1.
Il callista che fece crollare l’impero
L’impero cadde per colpa di Augusto Hilário, un semplice e umile callista. La sua
esistenza non si era discostata di un millimetro dalle solite abitudini sino alla
mattina del 3 agosto 1968, un anno pieno di avvenimenti che per nulla al mondo stavano
smuovendo il sonnecchiante Portogallo. Quel sabato pareva un giorno normale, il sole
si era alzato alle 5 del mattino, i giornali parlavano della Primavera di Praga, Tom
Jones annunciava un suo concerto a Lisbona, partiva la linea telefonica automatica
tra la capitale e Faro, il più vecchio emigrante portoghese in Brasile visitava la
madrepatria, a Ponta Delgada si tenevano i funerali del dottor Francisco Luís Tavares,
uno dei costituenti della Repubblica, il Comando delle forze armate in Guinea portoghese
annunciava duri scontri con 18 morti tra gli oppositori e cinque tra i soldati dell’esercito
lusitano. Altri annunci di soldati morti in combattimento apparivano sui giornali:
il furiere António do Nascimento Pires Quintas di Bragança e il soldato Álvaro Alberto
Conceição Teixeira di Lisbona in Mozambico; Ernesto Jesus Duarte di Vila do Conde
e Raul Joaquim Costa di Lisbona in Angola, il comandante André Rodrigues Pinto di
Resende in Guinea.
Verso le 8 del mattino di quel giorno un’auto della presidenza del Consiglio si era
fermata a Rua do Carmo a Lisbona per prendere un uomo «elegante, alto, magro». Era
Augusto Hilário, che per eredità era diventato l’infermiere callista del Presidente
del Consiglio. Suo padre era di Viseu e aveva studiato nella stessa scuola di Salazar.
Quando morì, lasciò a suo figlio lo studio e il prezioso cliente. Venuto a mancare
il padre, Salazar aveva instaurato con Augusto la stessa intimità, fatta di chiacchiere,
silenzi e attimi di fiato sospeso, soprattutto quando il podologo infilava le forbici
nelle dita del primo ministro.
Il callista e il dittatore, non era un rapporto facile. Scavando nelle fosse dell’alluce,
il callista poteva anche stuzzicare antichi ricordi e ombrose omertà. La loro era
una relazione consolidata, visto che si incontravano ogni tre settimane. Questa periodicità
non era un capriccio di regime, ma una necessità fisica del dittatore. Da giovane,
Salazar si era rotto il piede destro e non si era mai ripreso. Le sue ossa erano fragili,
si formavano calli che gli facevano male. Per questa ragione indossava stivali da
bambino molto raffinati, una caratteristica che avrebbe portato gli avversari del regime
a chiamarlo con un certo disprezzo O Botas (Stivali).
L’auto si mosse con rapidità nel centro, ma poi incappò nelle code di quanti si recavano
al mare verso le spiagge di Oeiras, dell’Estoril e di Cascais. Arrivando al Forte
di Santo António da Barra, all’Estoril, Augusto Hilário salutò la guardiania, spinse
la porta di legno e ferro, si fermò un attimo nella hall a osservare l’azulejo che
conteneva estratti del poema Os Lusíadas su ogni parete, poi salì una prima rampa di scale e poi un’altra. Girò a destra e
attraversò il lungo corridoio con il soffitto a volta che divide le due ali del forte.
Nell’area conosciuta come «Arca di Noè», Salazar era solito leggere libri e giornali,
pranzare e ricevere i visitatori. Il podologo aprì la quarta porta a sinistra ed entrò
in una grande stanza chiamata «Guardaroba», divisa da un arco e con armadi dipinti
di bianco su ogni parete. A destra c’era un angolo in cui Dona Maria de Jesus Caetano
Freire, la governante storica, cucinava per il primo ministro. Augusto posò la valigetta
e iniziò a preparare gli strumenti per il trattamento di pedicure curativo.
In quel momento Salazar, al primo piano del forte, stava infilandosi il suo vestito
di lino bianco. Lasciò la stanza, percorse un breve corridoio, scese due rampe di
scale, attraversò l’Arca di Noè, entrò nella stanza in cui si trovava Augusto, lo
salutò e gli chiese di passargli i giornali che avevano inviato dal palazzo presidenziale,
tra i quali c’erano il «Daily News» e «The Ball State Daily», anche se lui preferiva
il «Diário de Notícias», il suo quotidiano prediletto da decenni, da quando aveva
concesso la prima intervista a un foglio nazionale. Per un disguido burocratico, invece,
i documenti presidenziali non erano ancora pronti quando l’auto si era mossa dalla
capitale, tanto che giunsero al forte solo in tarda mattinata. In ogni caso, non c’era
tempo per parlare di musica, teatro o spettacoli al São Carlos, come al solito.
Augusto Hilário si girò per lavarsi le mani in un lavandino attaccato al muro, pensando
a come curare l’alluce valgo, i calli, i duroni, le micosi ungueali, le verruche e
le unghie incarnite del Presidente, a come massaggiare il suo piede infermo, un difetto
di cui solo la sua famiglia era a conoscenza, un segreto da custodire con cura. Ma
Augusto sentì uno schianto e si voltò immediatamente. Salazar, che aveva l’abitudine
di cadere pesantemente quando si sedeva, aveva calcolato male la distanza dalla sedia,
una sedia di legno da regista con una tela alle spalle. Nel pesante impatto, la tela
aveva ceduto e Salazar aveva battuto la testa a terra. Girandosi, Augusto lo vide
sdraiato sul pavimento, dolente. Mentre Augusto era agitato per l’accaduto, Salazar
si mostrava tranquillo. In preda al panico, il callista lo aiutò ad alzarsi, notando
che era bianco in volto, lo fece sedere con attenzione su un’altra sedia e suggerì
che era il caso di chiedere aiuto. Salazar fece segni negativi con la testa. Pochi
minuti dopo, il dittatore decise che il silenzio era la cosa migliore: esigeva che
il podologo non dicesse a nessuno ciò che era accaduto. Esitante, Augusto acconsentì
e passò allo statista un bicchiere d’acqua zuccherata, ma l’altro fece di nuovo gesti
negativi col capo. Lasciando i giornali a terra, Salazar si mise in silenzio aspettando
che Augusto facesse il suo lavoro.
Solo un’altra persona si accorse che qualcosa di strano era accaduto, era la governante
Dona Maria, ma pensò che fosse stata una porta a sbattere. Per precauzione scese egualmente
al piano di sotto e si rese subito conto che il Presidente aveva preso una brutta
botta. Visibilmente scossa, tentò di convincerlo a chiamare immediatamente un medico,
ma anche in questo caso Salazar rifiutò. Entro cinque giorni avrebbe avuto il suo
appuntamento bisettimanale di routine con il dottor Eduardo Coelho e non vedeva alcun
motivo per anticiparlo.
