VISCONTI, Bernabò in "Dizionario Biografico" - Treccani - Treccani

VISCONTI, Bernabò

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 99 (2020)

VISCONTI, Bernabo

Andrea Gamberini

VISCONTI, Bernabò. – Figlio secondogenito di Stefano Visconti e di Valentina di Bernabò Doria, nacque intorno al 1323 nel monastero milanese di S. Margherita, dove la madre aveva trovato rifugio per il parto mentre il marito era costretto fuori città.

Studiò diritto canonico e fu avviato alla carriera ecclesiastica, come ricorda anche l’arcivescovo di Milano Guido Antonio Arcimboldi in una lettera del 22 giugno 1494 (L. Ferrario, Trezzo e il suo castello, 1867, p. 34 nota 2). Ricevette ancora fanciullo alcuni benefici a Carimate, a San Giovanni a Monza e presso il capitolo maggiore della cattedrale ambrosiana. Già nel 1339 partecipò, unitamente agli zii Luchino e Giovanni, alla difesa di Milano contro Lodrisio Visconti: il progetto di vita consacrata era insomma stato archiviato.

Le fonti tacciono sugli anni immediatamente successivi, se non per segnalare la rottura con lo zio Luchino, forse legata alla volontà del dominus Mediolani di eliminare dalla scena politica i nipoti, visti come ostacolo ai suoi progetti di successione dinastica (Matthie Nuewenburgensis Chronica..., a cura di A. Huber, 1868, p. 270 nota 1).

Non incoerente con questo quadro la versione di Bernardino Corio (Storia di Milano, a cura di A. Morisi Guerra, 1978, I), che colloca l’allontanamento di Visconti da Milano nell’ottobre 1345 e lo riconduce a un «grandissimo suspecto» maturato in quei giorni da Luchino e alimentato dal ricordo della partecipazione di Bernabò e Galeazzo II alla congiura ordita contro di lui nel 1340 da Francescolo Pusterla (pp. 748, 760).

Va collocato in quella temperie anche un episodio narrato anni dopo dallo stesso Bernabò: in una minacciosa lettera indirizzata nel 1383 al nipote Gian Galeazzo, egli affermava di essere poco propenso a tollerare le offese e a tal proposito rammentava di quando, appena diciassettenne e ancora scolaro, aveva ucciso il medico dello zio Luchino, colpevole di averlo diffamato.

Lo scontro con Luchino condusse Visconti e Galeazzo II dapprima alla corte del conte di Savoia, quindi nel Vaud, presso la zia Caterina Visconti, moglie di Raoul III di Brienne, infine a Parigi. Mentre Visconti pianificava il proprio rientro e l’eliminazione dello zio, giunse la notizia della morte di quegli nel gennaio 1349: il potere passò nelle mani dell’arcivescovo Giovanni e questi richiamò i due nipoti. Negli anni immediatamente successivi Visconti fomentò l’avversione dello zio verso Luchino Novello, l’erede dello scomparso signore, costringendolo ad abbandonare Milano con la madre.

Dal dicembre del 1350 avvicendò il fratello Galeazzo al comando delle truppe che avevano preso il controllo di Bologna e per questo incorse nelle censure ecclesiastiche minacciate da Clemente VI contro l’arcivescovo Giovanni, il nipote Galeazzo e tutti i loro coadiutori, e divenute esecutive l’8 aprile 1351, alla scadenza dell’ennesima proroga accordata ai reprobi affinché ritornassero sui loro passi. Rientrò in comunione con la Chiesa solo il 27 aprile 1352, previa ammissione dei propri errori e riconoscimento dell’alto dominio della Sede apostolica su Bologna. Nel 1354, profittando del colpo di mano di Fregnano della Scala contro Cangrande II, si presentò sotto le mura veronesi con 800 barbute, rivendicando – ma senza successo – i diritti di successione della moglie Regina, figlia di Mastino II e sorella dello stesso Cangrande II, che egli aveva sposato a Milano il 27 settembre 1350 (un epitalamio fu composto in occasione delle nozze: cfr. A. Hortis, Scritti inediti..., 1874, pp. 57-59.).

