Vino, è biologico un vigneto su cinque ma i consumatori non lo comprano - la Repubblica
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Vino, è biologico un vigneto su cinque ma i consumatori non lo comprano

Vino, è biologico un vigneto su cinque ma i consumatori non lo comprano
Il vino green incide per l'1,2% in volume sulle vendite nei negozi e al supermercato, secondo i dati Uiv. Cotarella (Assoenologi): "I contributi pubblici attirano i viticoltori, ma su chi compra ha poco appeal". Frescobaldi: "Rivedere i disciplinari"
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Il vino biologico? Tutti lo vogliono ma nessuno (o quasi) se lo piglia. A fronte di un vigneto italiano coltivato con metodo biologico in crescita significativa, che lo scorso anno è arrivato a toccare il 20% del totale, la produzione vale meno della metà, il 7%. E se si parla di consumi, incide per l'1,2% dei volumi (che significa 8 milioni di litri) e il 2% dei valori delle vendite complessive di vino ( 45 milioni di euro) nella grande distribuzione e retail italiana. Dati che fanno riflettere per due motivi: in primis perché il vigneto non restituisce quanto ci si aspetterebbe in termini di produzione, dimostrando una notevole discrepanza. In secondo luogo, sorprende che in una fase storica in cui l’attenzione all’ambiente e al benessere è sempre più diffusa, i consumatori in realtà nella scelta di fronte allo scaffale non mostrano una propensione ad acquistare vini certificati biologici. Anzi, i numeri, riferiti alla grande distribuzione e al retail, mostrano il contrario.  

“Il biologico? C’è, ma si vede ancora poco”, dice Lamberto Frescobaldi, presidente di Unione italiana vini, nel corso di un intervento all’inaugurazione dell’anno accademico, a Firenze, dell'Accademia della vite e del vino. “A livello di vigneto, un grande cambiamento a cui abbiamo assistito negli ultimi 20 anni è stato determinato dall’investimento nel biologico – è la riflessione del presidente di Uiv - Oggi sono coltivati a bio oltre 130.000 ettari, il 20% del totale Italia”.  Ma è il consumo a rilevarsi a dir poco scarso. “Sul mercato questo prodotto potenziale arriva a stento – spiega Frescobaldi - in termini di volumi di vino prodotto, non si supera il 10% (7% per la precisione, ndr), e si scende addirittura all’1% quando si pesano le vendite di vino bio sul totale veicolato dalle imprese tra mercato interno ed estero”. La discrepanza fra vigneto e produzione è dovuta al fatto che i vini nati da uve biologiche non sono rivendicati come vini biologici.

In pratica, il passaggio dal campo alla tavola del vino bio non è fluido come il prodotto farebbe pensare. Il vino green subisce infatti una riduzione importante già a partire dalla sua vinificazione, quando circa il 50% del prodotto non viene rivendicato come biologico. Il residuo finirà però sugli scaffali di mezzo mondo? Non è così: i volumi dal prodotto vinificato a quello imbottigliato - e quindi pronto alla vendita - subisce la sua riduzione più drastica. Alla fine tra gli scaffali troviamo solo 1/7 dei volumi vinificati come bio. Evidentemente per scelta commerciale è preferibile vendere il prodotto come non biologico. In estrema sintesi, solo l’1% dei calici di vino tricolore consumati in Italia e nel mondo è certificato biologico. “È un mercato di super nicchia”, sintetizza Frescobaldi.

Ma quali sono le motivazioni che si nascondono dietro questo particolare fenomeno? “Il biologico è nobile nell’intenzione ma problematico nei fatti – dice il numero uno di Assoenologi, Riccardo Cotarella – È come dire: ho il virus e mi bevo un bicchiere di latte. Lo scorso anno, i vigneti italiani sono stati devastati dalla peronospora, e quelli che hanno sofferto di più sono proprio quelli coltivati con metodo biologico. Il patogeno attacca prima quel tipo di vigna. Tutti noi siamo sempre più attenti a quello che mangiamo e beviamo. Ma c’è chi fa le pulci al vino e poi si avvelena con l’aria e con altre schifezze...”. 