Un fremito di paura sembrava aver preso possesso del suo cervello. Si sentì invecchiato
di colpo. Era abituato a controllarsi con cura, ma questa volta pensò che il corpo
potesse avere il sopravvento sul suo pensiero. Aveva ormai 79 anni e un peso gravoso
addosso che portava dal 1932: il potere. La forza della sua tenuta era l’invisibilità.
Il corpo contava poco, sino a quel maledetto agosto del 1968. Lui governava un impero
da una sorta di «cella» a São Bento, da dove non usciva quasi mai. «La mia politica
è il lavoro», usava dire a chi lo invogliava a visitare le estese praterie del suo
potere che si estendevano in ogni angolo del pianeta. Ma già Lisbona gli pareva immensa,
lui che adorava solo la casa di famiglia a Vimieiro, l’orto, la vigna, le passeggiate
e la festa dell’Ascensione a cui non mancava mai. Ma quello che gli sembrava imperdonabile
era il fatto che la casa, i muri e i campi di Vimieiro, nel comune di Santa Comba
Dão, nel distretto di Viseu, stavano crollando proprio mentre crollava l’impero. Il
tetto spiovente dell’edificio bianco cedeva e perdeva tegole, il giardino alle spalle
deperiva e lui non aveva il tempo di occuparsene dovendo pensare a come rintuzzare
gli attacchi in Angola, a come proteggere i civili in Mozambico, a come arrestare
i guerriglieri della Guinea portoghese, a come arginare le proteste dei giovani universitari.
Senza parlare poi degli irriducibili oppositori interni e dei fuoriusciti che in ogni
angolo d’Europa lo sbugiardavano non comprendendo la missione che il destino gli aveva
assegnato, salvare l’ex impero portoghese dalla dissoluzione: «Una patria, una e indivisibile»,
come usava dire nei suoi proclami radiofonici.
Non era la sua immagine ma il suo nome a diventare oggetto di culto. Lui era silenzio,
occultamento, invisibilità, lui era come Dio, stava un gradino sotto il supremo governante
dell’infinito, ma non doveva mostrarsi. Non aveva età, non aveva corpo, non aveva
sentimenti. Non parlava direttamente, parlava per simbolismi e oracoli, ciò che diceva
era solo da interpretare e tradurre in linguaggio comune. Come Dio, anche lui assegnava
a ognuno il proprio destino: i ricchi dovevano restare ricchi, i poveri dovevano rassegnarsi,
gli oppositori dovevano subire la repressione che lui considerava «una scossa data
in tempo, un avvertimento a non proseguire sulla strada sbagliata». Certo, ammetteva
il perdono, ma non lo praticava per non spezzare la ragnatela delle certezze dell’Estado
Novo, la sua creatura politica e istituzionale, che si basava su due concetti inalienabili:
il corporativismo e il colonialismo. Una rete austera, riservata, discreta, oscura,
granitica, perseverante che esaltava il ruolo dello Stato, uno dei più antichi del
mondo, della Chiesa, una delle più solide e tradizionali, e della storia, una delle
più significative in tutto il globo.
L’immortalità di questo destino era nelle sue mani. E il suo corpo non poteva certo
tradirlo, pensava mentre guardava il tramonto dalla terrazza del Forte di Santo António
da Barra, all’Estoril, e constatava che l’impero era ancora lì, inamovibile come lui,
oltre l’orizzonte delle scoperte e l’ignoto dell’oceano che i suoi antenati avevano
attraversato senza timore e paure. E pensava ai granelli che avevano composto la Carreira da Índia: Madera, Porto Santo, Azzorre, Capo Verde, Guinea, São Tomé e Príncipe, Cabinda,
Angola, Mozambico, Goa, Daman e Diu, Timor Est per giungere infine a Macao.
Tutto era congelato nei suoi pensieri: il presente, il passato, il futuro. Lui era
il cervello del Portogallo, conteneva tutti gli scali della circumnavigazione della
Via delle Indie, anche se non l’aveva mai percorsa. Si sentiva come colui che aveva
scoperto l’arcipelago di Capo Verde, che aveva conquistato la Guinea e l’Angola, raggiunto
Goa e Malacca, governato la tratta degli schiavi e le vie delle spezie, un ammiraglio
ricco e un timoniere povero, un manovratore di tempeste, un tagliatore di teste, un
naufrago dell’impero. Sognava di condurre sulle navi schiavi di Ajudá, di accompagnare
al lavoro minatori di Dondo, raccoglitori di caffè di Uíge, tagliatori di legna della
Guinea, pescatori di Capo Verde, operai dei pozzi di Cabinda, piantatori di cacao
di São Tomé, cercatori di diamanti di Luanda, santoni di Goa, commercianti di Malacca,
topasses di Timor (meticci che parlavano la lingua locale tétum), biscazzieri e magnaccia di Macao. E se incontrava qualche altro pensionando del
Forte di Santo António da Barra, un veterano di guerre tra mangrovie e liane, foreste
e serpenti, non mancava di mostrare il suo unico, vero, autentico rammarico dell’esistenza:
la perdita dell’India portoghese.
Quella notte del 1954, era il 22 luglio, quando i soldati indiani e i separatisti
occuparono Dadra, l’ingranaggio coloniale cominciò a vacillare. Due settimane dopo
cadde pure Nagar Haveli. Si formò una amministrazione pro-indiana che fu annessa
allo Stato indiano solo nel 1961. Fu il primo inconfessabile affronto subìto dai discendenti
di Enrico il Navigatore. Per tutti i figli dell’impero si sacrificò Aniceto do Rosário,
capo della polizia indo-portoghese di Dadra, del quale conservò a lungo la fotografia.
Sarebbe stato il primo eroe della decolonizzazione. Quasi come una maledizione, Salazar
pensò che perdere un solo scalo nel periplo delle spezie significava smantellare il
percorso che teneva tutti uniti, dalla madrepatria all’oltremare. Lo disse anche il
rappresentante del governo di Lisbona davanti alla Corte Internazionale di Giustizia
nel 1960 difendendo l’appartenenza delle due piccole città di Daman e Diu e delle
enclavi di Dadra e Nagar Haveli.
