Sacchi: «Vi racconto come sono cambiati il mondo e il calcio. Dalla mia nuova spiaggia» - Panorama
​Arrigo Sacchi
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Sacchi: «Vi racconto come sono cambiati il mondo e il calcio. Dalla mia nuova spiaggia»

Dal Milan di Berlusconi alla nazionale, passando per la «chiamata» di Maradona e le chat con Carlo Ancelotti, Pep Guardiola e... Claudio Baglioni. L’ex allenatore di Milan e azzurri si racconta a Panorama. E suggerisce come l’Italia e i club possono tornare a vincere.

«Quando Berlusconi e Galliani mi proposero di allenare il Milan dissi loro: siete pazzi o geni. Poi firmai in bianco». Arrigo Sacchi guarda il mare e vede un campo di calcio. Sempre successo. È a Milano Marittima, dove la figlia Simona ha da poco lanciato il Clan 292, uno stabilimento balneare glamour fra relax, benessere, buona cucina ed eventi culturali. Ma l’evento permanente è lui, l’ultimo filosofo stoico d’Italia; nel vangelo secondo Arrigo il cosmo è un ordine razionale come un fuorigioco chiamato da Franco Baresi.

Dopo aver reinventato il calcio rivoluziona la spiaggia?

È un’idea di mia figlia, siamo molto affezionati a Milano Marittima, la nostra famiglia investe qui dagli anni Settanta. Io ci vengo a pranzo ma rimango nel mio mondo.

Perché Clan?

In senso positivo, un invito a tornare a fare squadra. Oggi l’individualismo è il limite di noi italiani, non siamo al livello culturale del nostro passato. Ora più della conoscenza contano le conoscenze. Un tempo i barbari stavano oltre le Alpi, adesso non più, questione di cicli. I cacciatori romagnoli dicono: un po’ corre la lepre, un po’ corre il cane.

Ma per andare ai Mondiali non sarebbe meglio far correre la palla?

Abbiamo perso il treno per la seconda volta consecutiva perché facciamo fatica ad aggiornarci. L’aspetto civile incide molto: noi siamo forti nel tatticismo, deboli nella strategia. Diceva Sun Tzu che a parità di forze, uno stratega sconfigge sempre un tattico perché senza conoscenza non c’è coraggio.

Traduzione per i non esperti di scienza militare?

Vedo squadre sempre in sovrannumero in difesa e in sottonumero in attacco. Poi andiamo in Champions e ci prendono a schiaffi. Eppure il mio Milan aveva cambiato le regole. In un derby per tutto il primo tempo non abbiamo fatto passare la metà campo all’Inter. Dicevano: siete in 15. No, erano loro a essere in 5. Non attaccava nessuno.

Si percepisce ancora come un rivoluzionario?

Non fummo rivoluzionari ma di più, fummo inediti. Quando vincemmo la Champions a Barcellona L’Équipe titolò: «Usciti da un altro mondo». Era il mondo di Silvio Berlusconi e di un club con una storia, una visione e uno stile. Il Cavaliere voleva vincere, convincere e divertire in un Paese in cui conta solo vincere.

Il fine giustifica i mezzi.

Ma se in Italia c’è il 50 per cento di corruzione come crede che si pensi di vincere? Con l’inganno. Una vittoria senza merito non è mai una vittoria. Dopo un 2-0 a Pescara uscii con il muso lungo. Adriano Galliani mi disse: «Dai Arrigo, si può vincere anche senza dominare». Ero amareggiato, non eravamo stati all’altezza del nostro stile.

Mai tirato a campare all’italiana?

Mai, e qualche giocatore si stupiva. Ruud Gullit mi chiedeva: «Perché negli ultimi 10 minuti non buttiamo la palla in area per un colpo di testa?». Gli rispondevo: perché se abbiamo la sfortuna di far gol, in futuro non saranno solo 10 minuti. Le cattive abitudini si imparano subito.

È sempre convinto che il calcio sia una filosofia?

Si ma va insegnata a ragazzi intellettualmente vergini. Io non volevo giocatori affermati che credono di sapere tutto. Nello stesso anno la Juventus ingaggia Ian Rush e noi Marco Van Basten, che aveva 24 anni e non aveva mai giocato in Champions. Ai miei ricordavo: 1x1 fa uno ma 1x11 fa sempre 11. E in campo non vi sentirete mai soli.

