riprese hanno avuto luogo fra Lecce, Melpignano, Altamura e Nardò) sono ben sfruttati in chiave narrativa e si trasformano al tempo stesso in rifugi per i protagonisti e in teatri di scontri particolarmente intensi. Una storia così specifica e locale diventa così paradossalmente un racconto in grado di attrarre spettatori di tutto il mondo, con conseguenze potenzialmente proficue sia per il turismo che per la riconoscibilità internazionale del Sud Italia, vera e propria miniera di scenari suggestivi.

    Una sceneggiatura fiacca e poco ispirata

    Cr. Francesco Berardinelli/Netflix © 2024

    Peccato che l’estrema cura estetica e produttiva non vada di pari passo con la sceneggiatura, che al contrario è fiacca e poco ispirata. La sottotrama più convincente, cioè il cammino personale di Filomena, mal si sposa con l’avventurosa caccia al tesoro che vede coinvolti i vari briganti e con le sfumature misteriose e mistiche di Michelina. Non aiuta alla resa complessiva la bidimensionalità di diversi personaggi, solo parzialmente compensata dal buon lavoro di caratterizzazione sulle protagoniste femminili, vero e proprio motore della serie. Lo stesso quadro del brigantaggio, importante per la storia italiana successiva tanto quanto l’epopea del Far West per gli Stati Uniti d’America moderni, è dato per scontato e affrontato con sfumature eccessivamente revisioniste e idealistiche.

    Diventa così difficile entrare in empatia con una storia che fatica ad accendersi, frammentata in troppe sottotrame e con personaggi non abbastanza carismatici da sorreggerle. Diventa così sempre più evidente il filo che lega Briganti alle sopracitate serie crime italiane, ovvero lo sfruttamento in chiave narrativa della criminalità e della violenza, condito da precise tipicità storiche e regionali. Una dinamica che nei casi migliori regala momenti particolarmente riusciti e intensi, in cui riecheggia la gloriosa tradizione degli spaghetti western, ma spesso finisce per ondeggiare pericolosamente verso la romanticizzazione o addirittura l’apologia della malavita. Considerando che all’interno del brigantaggio si possono rintracciare i primi semi di ciò che poi diventerà criminalità organizzata, stride ancora di più la scelta di caricare questi personaggi di ideali positivi.

    Briganti: il coraggio e l’ambizione non bastano

    Matilda Lutz in una scena di Briganti
    Cr. Francesco Berardinelli/Netflix © 2024

    Anche se i problemi sopracitati tarpano le ali all’intero progetto, non possiamo che guardare con favore alle recenti produzioni seriali Netflix italiane, dai risultati altalenanti ma accomunate dal desiderio di addentrarsi in territori poco esplorati. Serie come Luna nera, La legge di Lidia Poët, la recente Supersex e la stessa Briganti ci mostrano una serialità nostrana sempre più coraggiosa e ambiziosa, che ha però bisogno di sceneggiature più solide e centrate per lasciare il segno.

    Briganti è disponibile dal 23 aprile su Netflix.

    Overall
    5/10

    Valutazione

    Briganti si rivela una serie ambiziosa e capace di osare, ma è penalizzata da una scrittura fiacca, caotica ed eccessivamente revisionista.

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    Ticket to Paradise: recensione del film con George Clooney e Julia Roberts

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    Dopo il periodo d’oro fra anni ’90 e 2000, le commedie romantiche statunitensi hanno vissuto un evidente appannamento, che ha quasi portato alla dissoluzione di un genere fondamentale per la produzione hollywoodiana. Negli ultimi tempi, le rom-com hanno però dimostrato di avere la pelle dura, dal momento che diverse generazioni di star si sono cimentare in questo filone, con apprezzabili risultati commerciali. Ci riferiamo soprattutto a Fidanzata in affitto, con protagonista la vincitrice dell’Oscar Jennifer Lawrence, e a Tutti tranne te, forte della presenza delle stelle in ascesa Sydney Sweeney e Glen Powell. A precedere questi titoli di successo è però stato Ticket to Paradise, rom-com a sfondo esotico con protagonisti due volti per eccellenza di questo filone, ovvero Julia Roberts e George Clooney.

