RUDINÌ, Antonio Starabba marchese di in "Dizionario Biografico" - Treccani - Treccani

RUDINÌ, Antonio Starabba marchese di

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 89 (2017)

RUDINÌ, Antonio Starabba (Starrabba)

Giuseppe Astuto

marchese di. – Nacque a Palermo il 6 aprile 1839 dal marchese Francesco Paolo Starabba del ramo cadetto dei principi di Giardinelli, originari di Piazza Armerina, e da Livia Statella figlia dei principi di Cassaro.

Il padre, maggiordomo di corte di Ferdinando II, seguì poco la formazione del figlio che, iscrittosi alla facoltà di giurisprudenza, divenne avvocato. Ancora giovanissimo, Rudinì partecipò alle cospirazioni antiborboniche culminate nella sollevazione di Francesco Riso del 3-4 aprile 1860 (nota come rivolta della Gancia). Scampato alla repressione, si rifugiò prima a Napoli e poi a Torino, dove lavorò per un breve periodo come addetto presso il ministero degli Esteri.

Nel 1864 a Torino, allora capitale italiana, Rudinì conobbe e sposò Maria de Barral, figlia del conte Carlo de Barral, ufficiale dell’esercito francese, e di Alessandrina Nikiforoff, discendente da una nobile famiglia russa. Dal matrimonio nacquero tre figli: Francesco, morto giovanetto, Carlo Emanuele e Alessandra, che sarebbe diventata amante di Gabriele D’Annunzio e poi suora carmelitana.

La vita privata di Rudinì fu segnata dalla precoce malattia mentale della moglie e dal suo ricovero in una clinica psichiatrica. Alla morte di Maria, nel 1896, Rudinì sposò Leonida Incisa Beccaria, con la quale aveva da tempo intrecciato una relazione e dalla quale aveva avuto il figlio Franco.

Dopo l’Unificazione partecipò attivamente alla vita politica e amministrativa di Palermo come consigliere comunale. A soli 24 anni, il 10 agosto 1863 fu nominato sindaco da Marco Minghetti, presidente del Consiglio, che lo riteneva un valido interlocutore. Durante il suo mandato, Rudinì avviò la modernizzazione della città con lo sventramento del centro storico, il miglioramento della viabilità, l’apertura di nuove scuole e la progettazione del teatro Politeama. Scoppiata la rivolta di Palermo (16 settembre 1866), lui e il prefetto Luigi Torelli mostrarono subito energia e coraggio nella lotta contro i ribelli e pochi giorni dopo arrivarono i rinforzi militari guidati dal generale Raffaele Cadorna, che riportò l’ordine nella città. Il presidente del Consiglio Bettino Ricasoli ricompensò il patriottico comportamento di Rudinì con la medaglia d’oro al valore e la nomina a prefetto della Provincia di Palermo (27 novembre 1866).

Con il sostegno delle élites locali e d’accordo con il comandante militare, il generale Giacomo Medici, Rudinì ripristinò nel territorio della provincia le condizioni di legalità, adottando misure eccezionali di pubblica sicurezza e dando inizio a importanti lavori pubblici. Nel febbraio del 1868 il ministro dell’Interno Carlo Cadorna nominò Rudinì prefetto di Napoli. Per l’abilità dimostrata in questo incarico, il 22 ottobre 1869 il presidente del Consiglio, Luigi Federico Menabrea, lo chiamò a dirigere il ministero dell’Interno in sostituzione del dimissionario Luigi Ferraris, ma la crisi dell’ultimo governo Menabrea, nel novembre successivo, non gli consentì di svolgere attività di rilievo.

Eletto deputato per la prima volta nel collegio di Canicattì il 12 dicembre 1869, Rudinì fu confermato nelle elezioni successive e fino al 1880. Si schierò con la Destra e seguì con particolare interesse il problema dell’ordine pubblico, la riforma dell’ordinamento amministrativo e la questione finanziaria. Con l’avvento della Sinistra al potere (1876), assunse un atteggiamento di opposizione netta, ma non partigiana, dedicandosi allo studio delle condizioni della Sicilia e delle amministrazioni locali. Membro della commissione per la riforma elettorale, si schierò contro l’allargamento del suffragio, fondato sull’istruzione e sullo scrutinio di lista.