Senza quei piccoli grani della conquista, il rosario del cristianesimo lusitano si
era sentito sfilacciato perdendo un anno dopo anche il Forte di São João Baptista
de Ajudá, annesso senza troppo faticare dal Dahomey, diventato poi Benin. Ma Salazar
ha tenuto in piedi con la forza e la tenacia il resto della Carreira da Índia, rispettando il mandato celeste di incaricare i portoghesi del compito di dare un’anima
ai popoli persi nell’oblio dell’animismo. E anche se aveva la certezza che un giorno
Dio lo avrebbe chiamato tra le proprie braccia, lui sarebbe sopravvissuto con il suo
impero: «Mi piacerebbe gustarmi di vedere la confusione in cui il paese cadrà quando
sarò sparito». Lui era una entità sublime, come Dio, la Madonna di Fátima, Gesù venuto
in terra, lui era il niente e il tutto, l’infinito e la potenza, lui incarnava lo
spirito del Nuovo Medioevo portoghese installato nel Novecento, la grandezza della
distanza atlantica, il legame marittimo tra Europa e Oriente, la sfida alle incognite
della geografia, la magniloquenza della scoperta e della conquista. Il Signore aveva
posto una mano sulla spalla di Enrico il Navigatore e gli aveva offerto il compito
di conquistare gli oceani: un popolo minuto, piccolo, agricolo e un mondo immenso
a cui dare un nome e un destino cristiano, oltre le incognite della Vuelta africana,
oltre il Capo di Buona Speranza, oltre i mari caldi indiani e i mari freddi della
Cina.
Augusto Hilário era pieno d’ansia e di agitazione. Arrivato a Lisbona, prese carta
e penna e scrisse: «On. Signor Presidente, sono rimasto molto colpito e preoccupato, è così che sono
uscito oggi dal forte. Prego Dio, signor Presidente, che nessuna conseguenza sia arrivata
con una caduta così tremenda. Quindi, con i più rispettosi saluti, spero che sia in
ottima salute, scusandomi».
Non si sentiva sollevato e così, tormentato, tornò al forte per consegnare personalmente
la busta che restò nell’atrio al piano terra per tutta la notte. La mattina dopo,
alle 10, un responsabile della segreteria di Salazar, António da Silva Teles, la vide,
la aprì e la lesse. A quel tempo, la presidenza del Consiglio non aveva un capo di
gabinetto. Per aiutarlo, c’erano solo due segretari – Silva Teles e Anselmo Costa
Freitas – che andavano ogni giorno, alternativamente, da Lisbona all’Estoril per curare
e filtrare la corrispondenza.
Anselmo Costa Freitas era molto giovane e intraprendente, aveva 30 anni, il colore
dei suoi occhi variava dal blu nei giorni grigi al verde nei giorni soleggiati e aveva
già dei capelli bianchi. Più giovane di sette fratelli, rimasto orfano di madre a
soli tre anni, si era sposato da pochi giorni, il 23 luglio 1968, con Daniela, figlia
del maggiore Sarsfield Rodrigues: Salazar lo conosceva bene, l’aveva fatto arrestare
più volte. A officiare la cerimonia era stato suo fratello maggiore, Manuel, che era
un sacerdote. Dopo la caduta, Anselmo fu il primo a notare qualche misterioso cambiamento
nel comportamento del dittatore.
Leggendo la lettera del callista, António da Silva Teles trattenne il respiro e non
appena Salazar arrivò nel suo ufficio del forte, rilasciando un leggero odore di balsamo,
gli chiese: «Come sta, signor Presidente? Ho appena visto da una lettera di Hilário
che ha subìto una caduta?!». Il Presidente scosse le spalle e rispose: «Ah! Il signor
Hilário mi ha scritto? È vero. Stavo per sedermi su una poltrona che non c’era, non
era ben imballata e sono caduto impotente con la nuca sul pavimento. Mi sento insensibile
nel mio corpo, sto persino mettendo degli unguenti e sto vedendo che mi passa».
Subito rispose per iscritto ad Augusto Hilário: «Sembra che non ci siano state conseguenze
della caduta oltre ai dolori fisici. Mille grazie».
In verità quel mal di testa lo tormentava e non poco. Così il 6 agosto ricevette il
suo medico curante, Eduardo Coelho, il quale fece un rapido esame neurologico e non
trovò cambiamenti «sospetti». Ma era preoccupato. Il suo volto si contrasse, le labbra
quasi si assottigliarono e la fronte ampia mostrò qualche ruga inaspettata, frutto
di un rovello interiore. Allora lanciò un avvertimento al Presidente del Consiglio
e a Dona Maria: in seguito a queste cadute, in testa si poteva formare un ematoma
che avrebbe agito silenziosamente per giorni, settimane o mesi. Se fossero comparsi
strani sintomi, avrebbero dovuto chiamarlo «immediatamente». Salazar era calmo, ma
mostrava una certa titubanza. Eduardo Coelho aveva programmato di andare in vacanza
in Germania, lungo il Reno e in Alsazia e visitare poi suo figlio Álvaro che viveva
a Parigi e lavorava come ricercatore di biologia cellulare all’Università. Tuttavia,
decise di rimandare il viaggio e prenotò una stanza per quindici giorni all’Hotel
Estoril Sol, a pochi chilometri dal forte. Tutta questa preoccupazione non era dettata
da apparenti motivi clinici, ma da motivi personali. Eduardo Coelho era assistente
medico di Salazar dal 1945 e nutriva un grande affetto per lui. Conosceva perfettamente
le sue reazioni fisiche e psicologiche.
In diverse lettere che scrisse al dittatore, il medico si qualificava come un «amico
molto grato» che aveva «il privilegio di essere in grado di sorvegliare e proteggere»
la salute del suo paziente con «devozione». E il premier portoghese, nella dedica
di una fotografia che gli regalò, scrisse: «Il clinico e il malato sono due vite e
si consacrano a vicenda fino alla vittoria finale su malattia e morte». La fiducia
di Salazar in una «vittoria finale su malattia e morte» era giustificata dal fatto
che Eduardo Coelho rappresentava una leggenda in campo medico. Fu uno dei primi cardiologi
moderni in Portogallo e il primo professore di cardiologia alla Facoltà di Medicina
di Lisbona.
Ma a legarli era anche la loro storia personale. Erano entrambi figli della campagna
portoghese, brumosa, discosta, arcaica e provinciale; Salazar veniva dalla Beira Alta,
Coelho dal Minho. Il medico raccontava spesso che, quando frequentava la scuola elementare,
doveva percorrere tre chilometri a piedi ogni giorno. Forse era per questo che non
gli piaceva essere messo nei guai: all’ingresso dell’aula in cui insegnava, aveva
posto un cartello con la frase «Non fate attenzione alla critica, viene dagli uomini
che mi sono vicini».
Coelho aveva studiato all’Università di Coimbra con António Egas Moniz, Premio Nobel
nel 1949 per l’ideazione della leucotomia prefrontale che venne poi modificata dai
chirurghi statunitensi in lobotomia vera e propria, con la recisione di un numero
maggiore di fibre nervose. Aveva svolto con lui il dottorato, era diventato suo collaboratore
e aveva sposato una delle sue nipoti. Era stato al suo fianco nei quattro momenti
cruciali dell’esistenza di Egas Moniz: la gloria, il successo, la tragedia e la morte.