Alla morte dell’arcivescovo Giovanni (1354), il consiglio generale del Comune di Milano diede mandato a Boschino Mantegazza di conferire la signoria ai nipoti del presule, i quali accettarono, richiedendo però un lodo per ripartire fra i tre i beni ereditari dello zio e lo stesso dominio. A Bernabò andarono inizialmente due porte di Milano, unitamente alle città e alle terre orientali: Bergamo, Brescia, Cremona, Crema, Soncino, la Val Camonica, la Riviera del Garda, Rivolta e Caravaggio. Dopo la morte di Matteo – scomparso nel 1355 in circostanze non del tutto chiare, che alimentarono sospetti sui suoi fratelli – toccarono a Visconti anche Lodi, Parma, Bologna, Melegnano, Vaprio e Pandino (oltre ai contadi della Martesana e della Bazana).

Quanto alla residenza, dopo aver ricevuto dallo zio arcivescovo la dimora di San Giorgio a Palazzo, egli scelse il palazzo già di Luchino, presso S. Giovanni in Conca, dove fu costruita anche la dimora della moglie Regina: un complesso residenziale ampio e fortificato, collegato grazie a un sistema di ponti e passerelle aeree al palazzo dell’arengo e alle altre case possedute dalla parentela nel sestiere di Porta Romana, in quella che era ormai nota come la «contrata de Vicecomitibus» (Rossetti, 2014, pp. 18-37).

I Visconti non si contentarono tuttavia della sola legittimazione dal basso e ricercarono anche una sanzione dall’alto. Secondo la ricostruzione di Giacinto Romano (I documenti viscontei..., 1898, pp. 13-15), ciascuno dei tre fratelli ottenne nel dicembre del 1354 il vicariato sui suoi domini particolari, nonché una concessione collettiva su Milano. Quest’ultima fu confermata l’8 maggio 1355, con esplicito riferimento a Milano, a Genova, alle Riviere e a tutte le terre e città citramarine e ultramarine appartenenti all’Impero e rette dai Visconti, con l’eccezione di quelle spettanti alla Chiesa.

La politica espansionistica dei Visconti, benché fino a quel momento non coronata da successo (Pavia, Lucca e Reggio non erano cadute e similmente resisteva Bologna, ancora nelle mani del ribelle Giovanni Visconti da Oleggio), suscitò un’ampia reazione, con attacchi ai possessi viscontei condotti da più direzioni e da più attori: non solo Firenze, gli Este, i Gonzaga e il papa, ma da ultimo anche il vicario generale di Carlo IV per l’Italia, Marquardo di Randeck, che li citò per tradimento e lesa maestà e minacciò di privarli del vicariato qualora contumaci. La replica dei due fratelli, non meno virulenta, fu affidata nell’ottobre del 1356 alla penna di Francesco Petrarca, all’epoca ospite illustre in Milano.

Il rapporto di Bernabò con Petrarca è attestato almeno dal novembre del 1353, quando il poeta figura come padrino del suo primogenito, Marco, cui donò una coppa d’oro e al quale scrisse un’epistola augurale (Epyst., III 25). Petrarca tenne poi l’orazione per la morte dell’arcivescovo Giovanni e l’insediamento dei nipoti. Per conto di Bernabò, in particolare, scrisse nel 1357 per ben due volte contro Pandolfo Malatesta, condottiero già al servizio dei signori di Milano, accusato di avere una relazione con l’amante di Visconti, Giovannola di Montebretto (Giovannina Montebretto: Disp. 37 e 38). Altrettanto sferzanti sono le lettere indirizzate a Jacopo Bussolari, che guidava la resistenza di Pavia contro i Visconti: se nella prima (25 marzo 1359, Fam. XIX 18) il frate è accusato di agire tirannicamente e contro la pace, nella seconda, vergata mentre le truppe viscontee assediavano la città (ottobre 1359, Disp. 39), i toni si fanno sarcastici, con la richiesta ai Pavesi affamati di risparmiare almeno i cani, animali verso i quali Bernabò aveva una predilezione.