    A dirigere i due (già insieme sul grande schermo in Ocean’s Eleven, Ocean’s Twelve e Money Monster – L’altra faccia del denaro) c’è Ol Parker, noto soprattutto per la regia di Marigold Hotel, Ritorno al Marigold Hotel e Mamma Mia! Ci risiamo. George Clooney e Julia Roberts interpretano rispettivamente David e Georgia, ex coniugi costretti a convivere dalla loro figlia Lily (Kaitlyn Dever), in procinto di sposarsi con un giovane coltivatore di alghe di Bali. Nonostante il rancore reciproco, i due si dirigono in Indonesia (anche se Ticket to Paradise è girato in Australia) e collaborano per il loro comune scopo, ovvero sabotare un matrimonio che considerano affrettato e ricondurre Lily verso il tenore di vita che hanno sempre immaginato per lei.

    Ticket to Paradise: il ritorno alla rom-com di George Clooney e Julia Roberts

    Ticket to Paradise

    Non è Il matrimonio del mio migliore amico ma l’imminente sposalizio di una figlia a fare da motore narrativo di un racconto che non vuole né sorprendere né stravolgere formule consolidate e quasi sempre vincenti. I colpi di scena sono ampiamente prevedibili, come la conclusione delle varie sottotrame. Ma ciò che interessa a Ol Parker non è tanto l’intreccio, quanto piuttosto la valorizzazione delle due star protagoniste, che a loro volta ricambiano il regista con il loro irraggiungibile campionario di smorfie, leggerezza e ironia e con la chimica che si può stabilire solo fra interpreti di classe e capaci di rispettarsi ed esaltarsi a vicenda.

    Lo scontro generazionale e ideologico fra l’ex coppia e quella in divenire pende inevitabilmente a favore degli interpreti più esperti e amati, che da spalle si trasformano in protagonisti della storia, mangiandosi di fatto tutto il resto. Julia Roberts e George Clooney. non si limitano al compitino, ma danno invece la sensazione di divertirsi realmente, al punto che i bloopers a cui assistiamo durante i titoli di coda sono sostanzialmente indistinguibili per tono e atmosfere della vicenda che li vede protagonisti. Il risultato è che Ticket to Paradise funziona e diverte, nonostante succeda esattamente ciò che ci aspettiamo, oltretutto con una scrittura non particolarmente originale, incentrata soprattutto sulle divergenze culturali e linguistiche e sugli scenari esotici, suggestivi e al tempo stesso forieri di vari pericoli.

    Un racconto convenzionale ma con elementi di modernità

    Quello che con interpreti meno abili e carismatici si sarebbe con ogni probabilità trasformato in uni dei tanti film usa e getta presenti nei cataloghi delle varie piattaforme diventa invece un’opera gradevole e sorprendentemente profittevole, grazie ai 168 milioni di dollari di incasso ottenuti in un momento in cui le sale risentivano ancora degli effetti del Covid. Ci si ritrova così a parteggiare per queste fragili coppie, a perdersi nei loro ammiccamenti e a farsi conquistare dai loro balli. Momenti di cinema capaci di colmare le approssimazioni di sceneggiatura e di ribadire l’importanza dello star power, nonostante i mutamenti del pubblico e dei suoi gusti.

    Non ci può essere una rom-com senza una sorta di morale di fondo, capace di racchiudere il senso dell’intera vicenda. Ticket to Paradise conferma questa regola non scritta, contraddicendo parzialmente le premesse (David e Georgia non sono mai così nemici come dicono e la stessa battaglia contro il matrimonio è meno aspra di quanto dichiarato) e mettendo in luce il fatto che quelli che spesso chiamiamo sbagli da non ripetere sono invece una mera conseguenza dell’imponderabilità della nostra esistenza. Emergono inoltre anche alcuni elementi di modernità, come la crisi del maschio rappresentato da George Clooney (sempre nevrotico e meno realizzato dell’ex moglie) e il desiderio di benessere interiore tipico del post-covid, che porta i personaggi a sacrificare comodità e potenzialità delle città in nome di una vita più rilassante in un paradiso naturale.

    Nel momento in cui scriviamo, Ticket to Paradise è disponibile su Netflix.

    Ticket to Paradise

    Overall
    7/10

    Valutazione

    George Clooney e Julia Roberts dimostrano ancora una volta il loro carisma e la loro alchimia, caricandosi sulle spalle una gradevole rom-com.

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    E la festa continua!: recensione del film di Robert Guédiguian

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    E la festa continua!