La gloria arrivò il pomeriggio del 28 giugno 1927 quando il professore eseguì la prima
angiografia cerebrale della storia, una tecnica che consentiva di vedere l’interno
delle arterie attraverso la radiografia e quindi di localizzare i tumori. Eduardo
Coelho era nella camera oscura e, quando si rese conto che l’intervento aveva funzionato,
gridò: «Eureka! Eureka!». E fu vicino a Egas Moniz quando questi ebbe l’onore di ricevere
l’ambito riconoscimento svedese che lo consacrò al successo internazionale. Così come
fu testimone della tragedia che lo colpì il 14 marzo 1939. Egas Moniz ricevette nel
suo ufficio Gabriel Coedegal de Oliveira Santos, che soffriva di problemi mentali
da nove anni. Il paziente gli chiese una prescrizione per «fiale più energiche», ma,
appena iniziò a scrivere, il dottore sentì che «la penna gli era saltata fuori di
mano». Era il primo proiettile che lo stava colpendo. Al quinto cercò di alzarsi,
ma Gabriel gli scaricò addosso altre due pallottole. Egas Moniz sembrava resistere
a quella scarica di piombo. A Gabriel restava un solo colpo in canna. Sparò ma sbagliò
mira. Non se ne accorse e uscì nel corridoio gridando: «Ho ucciso il dottor Egas Moniz!».
Pochi secondi dopo arrivò Eduardo Coelho, che lavorava allo stesso piano, con un collega.
Il professore, in una pozza di sangue, in maniera teatrale, disse: «Lasciami morire
qui tranquillamente. Sono ferito a morte. Questo mostro mi ha trafitto di proiettili.
Non posso resistere». Eduardo Coelho chiamò i soccorsi, giunse subito un’ambulanza
e il professor Egas Moniz sopravvisse. Anche quando il Premio Nobel morì lui era lì.
Era un freddo 13 dicembre 1955 ed Egas Moniz ebbe un attacco di gotta «molto grave»
e un’emorragia digestiva «violenta». Gli morì tra le braccia.
Da allora Coelho temeva che anche Salazar potesse essere vittima di un attacco improvviso.
A presentarlo a Salazar era stata la famiglia Serras e Silva, di Coimbra, molto legata
al Presidente del Consiglio portoghese. Un rapporto stretto quello con il medico al
punto che Salazar gli regalò persino un paio di scarpe e più volte gli offrì dei mazzi
di fiori. Il dottore era di casa a São Bento: quando nell’orto fiorivano verdure e
cavoli oppure c’erano le uova fresche delle galline e arrivava la frutta da Santa
Comba Dão, Dona Maria non mancava di invitarlo a pranzo. Mangiavano insieme: pareva
loro di stare in una fattoria in campagna, non nella sede del primo ministro.
Uno sguardo sul mare
La vita sedentaria e monotona del forte riprese come ogni estate. La sua ultima apparizione
pubblica era stata il 13 luglio a una manifestazione di trasportatori che innalzavano
lo striscione Il personale dei trasporti ringrazia Salazar. Dal 26 luglio Salazar e la governante Dona Maria si erano trasferiti all’Estoril,
secondo un cerimoniale tradizionale. Il loro spostamento al forte permetteva poi la
grande pulizia annuale degli uffici di São Bento. L’imponente costruzione del forte,
voluta da Filipe I a difesa del Tago, protetta da un ponte levatoio, sulla Estrada
Marginal che va dalla capitale a Cascais, era una colonia estiva lussuosa per i figli
dei militari, l’Instituto de Odivelas. Salazar pagava di suo pugno l’affitto della
parte dell’edificio che occupava, come un distinto pensionando. Ogni anno stipulava
un contratto con le tabelle delle spese da affrontare. E per correttezza si faceva
mandare pure i preventivi di altre pensioni della zona del litorale, ma poi finiva
sempre a Santo António.
Dopo la pesante caduta, alle persone più intime non nascondeva i dolori di testa a
cui cercava di rimediare prendendo delle aspirine. Ma il suo interesse era rivolto
alla composizione del nuovo governo, alla guerra d’Africa e alla Primavera di Praga.
Si permise di sconsigliare ai suoi ministri di partecipare ai fastosi balli organizzati
per i primi di settembre da Patiño e Schlumberger, i quali volevano trasformare il
Portogallo in un centro di cosmopolitismo mondano, contrario com’era a ogni forma
di esibizionismo. Il primo fu quello offerto dal magnate boliviano Antenor Patiño,
il re dello stagno, ad Alcoitão, tra Cascais e l’Estoril, seguito l’indomani da quello
organizzato dal signor Pierre Schlumberger, sposato con una portoghese, nella sua
casa di vacanza a Colares, entrambi neoricchi con una gran voglia di farsi conoscere.
Schlumberger lo chiamavano Signor 5% perché doveva la sua fortuna all’invenzione di un sistema per il raffinamento del
petrolio adottato da tutte le grandi compagnie petrolifere. Per ogni impianto estrattivo
gli spettava quella percentuale.
Di fatto, lo sbarco di personaggi influenti da tutto il mondo intasò l’aeroporto di
Lisbona tanto che i facchini ammassarono pile di valigie di Vuitton sui carrelli distribuendole
poi a casaccio nelle varie Rolls Royce che attendevano fuori, causando non pochi bisticci
tra i nuovi arrivati. Approfittando di quelle presenze, i gemelli Francisco e Carlos
Palha, proprietari terrieri, organizzarono una festa campestre, detta Arraial, con
tori, balli, asado e tavolate all’aperto. La nota attrice Zsa Zsa Gábor, pseudonimo di Sári Gábor, ungherese
naturalizzata statunitense, fu pizzicata con teli e asciugamani dell’albergo Palace
dell’Estoril nascosti nella valigia e solo l’intervento dell’ambasciata americana
la salvò dallo scandalo. A rompere l’ordine ci pensò l’irrequieta figlia del Presidente
della Repubblica, Natalia Tomás, pronta a partecipare alle feste, creando qualche
tensione tra le due massime cariche ufficiali dello Stato lusitano.
Con lo sguardo sempre più perso nel nulla, Salazar si appoggiava al muro del terrazzo
del Forte di Santo António da Barra e scrutava l’immensità dell’oceano. Poi si sedeva
su una seggiola assai sicura, inforcava il binocolo e osservava le barche di passaggio
oppure inquadrava le persone che prendevano il sole sugli scogli. Forse quella donna
o quell’uomo erano nella sua testa, forse erano seguiti dagli agenti della polizia
politica, la Pide, oppure erano stati arrestati e poi rilasciati. Era gente che dipendeva
da lui: la loro felicità era condizionata, come la loro libertà. Eppure, quei gesti
estivi e naturali gli parevano una concessione che regalava al popolo. Non fidandosi
troppo di altre seggiole, oramai sedeva solo nella poltrona stile Alabama, con le
gambe in legno di faggio, i braccioli ben visibili e corpo centrale e schienale imbottiti.