Sempre Petrarca si fece carico di rintuzzare nel 1373 le accuse di sacrilegio mosse a Visconti per la collocazione del suo monumento equestre in S. Giovanni in Conca (Contra eum qui maledixit Italie): a frate Jean de Hesdin, che scrisse di avere visto un «abominabile idolum super altare Dei, hominis scilicet armati imaginem, sedentis super equum de candido marmore fabricatum, et in loco ubi Corpus Christi sacratum consuevit locari vel reponi collocatum» (Magistri Iohannis De Hysdinio invectiva..., a cura di E. Cocchia, 1920, pp. 124 s.), replicò il poeta che la statua si trovava non già sull’altare, ma in una cappella, aggiungendo sarcasticamente che se non fosse stato soddisfatto della risposta, avrebbe potuto interrogare direttamente l’uomo raffigurato nel monumento (Vergani, 2012, pp. 203 s.). Circa poi l’effettiva ubicazione del monumento, Pietro Azario conferma la collocazione «super altari, dico in superficie ipsius altari» (Petri Azarii Liber gestorum..., a cura di F. Cognasso, 1926-1939, p. 133).

Allo scambio di invettive fra Marquardo e i Visconti seguirono le operazioni militari, che portarono le truppe imperiali capitanate da Lutz von Landau a scorrazzare nell’alto Milanese e nel Pavese, fin quando a Casorate (novembre 1356) esse non furono sconfitte. La battaglia interruppe però solo momentaneamente la disarticolazione del dominio ereditato dall’arcivescovo Giovanni: dopo Asti, Novara e altri centri subalpini, anche Genova si sottrasse ai Visconti. Benché i due fratelli concertassero la linea politica e militare, Visconti risulta attivo prevalentemente sul fronte orientale, da Mantova all’Emila, quello più prossimo alle terre sotto il suo governo.

L’8 giugno 1358 fu ratificata la pace fra i Visconti e i collegati, che ristabiliva lo status quo ante, con Novara e Alba nuovamente sotto Galeazzo. Ma altrettanto efficacemente si mosse Bernabò. Nello stesso giorno, una duplice investitura feudale gli permise di affermare il suo alto dominio sui Gonzaga. Visconti indusse, infatti, Luigi Gonzaga a concedergli in oblazione tutti i beni patrimoniali del casato, poi restituiti a titolo feudale; con atto separato concesse quindi in feudo allo stesso Luigi la torre di Borgoforte e le città di Mantova e Reggio, con il mero e il misto imperio. Solo nel 1383, adducendo il clima di costrizione in cui sarebbe avvenuta l’infeudazione, i Gonzaga ottennero da Venceslao di Boemia lo scioglimento dai vincoli feudali (A. Gamberini, Bernabò e i suoi vassalli, in corso di stampa).

Frattanto, però, le guerre erano riprese. Nel 1359 Bernabò Visconti fornì contingenti al fratello, impegnato nella conquista di Pavia, mentre nel 1360 attraverso la via del feudo oblato affermò il suo alto dominio sul Saluzzese, assumendo il titolo di marchio Saluciarum superior. Meno bene andarono invece le operazioni per il recupero di Bologna. Dopo il colpo di mano dell’Oleggio, Visconti aveva ottenuto, al termine di estenuanti trattative, il vicariato papale sulla città felsinea (20 dicembre 1357), sennonché il cardinale legato Albornoz, favorevole a un recupero diretto da parte della Chiesa, indusse il pontefice a cambiare linea e a venire meno agli accordi con Visconti.

Ad Avignone il 24 agosto 1360 si aprirono ben due processi canonici contro Visconti: il primo proprio per la vicenda bolognese, per la quale si contestava al signore di Milano una condotta incoerente con il suo ruolo vicariale, il secondo – quasi un rincalzo al primo – per le ripetute violazioni della libertà ecclesiastica nei domini viscontei (usurpazioni di uffici e benefici, appropriazione indebita di beni della Chiesa, imposizione di taglie e contributi, ecc.). Si legge negli atti di questo procedimento l’episodio, celeberrimo, di cui sarebbe stato vittima l’arcivescovo di Milano Roberto Visconti, cui Bernabò avrebbe dapprima ingiunto di inginocchiarsi al suo cospetto, salvo poi dirgli: «Nescis pultrone quod ego sum papa et imperator ac dominus in omnibus terris meis et quod nec papa, nec imperator, nec Deus posset in terris meis facere nisi quod vellem nec intendo faciat?» (Biscaro, 1937, p. 181).