    «Niente è finito, tutto comincia». Una frase chiave di E la festa continua!, che sintetizza perfettamente il senso del nuovo film di Robert Guédiguian e del suo cinema sociale. Il regista francese torna nella sua amata Marsiglia per un racconto di sconfitti e sconfitte ma paradossalmente intriso di speranza, che muove i propri passi dalla tragedia di Rue d’Aubagne del 5 novembre 2018, quando 8 persone morirono a causa del crollo di due palazzi. Un evento evocato dall’eloquente didascalia «Improvvisamente, un fracasso terribile», che ha dato vita a una vera e propria mobilitazione popolare, all’insegna della solidarietà e del senso di appartenenza a una comunità ferita ma mai doma.

    La moglie e musa del regista Ariane Ascaride (Coppa Volpi a Venezia nel 2019 per Gloria Mundi dello stesso Robert Guédiguian) interpreta la vedova Rosa, anima del suo quartiere popolare, per il quale si divide fra impegno politico e il lavoro come infermiera, nonché della sua numerosa e coesa famiglia. Una famiglia di origini armene (come del resto Guédiguian) e di grande impegno civico, esplicitato dai nomi della protagonista (omaggio a Rosa Luxemburg) e di suo fratello Tonio (Gérard Meylan), chiamato così in onore di Antonio Gramsci. Quando il figlio Sarkis (Robinson Stévenin) inizia una nuova relazione con l’attrice e attivista Alice (Lola Naymark), Rosa fa la conoscenza del padre di lei Henri (Jean-Pierre Darroussin), con cui inizia a sua volta una relazione, in grado di cambiare il suo punto di vista sulla vita e sul futuro.

    E la festa continua!: l’umanità fragile ma mai arrendevole di Robert Guédiguian

    Robert Guédiguian ha definito E la festa continua! un film Agit-Prop, termine che nella Russia rivoluzionaria e successivamente in Germania indicava forme di teatro particolarmente dinamiche e creative, in grado di indagare lo spirito del tempo e i repentini mutamenti sociali. In questa storia in cui la modernità e il passato vanno a braccetto, entrambi sconfitti ma mai arrendevoli, si respira in effetti una vitalità anomala per il sempre più cupo cinema europeo contemporaneo, basata su un’umanità ancora in grado di unirsi di fronte alle difficoltà, pur nella consapevolezza della dimensione utopica di determinati valori e ideali.

    E la festa continua! non è un film politico in senso stretto, nonostante la protagonista Rosa sia la leader carismatica e ideologica del suo quartiere, quasi costretta a furor di popolo a candidarsi per le imminenti elezioni. Ciò che interessa a Robert Guédiguian non è tanto la lotta di classe mista a critica sociale di Ken Loach, quanto la fotografia disincantata di un’umanità fragile ben rappresentata da Marsiglia, città antica e sul mare, crocevia di popoli e di speranze. Un luogo in cui convivono idee e desideri contrastanti, come nel nucleo familiare di Rosa, animato al tempo stesso da ideali politici, suggestioni sentimentali, desideri di costruire una nuova famiglia e sostegno alla causa armena. Temi su cui il regista vola con leggerezza, fra un rimando a Marcel Proust e una citazione a Il disprezzo di Jean-Luc Godard.

    La solita formidabile Ariane Ascaride

    Si ha più volte la sensazione che E la festa continua! stia andando in molte direzioni e al contempo da nessuna parte, ma Robert Guédiguian riesce comunque a tratteggiare momenti struggenti, come la tenerezza ironica e trattenuta di Rosa e Henri. Grazie anche alla solita formidabile Ariane Ascaride, capace di tratteggiare un mondo intero con un gesto o uno sguardo, ci si affeziona a questo microcosmo di contraddizioni, tragedie e personaggi imperfetti, capaci di sperare e di innamorarsi ancora, anche mentre il mondo va a rotoli. Un cinema in controtendenza rispetto ai racconti cupi e sofferti del cinema europea contemporaneo, che non vuole né scuotere né travolgere ma riesce ad accarezzare lo spettatore, ricordandoci che la gioia più intima e inaspettata spesso si nasconde dove meno ce lo aspettiamo.

    E la festa continua! è disponibile nelle sale italiane dall’11 aprile, distribuito da Lucky Red.

    Overall
    6.5/10

    Valutazione

    Robert Guédiguian firma un’opera intima e leggera, che non travolge ma accarezza lo spettatore con il ritratto di un’umanità disillusa ma ancora piena di speranza.

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