A dispetto della sua discrezionalità, in quel mese accettò di essere fotografato.
A pranzo sedeva al solito tavolo imbandito con una tovaglia con qualche ricamo e un
vaso di fiori nel mezzo. Si vestiva di bianco e si metteva una cravatta scura. Aveva
ricevuto il Presidente della Repubblica Américo de Deus Rodrigues Tomás per discutere
del rimpasto di governo, ma sembrava difficile trovare un assetto diverso, a parte
una linea ideologica basata sulla fedeltà e sulla competenza.
Il 15 agosto Salazar accolse a braccia aperte la scrittrice e giornalista Christine
Garnier e il suo nuovo marito, che decisero di trattenersi alcuni giorni in un hotel
dell’Estoril. Il conto venne pagato dal Presidente del Consiglio di tasca propria.
Già nel 1951 Christine Garnier aveva scritto un libro su di lui, durante un soggiorno
in Portogallo (Vacances avec Salazar, edito da Grasset), facendo conoscere agli europei quell’uomo discosto e schivo.
Avendo acquisito una certa intimità con l’autrice – si diceva fosse l’unica donna
verso cui manifestò apertamente un amore platonico – lui per la prima volta le parlò
della morte. L’eterno dittatore si sentiva più vicino a Dio, ma aveva anche il rammarico
di veder crollare la sua creatura. Non poteva trattenere il tempo, nonostante il suo
orologio, un vecchio Roskopf, non si fosse mai fermato un solo istante e lui stesso
si premurava di ricaricarlo ogni sera prima di coricarsi. Gli oggetti che lo circondavano
erano gli stessi: la stessa macchina fotografica Zeiss Ikon, la stessa borsa di pelle
sempre piena di fogli e libri, lo stesso rasoio da barba, la stessa lozione dopobarba
Floid, lo stesso bastone da passeggio, la stessa penna, gli stessi temperini, almeno
venti. Li conservava perché così conservava anche il tempo che contenevano, anche
se in quell’estate sentiva un’improvvisa necessità di accelerare le cose.
Così il 19 agosto annunciò il nuovo governo e incontrò i neoministri, il 26 scrisse
una lettera al capo di Stato del Biafra assicurando un appoggio portoghese all’indipendenza
dello stato secessionista. Il suo impegno politico era però venato da un sentore interiore
che non aveva mai conosciuto prima, un’ansia del corpo. Il manifestarsi della crisi
si ebbe già il 27 agosto, quando per un forte mal di testa prese delle aspirine e
chiamò il suo medico. Da quel momento i dolori al capo divennero frequenti.
Il 31 agosto arrivò al Forte di Santo António da Barra anche la sua figlioccia, Maria
da Conceição de Melo Rita, detta Micas, rientrata dalle ferie in Algarve con il marito.
La donna si mostrò preoccupata per le condizioni di Salazar, anche se lui cercò di
smorzare l’ansia della persona che da tempo gli stava accanto. Il giorno seguente
il Presidente Tomás gli fece visita e lo trovò di buon umore. Il 3 settembre si tenne
a Lisbona la prima riunione del nuovo gabinetto. Salazar appariva estraniato, silenzioso,
distaccato da quel Consiglio dei ministri che doveva rilanciare l’attività governativa.
La mattina dopo ebbe difficoltà a firmare la solita corrispondenza, la sua calligrafia
era incerta. Passò la notte con forti dolori alla testa. Quando arrivò, il dottor
Coelho constatò che la sua gamba destra era bloccata e la sua memoria vaga. Il giorno
dopo si recò al forte il dottor Luís Ferraz de Oliveira, oculista, che esaminò il
fondo degli occhi. A suo parere, c’era la possibilità che si fosse formato un ematoma
che comprimeva il cervello di Salazar. Nel frattempo lo stato clinico peggiorava e
cominciavano a manifestarsi sintomi di emiplegia sul lato destro, il che permetteva
di localizzare l’ematoma sul lato sinistro del cervello. A quel punto Coelho e Ferraz
decisero di contattare il neurologo Miranda Rodrigues e il neurochirurgo Moradas Ferreira,
ma poi optarono per il neurochirurgo António de Vasconcelos Marques con il quale fissarono
una visita per il giorno successivo, 6 settembre, all’Estoril. Dopo un accurato controllo,
il medico consigliò l’immediato ricovero.
La più lunga notte del regime
Era sera, il cielo striato della costa annunciava il lento calare della luce e un
progressivo buio inghiottì le sagome urbane delle località turistiche. In pochi sapevano
che quello era il tramonto dell’impero portoghese. Seduto sul retro della vettura,
accanto a Coelho e Vasconcelos Marques, Salazar aveva uno sguardo assente, pieno d’incredulità
per quello che gli stava accadendo, lui che si considerava eterno. Davanti stavano
seduti l’autista Manuel e il direttore della Pide, Silva Pais. Nel tragitto i due
medici cercavano di tastare le sue capacità mentali, ma Salazar non rispondeva a domande
semplici: in quale ateneo si era formato o in quale anno si era laureato. Quando l’autista
fermò la Cadillac alla porta dell’ospedale Capuchos di Lisbona, dove i medici erano
pronti per un elettroencefalogramma, il Presidente scese da solo, ma non camminò molto,
aspettando una sedia a rotelle. Aveva bisogno di aiuto e, sedendosi, disse pian piano,
rivolto più a sé stesso che agli altri: «È incredibile, sembra incredibile». La macchina
si mosse di nuovo, poco dopo, in direzione dell’ospedale di São José per una radiografia.
Entrambi gli esami non portarono ad una diagnosi certa. Si decise allora di ricoverarlo
alla Casa della Salute della Croce Rossa, nel quartiere di Benfica, dove giunse alle
23,30 e venne ospitato nella stanza 68, al sesto piano, la cui ala era libera.
Il sottosegretario di Stato della Presidenza del Consiglio Paulo Rodrigues diede ordine
ai servizi di censura di tagliare qualsiasi notizia relativa alla salute del Presidente
del Consiglio, il ministro Gomes de Araújo, sentito il Presidente della Repubblica,
mise preventivamente in allerta alcune unità militari e il ministro dell’Interno Gonçalves
Ferreira Rapazote predispose un piano immediato di sicurezza.
Quella sera, quando la Cadillac lasciò l’Estoril, centinaia di ospiti del jet set
provenienti da tutto il mondo stavano arrivando in una fattoria a pochi chilometri
di distanza, ad Alcoitão, alla festa del re dello stagno, Antenor Patiño. Il vertice
del regime era diviso tra coloro che danzavano con i milionari e gli aristocratici,
e quelli che – in ansia – si precipitarono all’ospedale della Croce Rossa.