L’11 maggio 1362 fu quindi pronunciata da Innocenzo VI la sentenza di scomunica di Bernabò Visconti, poi resa pubblica e confermata dal successore Urbano V. La questione bolognese guastò anche i rapporti con l’imperatore: se questi il 26 giugno 1360 aveva restituito a Visconti il vicariato su tutti i territori da lui governati (e perfino su alcuni non posseduti, come Pisa e Lucca: Pauler, 1995, p. 116), il 29 maggio 1361 Carlo IV glielo tolse nuovamente, schierandosi con il papa (Regesta Imperii, VIII, a cura di A. Huber, 1877, p. 300). Bernabò provò ugualmente a dare l’assalto al territorio di Bologna, ma le sue truppe furono sbaragliate nella battaglia del ponte San Ruffillo (20 luglio 1361). Fra scontri e trattative di pace la vicenda si trascinò fino al 4 marzo 1363, quando il nuovo papa Urbano V scomunicò ancora una volta Visconti e i suoi figli, sciolse la moglie, i sudditi e i vassalli da ogni vincolo e lanciò una crociata contro di lui. Solo nei primi mesi del 1364, grazie alla mediazione del re Pietro I di Cipro e, soprattutto, alla nomina a legato in Lombardia del cardinale Androino de la Roche, che verso i Visconti si mostrò meno intransigente del predecessore Albornoz, fu raggiunta la pace: in cambio di un cospicuo indennizzo (500.000 fiorini in otto anni), Bernabò rinunciava al vicariato su Bologna e a ogni altra pretesa. Allo stesso tempo il papa si impegnava per fargli riottenere il vicariato imperiale.

La quiete fu di breve durata. Le ingerenze viscontee in Genova e le imprese della compagnia di San Giorgio, mercenari comandati da Ambrogio, figlio naturale di Bernabò, tornarono ad allarmare il papa, che nuovamente promosse un’ampia coalizione contro i signori di Milano: solo gli Scaligeri si allearono con questi ultimi. I Visconti attaccarono per primi e le loro truppe nel 1368 mossero contro Mantova. Puntualmente si abbatté su Bernabò l’ennesima scomunica (5 maggio 1368). Alla guerra contro Visconti si unì anche Carlo IV, ma la mancanza di risultati concreti indusse presto le parti alla pace. Secondo gli accordi, Visconti avrebbe dovuto rinunciare agli arretrati dovuti dal papa per Bologna, ma avrebbe ricevuto da Carlo IV il vicariato imperiale, in cambio di aiuto militare durante il soggiorno del sovrano nella penisola (settembre 1368). La pace vera e propria venne infine conchiusa l’11 febbraio 1369: ancora poco e il 17 marzo Visconti si vide concedere nuovamente il vicariato imperiale, come da accordi.

L’attenzione di Visconti si focalizzò a questo punto su Lucca, su cui egli sperò vanamente di ottenere di nuovo il vicariato da Carlo IV. Intanto Bernabò appoggiò Perugia nella sua resistenza ai tentativi di dominio papale, mossa che gli costò il consenso dell’Impero e che pagò con la privazione del vicariato imperiale (17 febbraio 1370). Ormai libero dalla preoccupazione di mantenere buoni rapporti con Carlo IV, Visconti rese palesi le sue ambizioni anche su Pisa, che aveva cacciato il doge Giovanni Dell’Agnello, antico alleato dei Visconti e che si era data direttamente all’imperatore. Il 17 maggio 1370 l’ex doge e il signore di Milano siglarono un accordo in base al quale Bernabò avrebbe fornito contingenti militari per il recupero della città e Dell’Agnello, una volta insediatosi al governo, avrebbe riconosciuto l’alto dominio di Visconti. In realtà i piani non si realizzarono, ma buone nuove giunsero l’anno dopo dall’Emilia: il 17 maggio 1371 Feltrino Gonzaga si rassegnò a vendere Reggio a Visconti, in cambio di 50.000 fiorini e della signoria su Bagnolo e Novellara. Dall’avamposto reggiano partirono ripetuti attacchi per la conquista di Modena, mentre in parallelo le forze di Galeazzo II assediavano Asti e minacciavano il marchesato di Monferrato.