Ma c'è dell'altro: anche la burocrazia ha il suo peso. “Uno dei motivi della differenza tra i numeri del vigneto bio e quelli della produzione dei vini green è da ricercarsi nelle norme – dice Frescobaldi – Una cosa è coltivare la vigna, un’altra è imporre al vino una solforosa molto bassa: sui prodotti da lungo invecchiamento non fuziona. E se lavori rispettando i disciplinari, ti rendi conto che una cosa è la vigna e un‘altra la bottiglia. Quindi secondo me il disciplinare dovrebbe essere adeguato alle esigenze del viticoltore, soprattutto se lo scopo è fare un vino che abbia le caratteristiche per invecchiare bene”.

Ma come mai il vigneto vale il 20% e il consumo l’1%? “Difficile rispondere - dice Frescobaldi - forse nella testa delle persone che fanno la spesa la parola "bio" è meno attraente di un tempo. E poi in realtà, oggi più che mai, l'aspettativa di chi compra è che qualsiasi prodotto debba avere rispetto della natura. Quindi il valore che viene dato a un prodotto classificato come biologico forse non è così importante e rivelante rispetto alle merci non inserite nella categoria. A volte mi è stato detto: io preferisco un prodotto sostenibile a uno bio. Dalla mia esperienza nel mondo del vino, inoltre, emerge spesso che alla certificazione biologica sono più interessati i buyer che i clienti”.

Ma dietro al fatto che molti viticoltori non rivendichino la coltivazione biologica in etichetta c'è anche un motivo economico. Lo sottolinea Cotarella: “C’è maggiore interesse al biologico a livello di vigneto rispetto al consumo perché chi coltiva con metodo bio prende il contributo pubblico che è sui 700 euro a ettaro, un contribuito a fondo perduto di certo utile”. E quindi apporre il bollino sulla bottiglia diventa secondario per alcuni produttori, ma evidentemente anche per chi compra. “Il consumatore è attento alle certificazioni, ma fino a un certo punto - chiosa il numero uno di Assoenologi - La certificazione biologica è un valore aggiunto più nei Paesi Scandinavi, ma da noi non ha quell’appeal nel consumo che si sperava. Del resto, spesso chi compra al supermercato non va troppo per il sottile”. Di fronte agli scaffali, chi acquista vino sceglie il più conveniente e/o quello che gli piace di più.

Dati analoghi provengono anche da oltre oceano. Se si guarda all’incidenza negli Stati Uniti, il vino italiano biologico vale ben poco: si parla dello 0.6%. Infatti, se l’import di vino italiano da parte degli Stati Uniti pesa in tutto per circa 2 miliardi di dollari, i prodotti riconosciuti organic valgono 12,6 milioni di dollari, come emerge dai dati dell'American Association of Wine Economists (AAWE). A tal proposito va precisato che gli Usa adottano standard diversi: i vini per essere considerati biologici devono avere zero zolfo. Per questo molti vini biologici per l’Italia non possono essere chiamati organic negli Stati Uniti, ma possono riportare solo la dicitura “vini con uve biologiche”. Negli Stati Uniti, in tutto, solo il 2% di vino importato è biologico (pari a 159 milioni di dollari su un totale di 6.690 milioni di dollari): di questo, l’80% è neozelandese, l’7,8% è italiano. E l’87% dei vini bio importanti in America sono bianchi.

Quindi qual è la conclusione, considerando che sono ormai anni che il tema del biologico tiene banco nel dibattito fra i winelover? “Ben venga la coltivazione biologica dove si può fare – dice Cotarella - I rischi sono tanti, certo questo miraggio del contributo attira. Ma molti produttori continueranno a non rivendicarlo perché la certificazione sta dimostrando di non avere questa grande importanza per chi compra”.

“Onore a chi ci prova e a chi fa il bio con passione- chiosa Frescobaldi - La cosa bella di questo settore è che ci sono tante sfumature e non c’è una vera regola fissa. E tanti consumatori sono attenti e curiosi. Teniamoci quindi stretto questo ventaglio di sfumature che ci dà il permesso e l'opportunità di essere produttori in collina, al mare, sulle isole, in  montagna, sulle sabbie e sulle argille, sempre tutti sotto lo stesso cappello. Tanti consumatori non vogliono nulla di codificato. E questa diversità è il nostro successo”.