Sicuramente fu la notte più lunga del regime portoghese, come lunga sarà la notte
del 25 aprile 1974 che portò alla Rivoluzione dei Garofani. Con il suo arrivo all’ospedale
della Croce Rossa sembrerebbe terminare il rapporto tra Salazar e il potere. Se l’élite
portoghese viveva momenti concitati, il paese dormiva un sonno profondo, ignaro che
dopo quasi mezzo secolo stava arrivando una svolta inattesa. Altri medici corsero
intanto al capezzale del dittatore più longevo del pianeta. Coelho propose che a eseguire
l’operazione alla testa fosse Moradas Ferreira, noto esponente dell’opposizione, legato
al Partito Comunista Portoghese, ma in quel momento si trovava a Madera e quindi venne
escluso.
Il corpo del dittatore fu sottoposto ad ogni esame possibile nell’incredulità degli
stessi medici: il fisico non reggeva più. Vasconcelos Marques, sentito il parere dell’esimio
professor Almeida Lima, anche lui chiamato d’urgenza al centro ospedaliero della Croce
Rossa, d’accordo con i dottori presenti decise per l’operazione. I vertici del potere,
riuniti nella sala accanto, diedero il benestare. Il cardinale Manuel Gonçalves Cerejeira,
mentore dell’ascesa al potere dell’uomo venuto da Vimieiro, impartì l’estrema unzione.
Maria Cristina da Câmara eseguì l’anestesia. Salazar entrò in sala operatoria dove,
oltre a Vasconcelos Marques, erano pronti in camice Álvaro de Ataíde, Lucas dos Santos,
Jorge Manaças e Fernando Silva Santos. Erano presenti anche Eduardo Coelho, Almeida
Lima, Bissaia Barreto, Lopes da Costa, João de Castro, Ana Maria Monteiro, João Bettencourt
e altri. Alcuni di loro erano membri conosciuti della massoneria: Bissaia Barreto,
Álvaro de Ataíde, il medico analista Fernando Teixeira, il nefrologo Jacinto Simões.
Per una stramba coincidenza, Salazar era nelle mani del chirurgo Álvaro de Ataíde,
anche lui noto esponente dell’opposizione. Il chirurgo era figlio del colonnello Álvaro
Paes de Ataíde che aveva guidato i militari contro la dittatura imposta il 28 maggio
1926. Grande maestro aggiunto della massoneria, anche lui allievo del primo Premio
Nobel portoghese Egas Moniz, miglior esperto al mondo di angiografia cerebrale, aveva
apertamente appoggiato ogni movimento nato contro la dittatura, inclusa la candidatura
di Humberto Delgado, il Generale senza paura, alle elezioni presidenziali del 1958, che si conclusero con la sua sconfitta, l’esilio
e l’uccisione avvenuta il 13 febbraio 1965 insieme alla sua segretaria Arajaryr Moreira
de Campos, mentre stava tentando di entrare in Portogallo.
Guanti e mascherina sul volto, Álvaro de Ataíde si trovava ora disteso davanti, sul
lettino, il suo peggior nemico al quale doveva salvare la vita continuando così a
perpetrare la più vetusta dittatura del mondo. Fu lui, in ogni caso, ad aprire il
cranio di Salazar con il trapano lasciando poi a Vasconcelos Marques il compito di
intervenire sull’ematoma intracranico subdurale situato nell’emisfero di sinistra.
L’operazione si svolse in sole due ore. Coelho uscì per primo ad annunciare ai dirigenti
del paese che si trattava di un semplice ematoma, ora rimosso. Si decise quindi di
rivelare in patria e nei territori d’oltremare quanto accaduto e venne stilato un
bollettino medico a cui la censura mise mano sostituendo ematoma intracranico con ematoma e mattina con notte. Alle 9 del mattino il giornale radio dell’Emissora Nacional annunciò l’avvenuto
intervento con la voce di Pedro Moutinho. Un nuovo bollettino venne emesso alle 21
con inediti dettagli: Salazar era stato «operato con esito positivo a un ematoma intracranico
subdurale» e «continuava a migliorare progressivamente» in una situazione post-operatoria
«che procede normalmente».
Il bollettino dell’8 settembre era ancora più positivo: il paziente si alimentava
normalmente, parlava con i medici e la cicatrizzazione della ferita era buona. Qualche
giorno dopo, per dimostrare la normalità della situazione, Salazar ricevette nella
sua camera d’ospedale le sorelle Marta, María Leopoldina e Laura. Messe di gratitudine
verso il Signore si tennero in diverse parrocchie, persino nella cappella dell’ospedale
della Croce Rossa, davanti al quale si assiepavano migliaia di persone per firmare
il foglio di felicitazioni collocato nell’atrio. Il 14 settembre il bollettino medico
annunciava il probabile ritorno del Presidente del Consiglio nella sua residenza.
Così Maria da Conceição de Melo Rita, la fida figlioccia, racconta il suo primo contatto
con Salazar nell’ospedale: «Non parlava, ebbi l’impressione che mi avesse riconosciuto,
ma non ne ero sicura. Le altre volte che entrai nella stanza parlava a monosillabi,
quasi sempre in forma incomprensibile. Mantenni l’incertezza sul riconoscimento della
mia persona. Una visita da segnalare fu quella di Christine Garnier, venuta apposta
da Parigi. Mi raccontarono lo choc che ebbe nel vedere ilsignor dottore in quelle condizioni; uscì da quell’incontro molto angustiata», abituata in passato
a conversare allegramente con lui.
Nonostante l’ottimismo dei bollettini ufficiali, le voci popolari dicevano che il
dittatore non aveva possibilità di riprendersi, tanto che Radio Mosca invitò le forze
di opposizione a tenersi pronte e a unirsi per sconfiggere definitivamente la dittatura
e il Fronte Patriottico di Liberazione con la sua emittente radiofonica clandestina
lanciò un appello per la formazione di commissioni civiche nei posti di lavoro e di
giunte rivoluzionarie che avrebbero dovuto funzionare come strumenti di vigilanza.
Ma non accadde nulla di tutto ciò.
La svolta si ebbe il 16 settembre. La mattina Coelho spiegò a Salazar l’operazione
che aveva subìto. Il professor Vasconcelos Marques disapprovò il comportamento del
collega. All’ora di pranzo, entrò nella stanza il dottor Álvaro de Ataíde. Appena
terminato di mangiare, Salazar ebbe un forte dolore alla testa e mettendosi la mano
sulla fronte disse al medico che gli stava accanto: «Sono molto afflitto. Ahi, mio
Gesù!». E svenne sulla poltrona. Subito soccorso, gli venne diagnosticata una emorragia
cerebrale sulla parte destra, al lato opposto di quella precedente. Di nuovo tutto
il mondo politico portoghese si affrettò a giungere al capezzale del Presidente del
Consiglio.