Il Papato e l’Impero, ancora una volta uniti da interessi convergenti, identificarono in Amedeo VI di Savoia la figura in grado di opporsi ai Visconti: mentre Carlo IV concedeva proprio al Conte Verde il vicariato sulle terre di Galeazzo e Bernabò (23 novembre 1372), Gregorio XI interveniva con le armi spirituali, aprendo ben tre processi conclusi con la condanna per eresia e spergiuro e con la concessione di benefici spirituali a chi imbracciasse le armi contro i tiranni milanesi (28 marzo 1373). Con Amedeo VI che scorrazzava per i domini viscontei, i guelfi approfittarono per ribellarsi in diverse terre: tra queste la valle San Martino, nella Bergamasca, dove trovò la morte anche il figlio di Visconti, Ambrogio (v. la voce in questo Dizionario). La tregua con il papa fu ratificata il 4 giugno 1375 e Visconti venne nuovamente definito vicario imperiale. Ancora qualche tempo e il 19 luglio a Oliveto di Val Samoggia fu raggiunta la pace.

Nella successiva guerra tra Firenze e il Papato, Visconti sostenne la città toscana, ma senza impegnare ingenti forze, cosa che gli permise nel febbraio del 1378 di promuovere a Sarzana un incontro pacificatore tra le parti. La notizia della morte del papa interruppe però le trattative e aprì scenari inattesi. Nel giro di pochi mesi infatti l’elezione di due pontefici pose i principi della cristianità davanti a una scelta: Visconti chiese indicazioni all’arcivescovo di Milano Antonio da Saluzzo, che nella sinodo del 1380 si pronunciò a favore del pontefice romano, fatta salva la diversa deliberazione da parte di un concilio (La chiesa al tempo del grande scisma, 1979, p. 91). La Chiesa del dominio rimase in effetti largamente di osservanza romana, ma la debolezza del Papato – lacerato dallo scisma – segnò per Visconti la fine della stagione dei processi canonici.

Il 1378 costituì una svolta anche negli equilibri interni al consortile visconteo. La morte di Galeazzo II, cui succedette il giovane Gian Galeazzo, venne vista da Bernabò come un’opportunità per affermare il proprio ruolo di vertice del casato. L’occasione fu rappresentata dai progetti matrimoniali di Gian Galeazzo con Maria, regina di Sicilia, che all’apparenza Visconti tollerò – ponendo come condizione l’unione tra l’unico erede maschio del nipote, Azzone, con una propria figlia, Elisabetta – e che poi contribuì a sabotare. A quel punto, fallito il progetto, Bernabò impose a Gian Galeazzo e alla sorella di questi, Violante, di sposare due dei suoi figli, ovvero Caterina e Ludovico.

Il cerchio si stava stringendo intorno al nipote. Secondo Corio (Storia di Milano, cit., p. 877), dietro la volontà di Bernabò di controllare anche i domini di Gian Galeazzo era soprattutto la moglie Regina, che sobillava alla cospirazione anche i figli, in particolare Marco.

Le mai sopite mire viscontee su Verona vennero rinfocolate dalla successione a Cansignorio dei due illegittimi Bartolomeo II e Antonio della Scala. Bernabò nel 1378 rivendicò ancora una volta i diritti della moglie Regina e questo indusse i signori di Verona ad allearsi con Francesco da Carrara, che all’epoca sosteneva Genova nella sua lotta con Venezia per l’egemonia nell’Egeo. L’esito di questo complesso gioco di alleanze fu che Bernabò si accordò anche con Venezia e aprì un ulteriore fronte di lotta in Liguria. Frattanto nel Veronese i viscontei non riuscirono a sfondare e Visconti ne accusò i suoi due generi, i capitani Lutz von Landau e John Hawkwood. Proprio per ovviare alla dipendenza dai mercenari e per ridurne l’importanza sulla scena politica italiana Visconti aveva avviato almeno dal 1360 la costituzione di un corpo di cavalleria – i provvisionati – reclutato in ogni città fra i nobili e i borghesi di buona condizione e di bell’aspetto.