Approvata la nuova legge, in occasione delle elezioni politiche del 1882 Rudinì lasciò il tradizionale collegio di Canicattì e si candidò nel primo collegio di Siracusa, divenendone incontrastato dominatore fino alla reintroduzione del sistema uninominale, nel 1890. All’inizio della legislatura fu eletto vicepresidente della Camera e si avvicinò alla politica trasformista di Agostino Depretis. Passò poi all’opposizione con Francesco Crispi nel momento in cui il governo adottò alcuni provvedimenti che a suo dire ledevano gli interessi del Mezzogiorno e, in particolare, della Sicilia (le convenzioni con le compagnie ferroviarie e, soprattutto, la perequazione fondiaria che, di fatto, introduceva il catasto particellare in sostituzione del catasto descrittivo borbonico). Durante queste battaglie parlamentari Rudinì stabilì buoni rapporti con Crispi, facilitando, in occasione delle elezioni politiche del 1886, la vittoria di quasi tutti i deputati dell’opposizione nei collegi siciliani. Apertasi la crisi del ministero Depretis dopo la battaglia di Dogali (26 gennaio 1887), Umberto I si orientò per la nomina di Crispi e di Giuseppe Zanardelli in una posizione di forza (ministro dell’Interno il primo, di Grazia e Giustizia il secondo). Rudinì si sentì emarginato, ma non organizzò un’attiva opposizione.

Divenuto, dopo la morte di Minghetti (10 dicembre 1886), capo della Destra, iniziò i suoi contatti con esponenti della cultura economica (come Luigi Luzzatti e Paolo Boselli) e di studiosi costituzionalisti (come Gaetano Mosca e Giuseppe Saredo) che contribuirono a elaborare il suo progetto di governo. Rudinì appoggiò la politica economica di Crispi e, in particolare, l’introduzione della tariffa sui prodotti industriali e sui grani. Non ostacolò lo sforzo riformatore del suo conterraneo, sostenendo con fervore l’istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato, che riordinava la giustizia amministrativa con maggiori garanzie per i cittadini. Rinunciò a combattere l’allargamento del suffragio amministrativo, rivendicando però l’elezione del sindaco da parte del Consiglio comunale anche per i comuni con una popolazione inferiore a 10.000 abitanti.

Il primo ministero Crispi si indebolì a seguito della crisi finanziaria. Di fronte all’alternativa tra l’introduzione di nuovi tributi e la diminuzione delle spese statali, la Destra scelse la seconda. Nello scontro del 31 luglio 1891 il presidente del Consiglio accusò i governi moderati postunitari di aver tenuto una politica servile verso la Francia. L’insulto alle «sante memorie» (L. Luzzatti, Memorie, II, 1935, p. 301) provocò la caduta del governo, ma Rudinì non partecipò alla votazione, quasi a porsi sopra l’antagonismo personale. Il sovrano, quindi, gli affidò l’incarico di formare il governo.

Il ministero Rudinì, sostenuto dai moderati e dalla Sinistra meridionale di Giovanni Nicotera, che ottenne il ministero dell’Interno, si presentò con un programma volto a eliminare gli ‘eccessi’ del crispismo: i punti principali erano il decentramento amministrativo, il contenimento delle spese e il ridimensionamento della politica coloniale.

Con un anno di anticipo, il 6 maggio 1891, fu sottoscritto a Berlino il nuovo trattato della Triplice alleanza. Per il risanamento finanziario il governo propose la riduzione dei corpi dell’esercito. Di fronte alle resistenze del re e degli ambienti militari, nella primavera del 1892 Rudinì annunciò un piano di inasprimenti fiscali che incontrò l’opposizione del ministro delle Finanze, Giuseppe Colombo. Per tali ragioni Rudinì dovette dimettersi: responsabile di aver sollevato il problema della riduzione delle spese militari, non poté contare più sulla fiducia del sovrano.

Formato il governo Giolitti, passò all’opposizione. Di fronte agli scandali bancari chiese un’inchiesta parlamentare che, con i suoi risultati, contribuì alla caduta del ministero. Nel novembre del 1893, in un clima di grave perturbazione economica e sociale, il sovrano chiamò di nuovo Crispi alla guida del governo. Rudinì, in un primo tempo, ne sostenne il programma, imperniato sul mantenimento dell’ordine pubblico e sul risanamento finanziario, ma il contrasto tra i due si acuì al momento della presentazione del disegno di legge sulla quotizzazione dei latifondi siciliani. Rudinì, nei suoi interventi, espose le ragioni che rendevano inutile il provvedimento, proponendo, con l’apporto di Luzzatti, incisive riforme amministrative, finanziarie e sociali. Nello stesso tempo i radicali e i socialisti condussero una dura battaglia contro i provvedimenti liberticidi adottati dal governo. La Destra lombarda non approvò la politica finanziaria che, con il colonialismo e con l’intervento statale, non favoriva lo sviluppo dell’industria settentrionale.

Dopo la ‘riunione della Sala Rossa’ (15 dicembre 1894) si formò un forte gruppo parlamentare di opposizione sotto la guida di Rudinì. La sconfitta di Adua, nell’aprile del 1896, rappresentò la fine politica di Crispi, che aveva cercato di coniugare riforme e repressione. Rimaneva aperto il problema di trovare nuovi meccanismi istituzionali per fronteggiare le tensioni sociali e politiche. In quel quadro si collocavano le riforme presentate da Rudinì, successore ancora una volta di Crispi.