«L’evoluzione del caso clinico e il regresso di tutta la sintomatologia – ha scritto
il dottor Coelho – non facevano intravedere una complicazione di tale gravità come
quella sopraggiunta il 16 settembre quando si sviluppò un violento accidente vascolare
cerebrale con emorragia nell’emisfero destro. Salazar teneva la mano sulla fronte
con dolori violenti, ripeté ‘Ahi, mio Gesù!’ ed entrò subito in coma. L’intervento
immediato del dottor Ataíde, che già si trovava nella stanza del paziente, concorse
ad alleviare la crisi. Io giunsi pochi minuti dopo. Chiamammo nuovamente il neurochirurgo
prof. Almeida Lima e poi altri medici».
L’ora del cambio
Il 17 settembre alle ore 17 al Palacio di Belém si riunì il Consiglio di Stato sotto
la presidenza del capo dello Stato Américo Tomás, presenti le massime autorità. Nella
sua relazione propose la sostituzione di Salazar, visto che i medici concordarono
sull’impossibilità che potesse tornare a svolgere le sue funzioni di capo dell’esecutivo.
Nel dibattito che ne seguì, Mário de Figueiredo, presidente dell’Assemblea Nazionale,
propendeva per ritardare la scelta della sostituzione; Clotário Luís Supico demandò
a Américo Tomás la scelta di un cambio definitivo o di un incarico adinterim; António Furtado dos Santos, secondo vicepresidente dell’Assemblea Nazionale, si
dichiarò contrario alla sostituzione immediata; Fernando Pires de Lima, primo vicepresidente
della Camera Corporativa, si mostrò francamente contrario alla sostituzione; Albino
Soares Pinto dos Reis votò per un nuovo presidente effettivo; Marcelo Caetano optò
per un presidente ad interim senza scartare l’ipotesi di una nomina immediata del successore di Salazar; João
Pinto da Costa Leite valutò dolorosa la sostituzione di Salazar mentre si trovava
ancora in vita, demandando al capo dello Stato la scelta del criterio opportuno; il
generale Fernando Santos Costa disse che Salazar doveva morire nella piena titolarità
della sua carica; l’ammiraglio Manuel Ortins de Bettencourt demandò anche lui le scelte
a Américo Tomás; Pedro Teotónio Pereira si manifestò contrario all’idea di una sostituzione
in vita di Salazar; José Soares da Fonseca era anche lui contrario a una sostituzione
immediata; João Antunes Varela affermò che andavano comunque garantiti i principi
fondamentali dello Stato; Clotário Luís Supico si dichiarò a favore di una nomina
ad interim di una persona destinata poi a diventare presidente effettivo.
Seguì un dibattito forte e contrastato. Fu Marcelo Caetano che individuò in una disposizione
della Legge organica dello Stato in tempo di guerra una possibile soluzione ad interim. Si discusse persino del funerale di Salazar. Per Soares da Fonseca bisognava individuare
un luogo dove custodire il suo corpo, ma Américo Tomás riferì che il Presidente del
Consiglio aveva già espresso il desiderio di essere seppellito là dove era nato. Disse
che anche a lui ripugnava l’idea di una sostituzione immediata, ma che i superiori
interessi della nazione imponevano che si provvedesse al più presto. Si riservò quindi
di ascoltare in udienza privata tutti i membri del Consiglio di Stato per individuare
una persona in grado di assumere la carica di Presidente del Consiglio.
Su proposta dell’ambasciatore americano, interpellato dalle autorità portoghesi, Salazar
venne visitato dal professor Houston Merritt, professore di neurologia e vicepresidente
dell’équipe medica della Columbia University di New York, dove lo stesso Coelho aveva
tenuto due lezioni nel 1964. In meno di 48 ore giunse a Lisbona e il 18 settembre
il neurologo statunitense emise un comunicato che così si concludeva: «Sfortunatamente
il ritorno alle sue attività abituali è stato bruscamente interrotto, due giorni fa,
da un incidente vascolare cerebrale, una emorragia nell’emisfero cerebrale destro.
Questa emorragia non ha relazioni con l’ematoma subdurale di cui aveva sofferto in
precedenza, ma è stata una conseguenza della rottura di una arteria cerebrale. Il
Presidente sta lottando valorosamente per vincere la lesione cerebrale. Il suo grande
coraggio e la forza di volontà sono stati fattori fondamentali alla sua sopravvivenza
all’iniziale aggressione al suo sistema cerebrale. Partendo da questa grave situazione,
c’è ancora speranza che possa sopravvivere».
La valutazione pessimistica del professor Merritt, che parlava esclusivamente di «sopravvivenza»,
fece scattare l’allarme nel mondo politico lusitano. Si discuteva di un incarico ad interim, suggerito anche da Coelho. Il via vai dei medici al palazzo di Belém era costante.
Vennero consultati anche quattro specialisti di livello internazionale. Papa Paolo
VI inviò a Salazar una benedizione apostolica. Il 25 settembre Américo Tomás si recò
nella stanza 68 dell’ospedale di Benfica accompagnato dai medici. A nome dell’équipe
sanitaria, Vasconcelos Marques assicurò il capo dello Stato che Salazar non sarebbe
sopravvissuto o tutt’al più avrebbe continuato a vivere in condizioni tali da non
poter mantenere il suo ruolo. Sulla irreversibilità del danno erano d’accordo anche
Almeida Lima e Miranda Rodrigues, mentre Eduardo Coelho propendeva per una possibilità
di miglioramento o addirittura di ritorno a condizioni di vita normale. A favore dei
primi medici contava pure il parere del professor Merritt.
Un’ulteriore riunione si tenne al palazzo presidenziale di Belém. A sentire i dirigenti
sanitari, uscire dal coma non era una conquista vitale, la cosa grave sarebbe stata
una emiplegia, una paralisi della metà destra o sinistra del corpo. Un medico dichiarò
che esistevano due sostanziali ipotesi: o Salazar non sarebbe sopravvissuto oppure
avrebbe continuato a vivere con forti handicap, a cominciare da una demenza senile.
Rivolgendosi al Presidente della Repubblica, Coelho protestò vivamente contro questa
diagnosi, anche se ammise che in quelle condizioni sarebbe stato difficile per Salazar
proseguire nell’attività di Presidente del Consiglio, almeno al momento. Lo stesso
Coelho aveva assicurato che contava in un recupero dell’80/90% delle facoltà intellettuali
e del 60/70% di quelle motorie. Non venne ascoltato e il suo giudizio fu eluso dai
vertici istituzionali. Vasconcelos Marques dichiarò che nella migliore delle ipotesi
Salazar sarebbe rimasto invalido.
Ancora in coma, nella stanza numero 68 dell’ospedale della Croce Rossa, si procedette
dunque alla sua sostituzione. Il Presidente della Repubblica ascoltò pure i militari
che garantirono l’unità delle forze armate anche di fronte alla scelta di un civile.