Nel febbraio del 1379 fu raggiunta una pacificazione, con l’impegno degli Scaligeri a versare un’enorme cifra come compensazione per Regina della Scala. In realtà pure contro Genova non giunsero i risultati attesi. Fra il 1380 e il 1381 Bernabò promosse un’ampia lega contro le milizie mercenarie, definite «i barbari che vogliono turbare la pace degli italici», e contro gli oltramontani che volevano intromettersi nelle questioni della penisola (Cognasso, 1955, p. 507): un modo per affermare la sua centralità nello scacchiere, ma anche per contrastare l’arrivo del re d’Ungheria, alleato di Scaligeri e Carraresi, e pretendente al trono di Napoli. Contro gli Angiò di Ungheria Bernabò si alleò con gli Angiò di Francia, cui offrì aiuti militari per una spedizione nel Mezzogiorno.

Intento a tessere le sue relazioni nella penisola e in Europa, Visconti non si avvide in tempo delle crescenti ambizioni del nipote. Il 6 maggio 1385 scattò la trappola: Gian Galeazzo comunicò allo zio che, passando da Milano diretto alla Madonna del Monte sopra Varese, gli avrebbe volentieri reso visita. Quando Visconti a dorso di una mula e in compagnia solo di un paio dei suoi figli raggiunse il conte di Virtù fuori dalle mura, Jacopo Dal Verme si staccò dal corteo e lo fece prigioniero. Venne condotto dapprima al castello di Porta Giovia, poi il 25 maggio in quello di Trezzo, dove fu raggiunto dall’amante Donnina de Porri.

Morì il 19 dicembre 1385 «per toxico dato in una scudella de fagioli» (B. Corio, Storia di Milano, cit., p. 883).

Eco di questa fine improvvisa si coglie nella poesia coeva, a cominciare da alcuni Lamenti. Per giustificare il proprio operato, Gian Galeazzo riversò una serie di accuse sullo zio, leggibili sia nel processo intentato contro Bernabò, sia nelle istruzioni inviate agli ambasciatori viscontei presso alcune città (Novati, 1906).

Celebrato da poeti come Braccio Bracci e Marchionne Arrighi, Visconti colpì con il suo temperamento anche cronisti e novellieri (Giovanni Fiorentino, Franco Sacchetti, Giovanni Sercambi, Pietro Azario ecc.), che ne hanno lasciato un quadro assai vivido. Tema ricorrente in questa vasta produzione è l’inclinazione di Bernabò all’ira e alle reazioni smodate, che solo la moglie Regina riusciva a contenere. Ma se le sue asperità caratteriali furono una straordinaria fonte di ispirazione per letterati e cronisti, le loro opere registrano anche un altro elemento: l’alto senso di giustizia del dominus.

Ricordata oltre un secolo dopo anche da Machiavelli (Il principe, cap. XXI), la giustizia di Bernabò è amministrata in deroga a statuti e consuetudini, talora in prima persona dal dominus, che ne fece uno strumento di costruzione del consenso. Divenute, infatti, traballanti le basi giuridiche del suo potere per via delle ripetute censure ecclesiastiche e delle frequenti revoche del vicariato imperiale, Bernabò individuò proprio nella giustizia la risorsa su cui costruire il rapporto con i sudditi e intorno alla quale modellare la sua immagine (Gamberini, 2003, pp. 249-259). Esemplare in tal senso il suo monumento equestre, commissionato a Bonino da Campione e raffigurante il dominus a cavallo, affiancato da due delle quattro virtù cardinali, la potenza e la giustizia (nessun cenno alla prudenza e alla temperanza, che poco si addicevano al suo ideale di governo).

Visconti amministrò il dominio appoggiandosi alla moglie e ai figli, cui delegò il governo di singole terre e città, riducendo in tal modo al minimo la sua curia.