Negli anni precedenti, il marchese siciliano aveva criticato il sistema accentrato e le clientele locali arroccate intorno ai deputati faccendieri. Per superare questo sistema si era convinto che bisognava restituire il controllo degli enti territoriali a una classe dirigente fondata sulla proprietà e sulla cultura. Questo progetto istituzionale era stato influenzato dalle concezioni politiche di Mosca, il più ascoltato tra i consiglieri di Rudinì, che nel 1896 aveva pubblicato il volume Elementi di scienza della politica. Il programma rientrava nell’ambito di un autoritarismo sociale e di un riformismo conservatore nel tentativo di arginare il predominio parlamentare dei ceti medi e la partecipazione delle classi popolari, che spingevano verso la democrazia e il socialismo.

Arrivato al governo, Rudinì cercò di calare nella realtà questo progetto istituzionale. I punti principali erano l’elettività dei sindaci in tutti i comuni, il voto plurimo (a favore del censo e della capacità) nelle elezioni amministrative e il referendum in materia di tributi comunali. Riuscì ad attuare solo il primo punto, che estendeva l’elettività dei sindaci anche nei comuni inferiori a 10.000 abitanti, completando così la riforma crispina sulla legge comunale e provinciale. Diverso impianto presentava l’istituzione, nel 1896, del Commissariato civile per la Sicilia, organo provvisorio ed eccezionale. Innovativa nell’ambito del sistema accentrato, questa struttura doveva coordinare in modo verticale e orizzontale l’azione amministrativa di vari ministeri con il compito di eliminare il malcontento siciliano riconducibile, secondo il presidente del Consiglio, agli abusi degli enti territoriali. Alla fine di questa esperienza, durata un anno, fu approvata la legge speciale per l’unificazione dei debiti dei comuni siciliani.

Nell’ultima fase del suo governo, Rudinì propose altre riforme (l’accrescimento dei poteri al prefetto, la divisione dei comuni in classi, la creazione di consorzi comunali, il referendum per le imposte locali, lo scioglimento dei consigli comunali e le responsabilità degli amministratori locali), con le quali voleva cambiare la legge comunale e provinciale del 1865. Poca fortuna ebbe questa seconda fase: gli uffici della Camera, per le controversie nella precaria maggioranza, non approvarono alcun progetto presentato dal governo.

Rudinì ebbe il sostegno parlamentare di gruppi eterogenei che, uniti dal collante anticrispino, divennero favorevoli o benevoli verso il nuovo governo a seguito dei primi provvedimenti. La Destra, i giolittiani, i radicali e, in qualche misura, i socialisti approvarono l’amnistia concessa ai dirigenti dei fasci siciliani. Con la presenza di Emilio Visconti Venosta agli Esteri si chiuse onorevolmente la partita africana che, con la pace di Addis Abeba (26 ottobre 1896), prevedeva il reciproco riconoscimento italo-etiopico della colonia Eritrea e dell’Impero d’Etiopia. Fu rinnovata la Triplice alleanza eliminandone il carattere antifrancese, mentre riflessi positivi (lo status degli italiani in Tunisia) e accordi commerciali furono firmati un anno dopo con la Francia.

Migliorata la situazione diplomatica dell’Italia, Rudinì chiese e ottenne dal re lo scioglimento della Camera e l’indizione di nuove elezioni, che si svolsero nel marzo del 1897. Dopo il lusinghiero successo siglò un accordo con Zanardelli (‘il connubio’), con il quale quest’ultimo entrò a far parte del governo. Luzzatti inaugurò la legislazione sociale, elaborando un progetto per la concessione in enfiteusi di terre incolte ai contadini poveri. Fu creata la Cassa di credito comunale e provinciale, destinata a sovvenzionare i lavori di bonifica e fu votata la legge sull’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro. A questi provvedimenti gli ambienti economici settentrionali reagirono negativamente a causa dei forti impegni finanziari contratti dallo Stato. Dopo le clamorose manifestazioni per la morte di Felice Cavallotti, avvenuta durante un duello il 6 marzo 1898, si aprì un dissidio tra Visconti Venosta e Zanardelli sulla gestione dell’ordine pubblico.