Già il 25 settembre Tomás aveva confidato a Marcelo Caetano che la scelta sarebbe
caduta su di lui. E la notte del 26 settembre annunciò alla radio e alla televisione
l’esonero di António Salazar dalla carica e la sua sostituzione proprio con Marcelo
Caetano, che il 27 settembre venne formalmente nominato nuovo Presidente del Consiglio
dei ministri dopo quarant’anni, quattro mesi e ventotto giorni di dominio salazarista.
Nel suo discorso ufficiale Caetano ammise che il paese sino a quel momento era stato
governato da un uomo di genio, ma che d’ora in avanti sarebbe stato guidato da un
governo di uomini come gli altri. Nella stanza 68 dell’ospedale della Croce Rossa
si consumava l’agonia di una dittatura che aveva attraversato il Novecento. Su quel
repentino tramonto vegliava la smorfia agguerrita di Dona Maria, che occupava una
stanza distante due porte da quella del grande malato, e che stazionava stabilmente
al suo capezzale oppure nel corridoio, allontanandosi solo per pregare nella cappella
dell’ospedale, dando ordini perentori a tutto il personale medico e filtrando le personalità
che potevano semplicemente accostarsi alla stanza 68.
Nella prima riunione del Consiglio dei ministri, Caetano propose che Salazar, già
titolare della Grande Croce della Torre e Spada, fosse insignito del collare dell’Ordine
dell’Infante Dom Enrico, riservato solo ai capi di Stato. Vennero altresì garantiti
il suo vitalizio e la possibilità di risiedere a São Bento. Lui, intanto, stava sempre
nella stanza dell’ospedale di Benfica con Vasconcelos Marques che dichiarava: «Dal
punto di vista clinico, dovrebbe già essere morto mille volte; se resiste è per il
suo cuore e per la sua forza di volontà».
Nel delirio della stanza 68 solo Dona Maria capiva i monosillabi che l’uomo di Vimieiro
emetteva. Accostava l’orecchio alla sua bocca impastata e percepiva quello che voleva
dirle. Tutto l’Estado Novo stava nella sua testa, ma la sua testa adesso era malata.
A chi gli chiedeva come mai a São Bento ci fossero pochi libri, lui rispondeva proprio
così: «I libri io li tengo in testa, non ho bisogno di tenerli sugli scaffali».
Se la censura aveva permesso che le notizie sugli scontri coloniali potessero essere
pubblicate solo come necrologi, al massimo con titoli di due colonne, lui si chinava
sul foglio per leggere i nomi dei caduti, poi li annotava su un foglietto a righe,
e li guardava e riguardava finché non gli entravano in testa. Solo allora gettava
la carta nel cestino con un gesto lento, come se accompagnasse le persone indicate
verso il paradiso dove, sicuramente per lui, erano destinati coloro che si erano battuti
ed erano deceduti per la patria, la cristianità e la missione divulgatrice del Portogallo
nel mondo. Il suo archivio memoriale incamerava l’elenco completo dei morti nelle
foreste coloniali dove giovani e ragazzi della madrepatria difendevano l’oramai decadente
impero. E se le altre potenze coloniali cedevano alle pressioni dei notabili delle
tribù concedendo l’indipendenza ai territori sparsi nei continenti – la Gran Bretagna
creò nel 1931 a questo scopo il Commonwealth delle Nazioni – lui rispondeva che la
storia del Portogallo imponeva il mantenimento dei territori d’oltremare: «Siamo un
popolo dolente che non sopporta facilmente grandi iniezioni di idee nuove», si giustificava.
Un popolo cresciuto nelle Indie e messo in ginocchio dall’Inquisizione...
Ripensando al cammino della sua vita politica, la parola che forse gli usciva più
dai bisbigli dell’infermità era ingratitudine. Quelli che ora lottavano contro la madrepatria si erano formati in quella che lui
aveva pomposamente chiamato Casa dos Estudantes do Império, nell’Arco do Cego, a Lisbona. Decine e decine di borsisti delle colonie erano passati
da lì: Amílcar Cabral, nativo di Bafatá, seconda città della Guinea; l’angolano Agostinho
Neto, che dopo la laurea in Medicina nel 1958 combatteva contro Lisbona; l’altro angolano
Mário Pinto de Andrade, il filologo che era riuscito persino a entrare alla Sorbona;
Alda Espírito Santo, la poetessa di São Tomé.
Lui li aveva fatti studiare, gli aveva permesso di considerarsi parte della grande
storia lusitana, di venire a conoscere la capitale, di erudirsi nelle austere aule
delle Università di Lisbona e Coimbra, di crearsi una cultura e una professione e
ora si rivoltavano alle concessioni e alle elargizioni che il popolo di Enrico il
Navigatore faceva loro. In realtà, gli accessi erano molto limitati e e controllati.
Ad esempio, i timoresi iscritti agli atenei portoghesi sino al 1970 erano solo due
per anno. «Non si può pretendere da noi una sintesi della nostra azione civilizzatrice
e della nostra azione nella storia universale», dichiarava apertamente il dittatore
consegnando a Dio il compito di giudicare l’operato del Portogallo rispetto alle colonie.
«Per l’Angola, per il Mozambico, per la Guinea! E in forza!», farfugliava. «Le grandi
potenze – aveva detto un giorno ai microfoni della Emissora Nacional – devono convincersi
che l’unica soluzione per l’Africa è quella portoghese, restare là, per superare la
fase di difficoltà. Le indipendenze si potranno dare molto lentamente. L’Europa ci
ha messo secoli per arrivare a essere ciò che è oggi. In Africa serve molto tempo,
forse trecento anni. I popoli primitivi non possono passare da uno stadio all’altro
repentinamente».
Quei nomi li aveva bene in testa, anche nell’oblio di un coma che pareva annebbiargli
la mente. Ogni tanto apriva gli occhi, parlava, teneva immaginari comizi improvvisati
nella stanza 68 dell’ospedale della Croce Rossa. Poi si metteva in silenzio perché
nei suoi pensieri scorrevano gli elenchi della Pide. Pretendeva di sapere nome e cognome
di coloro che erano controllati, perseguitati, imprigionati e torturati. Li studiava
uno ad uno, guardava le foto segnaletiche, cercava di interpretare perché fossero
così ostinatamente legati alle proprie idee, ma poi strappava ogni lista che Silva
Pais, direttore della Pide, gli passava. Erano pagine battute a macchina e ciclostilate
che quasi subito ingiallivano e perdevano il nero dell’inchiostro. Gli piaceva passare
la mano sulle parole impresse senza che macchiassero i polpastrelli. Gli pareva quasi
di accarezzare i volti delle persone impresse nelle fotografie. Da quando aveva creato
la Pvde (Polícia de V
...