Secondo la divisione del marzo del 1379 (B. Corio, Storia di Milano, cit., p. 864), poi confermata dal testamento del novembre seguente, al primogenito Marco toccò la metà di Milano (l’altra era del nipote Gian Galeazzo), Ludovico ebbe Lodi e Cremona, Carlo ricevette Parma, Borgo San Donnino e Crema, mentre a Rodolfo toccarono Bergamo, Soncino e la Gera d’Adda. Quanto a Brescia, con la Riviera e la Valcamonica, fu assegnata al giovane Mastino, sotto la tutela della madre. A quest’ultima, che governava Reggio, la Lunigiana e Sarzana, toccarono anche Somaglia, Sant’Angelo, Maiano, Castelnuovo, Merlino, Siziano, Chignolo Po, Villanterio, Roccafranca, Tabiano, Cassano ecc. (ibid., pp. 866, 868).

Corollario di questo sistema di dominio parcellizzato fu la valorizzazione del ruolo politico dei centri urbani e la determinazione verso le aristocrazie territoriali, cui revocò ripetutamente i privilegi e delle quali occupò o distrusse molti fortilizi. Trattò spesso con durezza la fazione guelfa del dominio, favorendo per contro quella ghibellina.

Una serie di consigli per il buon governo fu indirizzata da Fazio degli Uberti a Visconti e al fratello Galeazzo (v. la voce in questo Dizionario) con la canzone L’utile intendo, ma a dispetto di quei suggerimenti, lo stile di Bernabò fu autoritario e sostenuto da esplicite petizioni di principio.

«Faciemus et desfaciemus decreta prout nobis plaucuerit», scrisse ai sudditi reggiani; gli stessi cui in altra occasione disse seccamente: «non intendimus quod homines Regii nobis dent metam, sed nos eam eis dare» (Gamberini, 2003, rispettivamente pp. 20, 257). Un vero e proprio manifesto del potere signorile è poi nella risposta data da Visconte di Gropello, segretario di Bernabò, alle comunità del territorio bergamasco. Ai villani, che contestavano le esenzioni concesse dal dominus a detrimento dei loro privilegi, egli replicò: «hoc est dicere quod servus imponat legem domino suo, quod est crudele», così paragonando i sudditi ai ‘servi’ e le loro pretese alla crudelitas, ovvero a un sovvertimento inumano dell’ordine naturale (Gamberini, 2011, p. 436). Il richiamo alla naturalità del dominio quale fondamento del potere ricorre anche nelle revisioni statutarie di Cremona e Brescia (Cengarle, 2014, p. 94) e appare come un modo per slegare Bernabò dalla legittimazione imperiale, costantemente ricercata, malgrado le ripetute privazioni.

Visconti si distinse per la costruzione o riedificazione di molti castelli, che pose sotto il suo diretto controllo e cui attribuì ora funzioni di residenza, ora di caccia, ora di presidio militare: Cusago, Cassano – dove è ancora visibile il ritratto ad affresco di Visconti (Romano, 2011) –, Pandino (in cui si conservano ampie porzioni delle decorazioni pittoriche originali, tra cui il suo stemma araldico, il leopardo tra le fiamme), San Colombano, Melegnano, Sant’Angelo, Senago, Carimate, Castelnuovo Bocca d’Adda, Trezzo, Cremona. E ancora: la cittadella di Bergamo, quella di Brescia, quella di Porta Romana a Milano, dove fece costruire anche un castello, mentre un altro fu innalzato a Porta Nuova. Fu munifico verso gli ospedali milanesi del Brolo, di Santa Caterina, di Sant’Antonio e di Sant’Ambrogio, cui nel 1359 donò grandi possessioni tra Lodi e Crema.

Secondo gli Annales Mediolanenses (1730, col. 799), Bernabò non amò invece circondarsi di uomini di cultura; alla sua corte, semmai, numerosi erano giullari e giocolieri. Sviluppò un grande amore per le giostre, introducendo per primo a Milano «selle alte e torniamenti, secondo l’usanza de Francia e de Alamania» (B. Corio, Storia di Milano, cit., p. 772). Non inferiore fu la passione per la caccia al cinghiale, che praticava con i cani, di cui si dice ne possedesse 5000, la maggior parte dei quali da allevarsi a cura di officiali e sudditi (ibid., p. 846; Grimaldi, 1921, p. 217).