Nella primavera del 1898 arrivarono i moti contro il ‘caroviveri’. Di fronte alle tensioni sociali crebbero le richieste di un governo forte. Pressato dalle consorterie locali, Rudinì adottò provvedimenti repressivi di eccezionale gravità, sproporzionati in rapporto alle minacce per le istituzioni. Nelle province interessate dalle agitazioni si fece ricorso allo stato d’assedio e ai tribunali militari. Ebbe inizio una repressione durissima contro i quadri organizzativi della Sinistra estrema, contro la stampa, le associazioni sindacali e, con minore intensità, contro i cattolici intransigenti. L’episodio più grave avvenne a Milano dove, nel maggio del 1898, l’esercito, sotto il comando del generale Fiorenzo Bava Beccaris, represse la protesta popolare provocando un centinaio di morti.

Sull’onda della preoccupazione per l’ordine sociale, Rudinì dovette ricostruire l’unità del suo governo. Sollecitato dai moderati milanesi, Visconti Venosta insistette per l’adozione di leggi restrittive su stampa, associazioni, elezioni amministrative. Il deciso rifiuto di Zanardelli portò alla crisi definitiva del governo. Dopo le dimissioni di Visconti Venosta, Rudinì ottenne dal re l’incarico di formare un nuovo governo, ma incontrò l’ostilità di molti gruppi moderati, di Sidney Sonnino e degli esponenti della Sinistra. Formò allora un governo al di sopra delle parti con militari, tecnici e senatori, su un programma di restrizioni delle libertà politiche e di riforme finanziarie e sociali. Tra i provvedimenti si distinsero le disposizioni sul domicilio coatto, la facoltà di militarizzare ferrovieri e dipendenti delle poste, il divieto di sciopero e di associazione nel pubblico impiego, l’introduzione di limiti pesanti alla libertà di stampa e d’insegnamento. Su questa strada, però, la Camera non lo seguì. Fallì l’estremo tentativo di Rudinì di tenersi in piedi con un governo tecnico dotato di pieni poteri e con un programma che associava repressione e riforme sociali. A questo punto gli venne a mancare anche il sostegno del sovrano, che si rifiutò di sciogliere la Camera e di rendere esecutivo il bilancio con un decreto reale. Il 29 giugno 1898 il governo si dimise.

Isolato rispetto ai vari gruppi politici e deluso per la mancata attuazione del suo programma, Rudinì assunse un atteggiamento parlamentare distaccato. Si oppose alla trasformazione in legge dei provvedimenti eccezionali presentati da Luigi Pelloux sostenendo che la restrizione dei diritti politici, dopo il superamento dell’emergenza, costituisse un grave motivo di lacerazione all’interno del Paese.

Avviata positivamente la ripresa economica, si sperimentò il tentativo di adeguare le istituzioni alle trasformazioni della società e di allargare le forme di partecipazione alla vita politica. Rudinì guardò con favore al nuovo corso avviato dal ministero Zanardelli-Giolitti, soprattutto per i buoni rapporti avuti con il primo. Contrario al governo Giolitti, nonostante la presenza di Luzzatti al Tesoro, diede un sostegno a Sonnino, che fu per un breve periodo alla guida del ministero nel 1906. Il ritorno di Giovanni Giolitti rese vana la prospettiva di un progetto liberal-conservatore.

Ritiratosi a vita privata, Rudinì morì a Roma il 6 agosto 1908.

Fonti e Bibl.: Le carte della famiglia sono conservate nel Fondo Rudinì dell’Archivio di Stato di Siracusa, e riguardano prevalentemente la gestione dei beni; vedi inoltre Venezia, Istituto veneto di scienze, Carte Luzzatti; Roma, Archivio centrale dello Stato, Carte Martini; Archivio di Stato di Brescia, Carte Zanardelli; Imola, Biblioteca comuale, Carte Codronchi; L. Luzzatti, Memorie, I, Memorie autobiografiche e carteggi, 1841-1876, Bologna 1931, II, Memorie tratte dal carteggio e da altri documenti, 1876-1900, Bologna 1935, III, 1901-1927, a cura di E. De Carli - F. De Carli - A. De’ Stefani, Milano 1966, passim; M. Minghetti, Copialettere 1873-1876, a cura di M.P. Cuccoli, I-III, Roma 1978; gli atti delle amministrazioni dirette da Rudinì si trovano presso gli Archivi di Stato di Palermo e di Napoli; i discorsi parlamentari si possono consultare in Atti Parlamentari. Discussioni, dal 1869 al 1908; i discorsi programmatici ed elettorali in A. di Rudinì, Terre incolte e latifondo, in Giornale degli economisti, febbraio 1895, pp. 191-231; La politica italiana dal 1848 al 1897. Programmi di governo, a cura di L. Lucchini, I-III, Roma 1899, passim; molte conversazioni di Rudini sono in D. Farini, Diario di fine secolo, a cura di E. Morelli, I-II, Roma 1961-1962; per i rapporti con Cavallotti, E. Giampietro, Ricordi e riforme, Casalbordino 1903.

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