Lei stritolava i suoi in allenamento. Lamentele?

Sì, a turno. Però un giocatore mi disse: «Quanto fatichiamo durante la settimana, ma quanto ci divertiamo la domenica!»

Nello sport come nella vita il campione fa la differenza.

È un rischio che devi correre. A Napoli dopo un quarto d’ora di assedio nostro la palla finisce a Maradona che ne scarta un paio, passa a Careca che batte Giovanni Galli con un pallonetto al volo. Mi volto verso la mia panchina e dico: così non vale, finora abbiamo giocato solo noi.

È vero che Maradona provò a portarla a Napoli?

Mi telefonò e per convincermi mi disse: «Con me e Careca parti da 2-0 ogni partita». Io gli risposi: «E se tu sei infortunato?». Alla fine Angelo Colombo in tre anni ha vinto più di Maradona.

Parliamo dei suoi eredi. Carlo Ancelotti o Pep Guardiola?

Prima della semifinale di Champions fra Real Madrid e Manchester City ho mandato lo stesso messaggio a tutti e due: «Vinca chi merita di più». A partita non ancora finita Guardiola mi ha risposto: «Questa volta ha vinto chi meritava di meno». Però Ancelotti ha saputo creare un gruppo con spirito di squadra e passione inarrivabili.

In Italia che calcio si gioca?

Ancora speculativo. Da noi avere il dominio del pallone è un concetto difficile, per fortuna oggi la rivoluzione arriva dal basso grazie a Verona, Atalanta, Sassuolo. La Juventus provò a farla con Maurizio Sarri. Un flop. Lo avvertii che sarebbe stato un suicidio. A Torino hanno sempre preso allenatori tattici, lui è uno stratega. E hanno sempre ingaggiato giocatori tattici che non hanno bisogno del gioco, perché il gioco sono loro.

In Italia si dice: squadra che vince non si cambia.

Errore madornale, squadra che vince si cambia perché quando vinci i giocatori si sentono imbattibili e credono di non avere più niente da imparare. Diceva Winston Churchill: «Cambiare non ti dà la certezza di migliorare ma per migliorare bisogna cambiare». Anch’io ho cambiato.

In che senso?

Da ragazzo ero tifoso della grande Inter. Quando Massimo Moratti lo seppe mi mandò un marengo d’oro dei tempi del suo papà. Prima di accettare lo avvertii: guardi che i pentiti sono i peggiori.

Qual è il complimento più bello che ha ricevuto?

Sono due. Il primo da Riccardo Muti, che mi dedicò il suo libro con la frase: «Al maestro della musica sinfonica». Il secondo fu di Claudio Baglioni: «Il suo calcio è musica». Sono stonato come una campana.

Il suo Milan non riusciva a essere antipatico.

Ci volevano bene tutti, in quattro anni è arrivato solo un sasso contro il pullman. Una notte feci un lieve incidente in corso Buenos Aires a Milano. Passò un tifoso dell’Inter e mi gridò: questa volta la nebbia non ti ha salvato. Divertente.

Più difficile gestire un club o la Nazionale?

Le problematiche della Nazionale sono infinite. Durante i mondiali del 1994 negli Stati Uniti notai negatività della stampa italiana nei confronti dell’Italia. Chiesi spiegazioni e un amico giornalista mi disse: «L’ordine è di sparare sulla Nazionale perché c’è Berlusconi premier».

Atteggiamento meschino. Motivo?

Il vero rivoluzionario era lui. Introdusse la categoria del coraggio non solo nel calcio e costrinse tutti a rinnovarsi. Prima di partire mi disse: «Nessuna squadra europea ha vinto oltreoceano, sarà un’avventura difficile». Io gli risposi che la mia era difficile ma la sua impossibile.

Perché a Milano - a Milano! - non si riesce a realizzare un nuovo stadio?

Per l’immobilismo di un sistema sociale fatto di parole. Quando cadi nella routine, cadi nel passato. E quando cadi nel passato sei morto.

Tiriamo le somme davanti al mare. Cosa rimane di tutto questo?

Il titolo surreale di un giornale di tanto tempo fa: «Domani il Milan prende il Signor Nessuno».

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Giorgio Gandola