I suoi gusti cortesi si riflettono anche nell’interesse per i romanzi cavallereschi. Alla committenza di Bernabò si devono il Guiron le Courtois, splendidamente miniato, nonché «plusieurs beaux livres», come riferì l’ambasciatore Honoré Bonet al suo re (Sutton, 1991, p. 322).

Proprio da quelle letture trasse ispirazione per l’onomastica di molti tra i suoi figli naturali. Ebbe infatti molte amanti e non a caso Geoffrey Chaucer, che fu alla sua corte, lo definì «God of delit and scourge of Loumbardye» (Canterbury Tales, Monk Tale). Ma con toni simili si espresse anche Azario, secondo cui Bernabò «luxuriosus valde fuit» (Petri Azarii Liber gestorum..., cit., p. 147). La sua discendenza fu numerosissima e sapientemente utilizzata per tessere relazioni politiche: se i figli legittimi si unirono a esponenti di casate regie o principesche, quelli avuti dalle tante amanti furono destinati a condottieri e signori locali. In questo lucido disegno, che si irradiava attraverso l’Europa e il Mediterraneo, spiccano per intensità i legami con il mondo tedesco e, in particolare, con i Wittelsbach: i duchi di Baviera, per quanto divisi in più rami, erano infatti i maggiori rivali di Carlo IV in Germania.

Dall’unione con Regina della Scala (morta nel 1384) nacquero Verde (Leopoldo III d’Austria), Taddea (Stefano III di Baviera-Ingolstadt), Marco (Elisabetta di Baviera-Landshut), Ludovico (Violante Visconti), Carlo (Beatrice di Armagnac), Valentina (Pietro II re di Cipro), Caterina (Gian Galeazzo), Agnese (Francesco Gonzaga), Antonia (re Federico III di Sicilia, poi Eberhard von Württemberg), Rodolfo, Maddalena (Federico Baviera-Landshut), Elisabetta, Anglesia (re Giovanni di Cipro), Lucia (Federico di Turingia, poi Edmund del Kent), Mastino (Antonia della Scala?), Elisabetta (Ernst Baviera-Monaco).

Da Beltramola de Grassi, Visconti ebbe Ambrogio, Enrica (Lotario Rusca), Margherita (monaca), Estorre (Margherita Infrascati), Isotta (Carlo da Fogliano), Elisabetta (Ludwig von Landau); da Montanara de Lazzari, Donnina (John Hawkwod), Sagramoro (Anchilletta Marliani); da Caterina o Castellina da Cremona, Galeotto e Riccarda (Bertrand de La Salle); da Giovannola di Montebretto – l’unica che osava sempre dirgli ciò che pensava (Petri Azarii Liber gestorum..., cit., p. 147) – ebbe Bernarda (Giovanni Suardi); da Donnina de Porri (forse sposata dopo la morte di Regina: Annales Mediolanenses..., cit., col. 795), nacquero Tristane (?) Damigella (?), Lancillotto, Soprana (Giovanni da Prato), Palamede, Lucia (Konrad von Landau), Ginevra (Leonardo Malaspina); da Muzia de Figino, infine, Lionello. Ebbe pure una figlia di nome Valentina (Gentile di Antonio Visconti di Orago).

Visconti fu inizialmente sepolto in San Giovanni in Conca, ma con la musealizzazione ottocentesca del suo monumento funebre, di cui la statua equestre era parte, le spoglie furono traslate nella chiesa di S. Alessandro. Di lui si conserva il testamento del 13 novembre 1379, in cui divideva il dominio tra i figli legittimi e la moglie, e stabiliva appannaggi sotto forma di possessiones per quelli naturali. Di un presunto altro testamento dettato in articulo mortis riferisce il cantare di Matteo da Milano I’ prego Idio ch’è Signore e Padre, che offre dettagli anche sulle esequie e la sepoltura (Limongelli, 2019, pp. 445 ss.).

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